venerdì 1 dicembre 2017

il manifesto 1.12.17
La triste storia della diaspora di migliaia di nostri capolavori
«L'Italia dell'arte venduta» di Fabio Isman per Il Mulino. La Serenissima ha perduto il 93% delle antichità accumulate nei secoli d’oro
di Tiziana Migliore

La storia, si sa, la scrivono i vincitori. Anche la migrazione delle opere italiane all’estero è un fatto raccontato a partire dalle collezioni straniere che le detengono. E il punto di vista del «vinto» (Koselleck) nella storia dell’arte? L’Italia dell’arte venduta, di Fabio Isman (Il Mulino, pp. 296, euro 16) è un libro sulla disfatta del patrimonio italiano, sul valore dell’opera non per l’artista, ma agli occhi del Belpaese che l’ha generata.
UNA DIASPORA finora ignota, perché le indagini sulla compravendita delle opere sono scomode – in Italia il bene artistico è da sempre pubblico – ma che andava ricostruita, per leggere una certa ipocrisia del sistema dell’arte: il traffico artistico clandestino è il terzo al mondo, dopo armi e droga.
Isman presenta la controversia fra Source Nations, luoghi d’origine e conservazione del patrimonio, e Market Nations, luoghi di mercato e di internazionalismo della cultura (John H. Merryman): una risposta unica alla domanda se la presenza di capolavori italiani all’estero sia giusta o ingiusta non esiste. L’autore arriva a dimostrare che l’Italia, nei secoli, ha perduto i pezzi migliori della propria arte. E non per necessità, catastrofi naturali, guerre o razzie. Molti tesori assenti compongono i «musei della nostra cattiva coscienza»: di chi è stato avido di denaro, frivolo perché ha ceduto per seguire nuove mode o vile di fronte all’insistenza di antiquari e intermediari (Bernard Berenson prendeva commissioni del 25% sugli «affari» conclusi).
IL VALORE RICONOSCIUTO dagli altri ai nostri beni – musei come il Louvre, il Prado, il Getty, il Met, l’Ermitage, le National Gallery di Londra e di Washington si sono formati con arte italiana e vantano queste loro collezioni – non è il medesimo con cui le riconosciamo noi. Il primo è ancora oggi un valore culturale e intersoggettivo, il secondo è meramente di scambio. Dal sottosuolo italiano è stato estratto furtivamente oltre un milione e mezzo di reperti, subito avviati all’estero e ai maggiori musei. Gran parte del nostro patrimonio è stato trattato come merce, con prezzi in aumento, più della droga, passando di mano in mano.
Chi ha abitato o visitato l’Italia fino alla metà del Settecento ha visto ciò che gli uomini non vedranno mai più: una moltiplicazione di splendori inimmaginabili. Ma già nel 1729 Montesquieu invocava una legge a Roma affinché «le statue non potessero essere vendute che con i palazzi dove sono, sotto pena della confisca dell’edificio». Poi, in carenza di norme, il XIX secolo ha svuotato il Paese, che pure annoverava modelli virtuosi come lo Statuto di Siena, 1309 – «primo dovere di chi governa è la bellezza» – in largo anticipo sulle nozioni di «contesto» e di «intangibilità del patrimonio culturale»: un’opera d’arte non può essere sradicata dalla storia di cui è il prodotto (Quatremère de Quincy, 1796).
ISMAN PROCEDE non in ordine cronologico ma per curiosità, seguendo traversie e parabole di beni italiani che si sono involati: tele arrotolate in finti tubi di scappamento (i van Dyck da Genova), opere smembrate come carne da macello (La Maestà di Duccio da Buoninsegna, 1308, impossibile da ricomporre), vendute «a rate» cioè acquistabili a pezzi o amputate per ricavarne dettagli appetitosi. La Serenissima ha perduto il 93% delle antichità accumulate nei secoli d’oro e quasi l’intera produzione di Tiziano, incluso il quadro che teneva stretto in punto di morte, la Maddalena penitente (1565), oggi all’Ermitage.
A MANTOVA I GONZAGA vendono i 1800 dipinti della «celeste Galleria», procurandosi copie per salvare le apparenze. Gli originali sono a Londra. A Firenze è dispersa la raccolta della famiglia Strozzi, ma due Prigioni (1513) di Michelangelo vengono regalati a Francesco I di Francia nella speranza di un «golpe» contro i Medici. Restano un blasone del Louvre. A Modena, nel 1746, gli Este liquidano i loro 100 quadri migliori con la «vendita di Dresda», senza risparmiare la Madonna Sistina (1513) di Raffaello e la Notte (1525) di Correggio.
A ROMA sono «coventrizzate» le collezioni delle famiglie Colonna (4400 pezzi), Barberini, Ludovisi, Monte e Giustiniani, che aliena 15 Caravaggio, mentre nel 1808 il principe Camillo, per diventare governatore transalpino dell’Impero francese, invia a Napoleone l’intero contenuto di Villa Borghese. Perfino il papa ostacola il gesto di «quella famiglia, disonorata in eterno» (Canova a Napoleone). Altrove se ne vanno soffitti – la Visione a Patmos (1547) di Tiziano è alla National di Washington. Si inabissano anche collezioni recenti. Il Nudo sdraiato a braccia aperte (1917) di Modigliani apparteneva alla raccolta Gianni Mattioli, scomparsa dopo il 1971; si trova oggi nel salotto del miliardario cinese Liu Yiqian: nel 2015 lo ha tranquillamente comprato all’asta da Christie’s per 170 milioni di dollari.