mercoledì 13 dicembre 2017

il manifesto 13.12.17
L’accusa di Amnesty: «Ue e Italia complici dei torturatori libici»
Migranti. Il rapporto dell’Ong svela il sistema di violenza e sfruttamento da parte della Guardia costiera di Tripoli, sostenuta dai governi europei
Migranti detenuti a Tripoli; sotto un’immagine dell’Ong Sea Watch incastra la Guardia Costiera libica durante un «soccorso»
di Adriana Pollice


«I governi europei, e in particolare l’Italia, sono complici delle torture e degli abusi sui migranti detenuti dalle autorità libiche» è la denuncia contenuta nel rapporto di Amnesty International, presentato ieri a Bruxelles. «I governi europei non solo sono pienamente a conoscenza di questi abusi, ma sostengono le autorità nel trattenere le persone in Libia» ha spiegato il direttore di Amnesty per l’Europa, John Dalhuisen. L’Ong ricorda che 500mila persone sono bloccate in Libia, dove subiscono terribili violenze, fino a finire all’asta nei moderni mercati di schiavi.
IL RAPPORTO DI AMNESTY, intitolato Libia: un oscuro intreccio di collusioni, descrive come l’Ue stia sostenendo un sofisticato sistema di sfruttamento dei migranti da parte della Guardia costiera libica, delle autorità addette ai detenuti e dei trafficanti: «In centinaia di migliaia sono in balia delle autorità locali, delle milizie, dei gruppi armati, spesso in combutta tra loro per ottenere vantaggi economici», spiega Dalhuisen. Dalla fine del 2016, l’Ue e l’Italia hanno cercato di sigillare la rotta migratoria. La cooperazione con i libici, spiega l’Ong, prevede: supporto al Dipartimento che gestisce i centri di detenzione; addestramento ed equipaggiamento della Guardia costiera libica; accordi con autorità locali, leader tribali e gruppi armati per incoraggiarli a bloccare il traffico di esseri umani. Dopo il 2011 le milizie sono state integrate nella struttura di sicurezza dello stato: «I gruppi si sono trovati ben pagati e protetti dall’affiliazione alle istituzioni. Così hanno rivolto la loro attenzione anche al controllo della costa».
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LA PRESENZA, nella legislazione libica, del reato d’ingresso irregolare e l’assenza di norme per la protezione dei richiedenti asilo generano la carcerazione di massa: torture, lavori forzati, estorsioni, uccisioni, stupri sono la quotidianità per almeno 20mila persone. Altre migliaia sono imprigionate da gang criminali. Spiega Amnesty: le guardie torturano per estorcere danaro e, quando lo ricevono, passano le vittime ai trafficanti, che organizzano la partenza con la complicità della Guardia costiera. A fine settembre, l’Oim aveva identificato 416.556 migranti presenti in Libia. Nel 2017 le motovedette di Tripoli hanno intercettato 19.452 persone. Un uomo del Gambia, detenuto per tre mesi, ha raccontato: «Volevano soldi per rilasciarmi. Telefonavano ai miei a casa, mentre mi picchiavano con un tubo di gomma, per costringerli a cedere». Pagato il riscatto, è stato messo su un’auto diretta a Tripoli. L’autista ha chiesto altri soldi: «Fino a quando non avessi pagato, avrei dovuto rimanere con lui oppure mi avrebbe venduto».
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POI CI SONO LE ACCUSE all’Italia. Video mostrano una motovedetta libica, la Ras Jadir, provocare il 6 novembre scorso l’annegamento di almeno 50 persone: ignorando i protocolli operativi, non ha lanciato in acqua gli scafi di salvataggio ma ha accostato un gommone in avaria provocandone il semiaffondamento, molti migranti sono finiti in mare. La nave dell’Ong Sea Watch, mandata dal Centro di coordinamento di Roma, è stata costretta ad allontanarsi dal personale libico. Un video mostra i migranti a bordo della Ras Jadir frustati con una cima, un uomo si getta in acqua e viene travolto dalla motovedetta, nessuno prova a salvarlo.
La Ras Jadir è stata donata dall’Italia alle autorità libiche con due cerimonie (a Gaeta il 21 aprile, ad Abu Sittah il 15 maggio), in entrambi i casi c’era il ministro Marco Minniti, grande sponsor degli accordi con Tripoli. Secondo Amnesty, è la prima volta in cui viene documentato che la marina libica ha provocato morti in mare utilizzando mezzi forniti da un governo europeo, quello italiano. L’Italia, prosegue Amnesty, per garantire che la Guardia costiera libica sia il primo attore a intercettare i migranti ha anche agito per limitare il lavoro delle Ong, di nuovo con il sostegno dell’Ue: «La priorità dei governi è la chiusura della rotta del Mediterraneo, con poco riguardo per la sofferenza che ne deriva». Amnesty chiede che l’Europa attivi percorsi legali per i migranti e si impegni affinché «le autorità libiche pongano fine alla detenzione arbitraria, consentano piena operatività all’Alto commissariato Onu per i rifugiati». Amara la conclusione: «I paesi Ue non dovrebbero fingere shock per il costo umano quando collaborano assiduamente con i responsabili». Il commissario europeo alle migrazioni, Dimitris Avramopoulos, respinge le accuse: «Siamo consapevoli ma non complici».
EPPURE LE ACCUSE di Amnesty sono state confermate dai naufraghi sbarcati ieri ad Augusta, salvati dalle Ong Proactiva open arms e Sos Méditerranée. «Sulla spiaggia le guardie in uniforme ci hanno puntato contro le pistole e costretto a salire sul gommone» ha raccontato un ragazzo. «In cella in Libia – ha aggiunto una donna del Camerun – ci picchiavano: mani e piedi legati, appesi a testa in giù, ci hanno colpito per tre giorni sulle articolazioni. Quando gli europei venivano a visitarci, le guardie ci dicevano di non parlare, sceglievano loro chi mostrare. Io però ho parlato, mi hanno punito trascinandomi in strada per 200 metri».

il manifesto 13.12.17
Nessuno può ignorare queste accuse
Amnesty. Se l’Europa collabora direttamente con chi commette crimini contro l’umanità, è responsabile di crimini contro l’umanità
di Alessandro Dal Lago


Che cosa dirà ora Minniti? Ma dirà qualcosa? O farà spallucce, come qualche giorno fa, quando l’Onu ha pesantemente criticato l’Italia per gli accordi con La Libia?
E Gentiloni? Farà finta di nulla? Proprio lui che è appena tornato da un tour in Africa, dove ha promesso investimenti in cambio di un freno all’emigrazione?
Le accuse di Amnesty International, diffuse ieri nel rapporto La rete oscura libica della collusione e riprese da tutta la stampa, sono terribili e circostanziate.
I governi europei, tutti i governi dell’Unione europea, sono consapevolmente complici degli abusi e dei crimini commessi dalle autorità libiche su decine di migliaia di migranti detenuti illegalmente in Libia.
I governi europei conoscono le spaventose condizioni di internamento dei migranti, e quindi sanno di stupri, torture e uccisioni (e ci mancherebbe, con tutti i servizi segreti e le forze speciali che operano in Libia). Inoltre, collaborano al sofisticato sistema di sfruttamento dei rifugiati e dei migranti. Non si tratta solo di collaborazione indiretta, ma di sostegno attivo, come nel caso della Ras Jadir, la nave donata dall’Italia alla Guardia costiera libica e responsabile di una manovra che ha portato, nel novembre 2017, all’annegamento di un numero imprecisato di migranti.
Gli europei hanno allestito il grottesco sistema Frontex, che si occupa di pattugliare le frontiere terrestri e marine dell’Unione e che ha ritirato le sue navi nei porti, per timore che salvassero qualcuno. Hanno elargito quattrini all’Italia, diverse centinaia di milioni di Euro, per fare da sentinella marina e gestire i rapporti con i libici, proprio come avevano finanziato Erdogan per riprendersi i profughi siriani e internarli in campi le cui condizioni disumane sono note. Gli europei, insomma, hanno attuato una strategia di contenimento e dissuasione delle migrazioni che arriva fino alla connivenza attiva con torturatori e criminali di guerra (e di pace).
Ora, se l’Europa collabora direttamente con chi commette crimini contro l’umanità, è responsabile di crimini contro l’umanità. Non giriamo intorno alla questione.
Le accuse di Amnesty contengono accuse che da noi nessuno può ignorare. Non lo può fare il governo, che deve dare una riposta e subito, perché è primo attore della strategia libica. Non lo può fare il presidente della Repubblica, che è garante anche del trattamento degli esseri umani coinvolti dalle politiche migratorie italiane. E non lo può fare la magistratura, che ha il dovere di intervenire sull’azione del governo se ha notizia di reati.
Finora, alcuni magistrati inquirenti si sono mostrati solerti e loquaci solo quando si trattava di accusare le Ong di collusione con i trafficanti, dando la sensazione di agire a sostegno del governo. Come i procuratori di Trapani che hanno sequestrato la nave Juventa della Ong Jugend Rettet. O come il mitico procuratore di Catania Zuccaro, che ha accusato ripetutamente le Ong di accordi con gli scafisti, per dire poi che non aveva prove e che le sue erano mere «ipotesi di lavoro».
Noi, come manifesto queste cose le scriviamo, le diciamo e le denunciamo da sempre. E vorremmo sapere che ne pensa il presidente Grasso, ora che è un leader politico nazionale della sinistra e su queste tragedie dovrà misurarsi non più solo in chiave istituzionale come ha fatto finora, ma di movimento.
Soprattutto che cosa ha da dire l’ex presidente del Consiglio Renzi che voleva «aiutare i migranti a casa loro». E che ha da dire l’onorevole Di Maio, il giulivo candidato premier dei 5 Stelle, che ha attaccato le Ong come «taxi del mare». E ora ci appelliamo a chi non è obnubilato dalla paura dell’invasione degli stranieri perché si faccia sentire e alzi la voce. Perché, se il nostro paese si rende responsabile di crimini contro l’umanità e noi stiamo zitti, anche noi siamo corresponsabili.

La Stampa 13.12.17
In Italia ci sono più poveri che negli altri Stati europei
Quasi 10,5 milioni di persone vivono in stato di estrema privazione Ma nel 2016 la situazione è migliorata: 3,4 milioni di indigenti in meno
di Emanuele Bonini


In Europa l’Italia è il Paese che ha più poveri in termini assoluti. Quasi dieci milioni e mezzo sono le persone che lungo la Penisola hanno difficoltà a tirare avanti, a pagare l’affitto regolarmente, a poter affrontare spese impreviste o avere il riscaldamento. La classifica cambia se si guarda alle percentuali rispetto alla popolazione residente. Ci sono realtà peggiori come quella romena o bulgara, dove quasi la metà della nazione vive in condizioni di ristrettezza economica (49,7% e 47,9% rispettivamente), ma è comunque indice della fatica che ancora fanno gli italiani a uscire dalla crisi.
I dati diffusi da Eurostat nel 2016 registrano 78,5 milioni di cittadini europei in stato di «privazione sociale o materiale», vale a dire in condizioni di povertà. Una situazione migliorata da due anni a questa parte, se si considera che nel territorio dell’Ue nel 2014 la fascia di popolazione con problemi economici contava 98,1 milioni. L’Italia non ha fatto eccezione, e questa è la buona notizia per il Paese, dove nello stesso periodo sono scomparsi 3,4 milioni di persone in precedenza in condizione di sofferenza economica. Sintomo di una ripresa che però ancora fatica a raggiungere tutti.
Le cifre fornite dall’Istituto di statistica europeo confermano il miglioramento della condizione socio-economica seguito alla ripresa, non robusta ma comunque presente. E conferma pure gli sforzi compiuti a livello nazionale. Un riconoscimento a chi, in Italia come altrove, ha saputo fare riforme. I numeri grezzi indicano però che non proprio tutto va per il meglio, soprattutto laddove dove il peggio era considerato passato. È il caso della Spagna, Paese uscito da un programma di assistenza finanziaria, dove il numero dei poveri tra il 2015 e il 2016 è tornato a crescere (+1,2%, pari a più di mezzo milione di nuovi poveri). Non un bene per Madrid, neanche per l’Ue che agli iberici hanno imposto cure lacrime e sangue convinti di aver risolto i problemi spagnoli.
C’è anche qualcos’altro che salta all’occhio. In un momento in cui l’Europa si interroga sull’opportunità di procedere o meno a due o più velocità nella costruzione del progetto comune, la lotta alla riduzione della povertà sembra già seguire queste logiche offrendo dinamiche ben diverse. Ci sono almeno sei Stati membri dove tra il 2015 e il 2016 il numero di individui con difficoltà economiche è aumentato. Uno, come detto, è la Spagna. Ma nel gruppo ci sono anche Romania (+0,1%), Austria (+0,2%), Francia (+0,2%), Lituania (+0,5%) e Belgio (+1%). Per loro l’invito ad agire si fa più necessario.
L’Italia, con i suoi 10,4 milioni di abitanti che faticano a tirare avanti, è quella che vanta al proprio interno la quota numerica più sostanziosa di persone morse dalla povertà. A guardare i tassi, espressi in percentuali, la situazione è comunque peggiore della media europea (17,2% contro 15,7%), ma non così drammatica. E certamente non lo è, se raffrontata a situazioni di altri Stati membri dove le cose vanno decisamente peggio. Ma certo 10,4 milioni di italiani sono un fardello non da poco. Una situazione con cui fare i conti, puntando sull’istruzione.
In Italia come in Europa a vivere in stato di privazione sono soprattutto i cittadini con basso livello di scolarizzazione. Vuol dire che il vaccino alla povertà è lo studio. Diplomati e laureati soffrono meno. I numeri Eurostat suggeriscono questo. Peccato che non più tardi di un mese fa la Commissione europea abbia messo in luce le pecche del sistema Italia, dove il tasso di diplomati e laureati (26,2%) è inferiore rispetto alla media comunitaria (39,1%) e quello di abbandoni scolastici, invece, superiore (13,8% contro il 10,7% Ue). Secondo Bruxelles la riforma della scuola del 2015, in fase di attuazione, «potrebbe migliorare i risultati» del sistema dell’apprendimento italiano. Non guasterebbe.

il manifesto 13.12.17
Sabato a Roma il corteo degli «invisibili»: diritti senza confini per i migranti, casa e reddito per tutti
Contro frontiere e sfruttamento. Il corteo è promosso da un centinaio di associazioni antirazziste, sindacati di base e movimenti per la casa. Insieme ai rifugiati e ai lavoratori migranti, i movimenti per il diritto all'abitare e gli spazi sociali
di Roberto Ciccarelli


Arriveranno sabato 16 dicembre a Roma con centinaia di pullman, le prime stime parlano di 15 mila persone, ma probabilmente saranno di più, per la manifestazione «diritti senza confini».
Partirà da piazza della Repubblica alle 14 ed è promossa da un centinaio di associazioni, sindacati e movimenti: da Usb Si Cobas e Adl Cobas alla Rete dei numeri Pari, dal centro sociale «Je so’ pazzo» ai movimenti per il diritto all’abitare, dal mondo anti-razzista (dal Baobab a Casa Madiba) agli studenti (Rete della Conoscenza). «È il corteo degli invisibili resi tali dalla legge Bossi-Fini, dalla Legge Lupi che stacca le utenze alle occupazioni abitative, dal regolamento di Dublino e dal decreto Minniti Orlando – ha detto il portavoce della manifestazione Aboubakar Soumahoro – Siamo gli esclusi che lavorano nelle campagne, nella logistica, nel lavoro domestico».
Inizialmente prevista a piazza Indipendenza – ad agosto sede di uno dei più violenti e simbolici sgomberi degli ultimi anni a Roma ai danni dei rifugiati del Corno d’Africa (da allora non è stata trovata alcuna soluzione, se non le baracche Ikea) – la conferenza stampa è stata trasferita nella sede della federazione nazionale della Stampa (Fnsi) a seguito di un divieto. Le rivendicazioni sono: il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ai profughi a cui non è stata riconosciuta la protezione internazionale; la regolarizzazione di chi è senza permesso di soggiorno; la cancellazione dell’articolo 5 del piano Lupi sulla casa; l’abolizione della Bossi-Fini, della Minniti-Orlando, del trattato Dublino III e della legge sulla sicurezza urbana che ha trasformato il «decoro urbano» in uno strumento di repressione e di esclusione dei poveri. Infine c’è la proposta di un «reddito minimo» universale e quella sulle spese sociali «fuori dal patto di stabilità».
Contro il corteo è già partito il dispositivo securitario fondato delle fake news su presunti «violenti» infiltrati nel corteo, sorveglianza e controllo preventivo, già rodato in una manifestazione del 25 marzo scorso nella Capitale in occasione del sessantennale dal trattato di Roma. In quella occasione fu sperimentato il sistema del «Daspo urbano» contro manifestanti pacifici, oltre a un sistema di filtraggio che ha impedito a più di un centinaio di persone di partecipare al corteo. Tre pullman furono dirottati al centro di identificazione di Tor Cervara. Per tredici persone scattò il foglio di via.
«Sarà una manifestazione popolare – sostengono gli organizzatori – Non presteremo il fianco a nessun tipo di strumentalizzazione». Con la questura, sostengono, è stato stabilito che i bus entreranno nel centro della città. Un gruppo di avvocati seguirà i mezzi, e poi saranno presenti nel corteo. Nelle stesse ore, a Mentone sul lato del confine francese, è stato annunciato un corteo di solidarietà la manifestazione romana. Tra gli obiettivi c’è anche quello di denunciare la militarizzazione dei confini: a Ventimiglia e a Lampedusa. «La manifestazione -aggiungono i promotori – pone anche il problema della libertà di movimento, la libertà di opinione e di dissenso. Senza questa libertà non è possibile rivendicare i diritti sociali».
Il corteo restituirà una mappa di ciò che si muove in Italia sui diritti dei migranti e sulla casa. Ci saranno coloro che hanno animato la «marcia della dignità» contro il mega ghetto di Conetta, i migranti che lavorano nella filiera dell’agroindustria da Rosarno a Foggia, fino a Latina. E poi gli occupanti del porticato di piazza SS. Apostoli a Roma, sgomberati da Via Quintavalle a Roma il 10 agosto scorso e costretti a vivere in condizioni drammatiche nel centro della Capitale.
La storia degli sgomberati di piazza SS. Apostoli
“Non si nasce poveri, lo si diventa” ha raccontato Claudio, in una drammatica testimonianza durante la conferenza stampa. Da quattro mesi vive nel porticato di piazza SS. Apostoli, è uno degli sgomberati di via Quintavalle. Tutto è iniziato quando la proprietaria dell’immobile, una controllata del Monte dei Paschi di Siena, ha deciso di farla finita con l’occupazione. Prima è stata staccata la luce, una decisione che ha prodotto un’emergenza umanitaria. Nel mese successivo gli occupanti hanno respinto un tentativo di staccare l’acqua. Entrambe le decisioni rispondono ai criteri stabiliti dall’articolo 5 del piano Lupi sulla casa che, inoltre, nega l’iscrizione all’anagrafe. Infine è arrivato lo sgombero. Era il 10 agosto. Dopo una lunga resistenza sul tetto, la fine. Undici occupanti sono stati arrestati, molti altri denunciati. Per i primi ci sono stati tre giorni di fermo. E poi l’esodo. Verso il centro città. E piazza SS Apostoli, per chi conosce Roma, è una piazza a dir poco centrale. Gli sgomberati sono stati, da allora, ospitati nel portico. “Speravamo di avere più visibilità – racconta Claudio – ma siamo rimasti invisibili. Tutti quelli che non accettano gli sgomberi, perché non hanno una casa, lo diventano: invisibili”.
Da oltre quattro mesi si è formata attorno al portico una catena di solidarietà. Le altre occupazioni, le associazioni “ci hanno aiutato con le coperte, il cibo. Il parroco è stato ospitale ci ha dato una mano” continua Claudio.
Ma la situazione sta peggiorando. Nel frattempo è arrivato l’inverno. E manca tutto. A partire dai bagni. “Non abbiamo servizi igienici – sostiene Claudio – Andiamo nei bar vicini. Tranne uno, gli altri non ci fanno usare i bagni. Durante la notte diventa molto difficile questa situazione. Tutto è chiuso nel centro. E poi il gelo. Se durante il giorno ti muovo, porti i figli a scuola, vai al lavoro se ne hai uno, allora te la cavi. Ma per chi non ha tutto questo, e resta fermo, è difficile che riesca ad addormentarsi. In tenda è difficile farsi passare il gelo”.
In questo dramma, la giunta Cinque Stelle continua a esitare. La risposta sembra essere sempre la stessa: dividere i nuclei (circa 45) distinguendo le “fragilità”, con il rischio di separarli. Tra l’altro per chi non risulta “fragile” (portatore di handicap, donna in cinta, o i bambini) il destino sembra essere proprio quello di restarci, in strada. “Abbiamo rifiutato tutte queste opzioni – sostiene Claudio – Quando si parla di “fragilità” bisogna intendersi: qui ci sono molte persone che sono costrette a occupare perché non hanno un lavoro e, se ce l’hanno, non riescono nemmeno a pagarsi un affitto”.
Questa storia, raccontata nel corso della conferenza stampa, è a suo modo un caso di “integrazione”. Tra i nuclei del portico di sono famiglie di diverse nazionalità che convivono da anni insieme. Nella parte più invisibile della città, in quella zona esposta agli occhi che non vogliono vedere, si è formata una “resistenza meticcia”, così l’ha definita Claudio. Un sistema di relazioni presente in tutte le occupazioni nella Capitale, e non solo. Quelle della casa sono anche lotte anti-razziste.

La Stampa 13.12.17
Il fallimento sulle quote migranti infiamma lo scontro in Europa
Moratoria per non danneggiare il governo italiano in campagna elettorale
di Marco Bresolin


La dura presa di posizione di alcuni governi contro Donald Tusk. La piccata reazione della Commissione Ue sintomo di un aspro scontro istituzionale. E una cena tra i leader - domani sera a Bruxelles - in cui si rischia di vedere l’Europa, ancora una volta, spaccarsi sul tema immigrazione. È alta la tensione alla vigilia del Consiglio europeo. E tutto ruota sulla lettera che il presidente del Consiglio ha scritto ai capi di Stato e di governo in cui constata il fallimento del piano di redistribuzione dei rifugiati. Tema che tocca da vicino l’Italia.
Dopo le proteste, il testo - anticipato da La Stampa sabato 9 dicembre - ieri sera è stato leggermente addolcito. Nella forma, ma non nella sostanza: «La questione delle quote obbligatorie si è rivelata essere altamente divisiva - ribadisce Tusk nella nuova versione - e l’approccio ha ricevuto un’attenzione sproporzionata. In questo senso si è rivelato inefficace».
La questione, lunedì, ha tenuto impegnati a lungo gli sherpa dei governi. La riunione preparatoria del summit è durata otto ore «e la metà del tempo è stata dedicata all’immigrazione» spiega una fonte Ue. Il nodo è la riforma di Dublino che regola il diritto d’asilo e in particolare il capitolo sulla redistribuzione automatica dei rifugiati. Parecchie delegazioni hanno manifestato il loro disappunto per i contenuti e i toni della lettera di Tusk, anche se con motivazioni diverse. Ovviamente l’Italia è il Paese che rischia di pagare maggiormente le conseguenze di questo approccio, che va incontro ai riluttanti Paesi dell’Est. Ma chi ha rappresentato il governo durante la riunione non si è sentito solo.
Tedeschi, svedesi e olandesi hanno spiegato che gettare la spugna ora e rinnegare quanto fatto nel recente passato sarebbe sbagliato. I francesi non la vedono molto diversamente da Tusk, ma lo accusano di aver sbagliato i tempi e i modi: «Ha ragione nel sostenere che le quote non hanno funzionato - spiega una fonte di Parigi -, oggi ci troviamo in un vicolo cieco. Ma non lo si può dire ora perché questo danneggerebbe il governo italiano in campagna elettorale. E infatti i leader non lo diranno». Nei prossimi mesi andranno al voto i due Paesi agli antipodi su questo dossier: l’Italia e l’Ungheria. C’è dunque un’intesa per riaprire seriamente il cantiere Dublino soltanto «a urne chiuse». Tusk insiste per un accordo «entro giugno». Altrimenti, dice, sarà lui a presentare una sua proposta.
«Il documento di Tusk è inaccettabile e anti-europeo» ha attaccato Dimitris Avramopoulos, commissario all’immigrazione. Pensiero condiviso da Jean-Claude Juncker. Domattina il presidente della Commissione metterà attorno allo stesso tavolo Paolo Gentiloni e i leader del quartetto Visegrad. Un’inedita riunione in cui Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia offriranno un contributo di «oltre 35 milioni di euro» al Fondo Fiduciario per l’Africa. Ma ribadiranno il loro «no» alle quote obbligatorie di rifugiati.

Corriere 13.12.17
Le strategie anti-corruzione da ripensare
di Sabino Cassese


È vero che l’Italia è endemicamente corrotta? Secondo classifiche dell’ International Country Risk Guide, del Corruption Perception Index, di World Bank Indicators , l’Italia è più corrotta della Namibia, della Georgia, del Ghana, del Ruanda, di Cuba, collocandosi al 90°, al 69° e al 52° posto nelle rispettive classifiche. È vero che l’Italia è endemica. Il costo della corruzione sarebbe di 60 miliardi all’anno, pari a metà del costo della corruzione di tutti i Paesi dell’Unione Europea messi insieme.
Ma già numerosi studiosi hanno dimostrato che il costo stimato della corruzione è una «leggenda» (basta dare una scorsa a quello che hanno scritto Luca Ricolfi e Caterina Guidoni nel volume su «Il pregiudizio universale» edito da Laterza nel 2016). E tutti sanno che la maggiore conoscenza di singoli episodi di corruzione e il modo in cui sono riportati nei «media» influenzano la percezione della corruzione e tendono a dilatarne la portata.
Se i dati su cui si fonda l’impressione di una corruzione capillare, pervasiva, sono fondati su misurazioni della percezione del fenomeno, si potrebbero raccogliere dati più affidabili? L’Istituto nazionale di statistica ha risposto, nell’ottobre scorso, a questa domanda con un rapporto accurato, fondato su un campione di ben 43 mila persone tra i 18 e gli 80 anni, alle quali è stato chiesto di riferire episodi in cui loro o le loro famiglie erano stati destinatari di tentativi di corruzione. Il risultato è che nell’ultimo anno solo l’1,2 per cento delle famiglie ha ricevuto richieste di denaro, favori, regali o altro, in cambio di servizi o agevolazioni. I settori più corrotti si sono rivelati sanità, assistenza, giustizia, uffici pubblici; quelli meno corrotti, forze dell’ordine e istruzione. Il centro-sud è la zona dove è maggiore la corruzione.
Questi dati sulla corruzione misurata , fondati su una rilevazione ufficiale e sicura, confermano quelli già rilevati da Eurobarometro sulle vittime della corruzione, secondo i quali l’Italia sarebbe uno dei Paesi meno corrotti d’Europa, con un indice inferiore alla media europea, alla pari della Francia, nonché quelli sui casi effettivamente verificatisi di corruzione all’estero a danno di imprese multinazionali, secondo i quali l’Italia si collocherebbe poco dopo la Germania, su 152 Paesi. Questi dati, per quanto possano essere viziati dall’omertà di chi è stato intervistato, mostrano quanto distanti dalla realtà sono le indagini basate sulla percezione della corruzione. Su queste, però, si è innestato un circolo vizioso già acutamente rilevato da Romano Prodi sul Corriere della sera dello scorso anno: «Non ci fidiamo dello Stato e moltiplichiamo i controlli e le proibizioni». Questi, a loro volta, producono un effetto di blocco, per cui ai costi della corruzione si aggiungono, per le imprese e per la società intera, i costi dell’anticorruzione in termini di ulteriori adempimenti, di rallentamenti, di divieti. Da ultimo, si è aggiunta la norma, appena approvata scopiazzando male leggi analoghe statunitensi e britanniche, che consente a chiunque di fare segnalazioni conservando l’anonimato (l’identità non può essere rivelata), agendo come gli informatori del «Consiglio dei Dieci» nella Venezia del XIV-XIX secolo. Queste più accurate misurazioni della corruzione consigliano un riesame della politiche anticorruzione. Per arginare la corruzione, bisogna conoscere l’entità del fenomeno, i fattori che lo agevolano, le aree più indiziate, per concentrare gli sforzi, invece di creare sbarramenti generali che rischiano di aumentare strutture, procedure e costi pubblici, rallentando l’azione statale.

Corriere 13.12.17
L’inchiesta le carte
Etruria, l’atto di accusa contro Pierluigi Boschi Le «omissioni del pm»
Dieci giorni fa la proroga delle indagini sul cda
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Le verifiche su Pierluigi Boschi e sugli altri componenti del cda di Etruria «sono di elevatissima complessità perché hanno come oggetto fatti tra loro collegati e di eccezionale complessità tecnica». È questa la motivazione che ha spinto il procuratore di Arezzo Roberto Rossi a chiedere la proroga dell’indagine per bancarotta fraudolenta. La documentazione trasmessa dallo stesso magistrato alla commissione parlamentare banche rivela che gli amministratori dell’istituto di credito sono tuttora sotto inchiesta e i motivi che hanno convinto gli inquirenti ad andare avanti. Ma svela anche un dettaglio fondamentale proprio sulla posizione del padre della sottosegretaria alla presidenza Maria Elena .
Il gip e la data
Durante l’audizione del 30 novembre scorso a palazzo San Macuto il magistrato aveva minimizzato sulla posizione del banchiere lasciando intendere che gli accertamenti sul suo conto fossero terminati e lui fosse di fatto fuori. «Boschi — aveva spiegato — non è tra i rinviati a giudizio per bancarotta. Non so perché si dimentica sempre che Boschi entra nel cda nel 2011 come amministratore senza deleghe. Diventa uno dei due vicepresidenti nel maggio 2014 assieme a Rosi. Noi sulla responsabilità per la bancarotta vediamo i comportamenti e questi discendono dalle delibere. I conflitti di interesse li abbiamo tutti evidenziati, per noi i crediti valgono se vanno poi in sofferenza altrimenti non costituiscono il reato di bancarotta». Dichiarazioni che avevano provocato la reazione entusiasta dei commissari pd e dello stesso Matteo Renzi.
Adesso si scopre invece che la proroga delle indagini era stata richiesta il 28 settembre 2017 e accolta dal gip due mesi dopo, il 28 novembre 2017. Dunque, esattamente due giorni prima che Rossi si presentasse in Parlamento. Perché il magistrato non ne ha fatto cenno? Eppure nella sua richiesta di autorizzazione a svolgere ulteriori controlli aveva sottolineato proprio «l’elevato numero degli indagati, la pendenza di varie deleghe di indagine alla polizia giudiziaria ancora in corso di esecuzione, nonché — a ulteriore illustrazione della straordinaria complessità del procedimento — gli stralci definiti con richiesta di rinvio a giudizio a carico di 29 imputati e con 50 capi di imputazione». Un nuovo mistero che si aggiunge alle «omissioni» sull’altro fascicolo per l’accusa di falso in prospetto che vede Boschi tra gli indagati e del quale il magistrato non aveva parlato.
I nuovi chiarimenti
Ecco perché dalla commissione è partita una nuova richiesta di chiarimenti per Rossi. Su richiesta del parlamentare di Idea Andrea Augello, accolta dall’ufficio di presidenza, il procuratore dovrà adesso trasmettere «tutti gli atti relativi ai filoni di inchiesta ancora aperti». Si tratta dei tre capitoli principali sui quali i magistrati di Arezzo stanno ancora lavorando per individuare le responsabilità di amministratori e manager che avrebbero portato Etruria al dissesto.
Il primo riguarda appunto la bancarotta fraudolenta «e i comportamenti che dovrebbero, almeno in ipotesi, o aver recato danno patrimoniale o aver contribuito a sottrarre ai creditori la possibilità di recuperare le somme dovute». Il secondo attiene alle «consulenze per 13 milioni di euro di cui si parla in un dettagliato rapporto della Guardia di finanza pubblicato dai giornali ma di cui non c’è traccia in commissione». E infine quello sul falso in prospetto «per cui è necessario ottenere copia della delibera del cda con le raccomandazioni al direttore generale sulle emissioni obbligazionarie del 2013. E questo anche per valutare l’efficacia del ruolo svo lto dagli organi di vigilanza».

Corriere 13.12.17
Gli esorcismi dei leader contro i rischi dell’astensione
di Massimo Franco


Silvio Berlusconi è stato l’unico a dirlo esplicitamente, perfino con una punta di brutalità: solo la metà dei parlamentari di Forza Italia sarà ricandidata. Ma il tema riguarda gran parte delle formazioni politiche. La scomparsa di buona parte degli eletti nella prossima legislatura è l’argomento inconfessato della discussione fino al voto. Nella formazione delle liste il ruolo dei segretari sarà determinante. Ma la possibilità di offrire«collegi sicuri» a piene mani si restringe. La riforma elettorale impone logiche diverse. E la sicurezza ostentata dai leader somiglia a un esorcismo.
È un modo per rassicurare eserciti incerti sul risultato; e per spaventare non solo gli avversari degli altri schieramenti, ma quanti competono nella stessa area politica. Uno degli effetti secondari della frammentazione del Parlamento è che dilata le posizioni di rendita. E questo costringe i partiti più grandi a un’acrobatica operazione di inseguimento dei partitini allo scopo di creare una coalizione, e insieme di rilancio del proprio ruolo. Ognuno sembra certo di ottenere una maggioranza: anche se, per rendere credibile l’ affermazione, riduce d’ufficio l’astensionismo.
Così, Berlusconi rivendica la crescita di FI nei sondaggi dal 13 al 17,4 per cento. Matteo Salvini si dice convinto che «il centrodestra a guida leghista può essere maggioranza sia alla Camera che al Senato». E si mostra sicuro di «coinvolgere e appassionare» una parte di quel «cinquanta per cento che ancora non ha deciso chi votare». E Matteo Renzi dichiara che il Pd sarà «il primo partito come numero di voti e il primo gruppo parlamentare... Non saranno pochi quelli che, convinti di entrare in conclave come papa, usciranno cardinali».
Quanto al Movimento 5 Stelle, da mesi si vede a un passo dal governo con più voti di tutti. È chiaro che uno schema del genere è destinato a non funzionare per tutti. L’inserimento nelle liste misurerà per intero il potere dei segretari. Ma, comunque vengano formate, l’astensionismo rappresenta un’incognita che può sconvolgere qualunque calcolo. «I dati sull’assenteismo elettorale sono allarmanti», avverte la presidente della Camera, Laura Boldrini. «Si è visto nelle elezioni in Sicilia e a Ostia. Ma nessun politico si interroga sul perché, preferendo una lettura autoindulgente».
Riaffiora il tema di un’autoreferenzialità che alimenta il distacco. Finora, nessun partito si è dimostrato in grado di arginare questa deriva: neppure i Cinque Stelle, che pure sono cresciuti accreditandosi come argine contro le spinte antisistema più radicali. Oggi anche loro rischiano di vincere in un mare di astensioni. La tentazione di rivoluzionare le liste è il tentativo estremo di riprendere contatto con la realtà. Ma un’analisi che vede nel «nuovismo» e nell’estraneità alla politica il modo per rilanciarla si è già dimostrata a doppio taglio.

il manifesto 13.12.17
I medici: «Subito il contratto e basta tagli alla sanità»
Lo sciopero. Organici all'osso e carichi di lavoro insostenibili, mentre 11 milioni di italiani sono costretti a rinunciare alle cure. Il Def prevede una riduzione delle spese, la legge di Bilancio le segna a carico delle regioni
di Antonio Sciotto


«La sanità chiude un giorno per non chiudere per sempre». I medici italiani hanno scioperato ieri per il rinnovo del contratto e contro «la riduzione all’osso degli organici» e i continui «tagli di spesa», frutto delle politiche degli ultimi anni. Disagi che non pagano soltanto i lavoratori ma tutti i cittadini, costretti in molti casi a rivolgersi al privato o a rinunciare alle cure. Ovviamente sono stati garantiti i casi urgenti, ma secondo Anaao Assomed sono saltati «40 mila interventi chirurgici, centinaia di migliaia di visite specialistiche e prestazioni diagnostiche», oltre al «blocco di tutta l’attività veterinaria connessa al controllo degli alimenti».
Anaao lamenta che a fronte di pochi contratti di specializzazione – «insufficienti rispetto alle esigenze del sistema sanitario» – e con assunzioni per le diverse figure ospedaliere che non vanno a integrare strutturalmente gli organici, ma spesso tappano solo i buchi attraverso contratti di collaborazione, partite Iva o appalti, i carichi di lavoro si fanno sempre più pesanti.
Negli ospedali, protesta l’associazione dei medici, si registrano problemi divenuti ormai insostenibili: «Mancato rispetto di pause e riposi, milioni di ore di lavoro non retribuite e non recuperabili, ferie non godute, turni notturni a un’età alla quale tutte le categorie, pubbliche e private, sono esonerate, reperibilità oltre il dettato contrattuale su più siti contemporaneamente, aumento dei carichi festivi e notturni, progressioni di carriere rarefatte, livelli retributivi inchiodati al 2010 con perdite calcolate fino ai 50 mila euro per i giovani e i livelli apicali».
La Fp Cgil, con il segretario Andrea Filippi, addita anche le responsabilità del governo: «Scioperiamo – ha spiegato a Radio Articolo 1 – proprio in difesa del Servizio sanitario nazionale, alla luce del progressivo definanziamento del Fondo sanitario nazionale che c’è stato in questi ultimi anni. In questa legge di Bilancio, invece, il Fondo non viene toccato. Questo fatto potrebbe essere visto come una buona notizia, dopo tanti anni di tagli, ma in realtà i tagli vengono messi sul fronte delle spese delle regioni. Inoltre, il previsto aumento di un miliardo sul Fondo sanitario, in realtà, è stato ridotto a 400 milioni di euro. Le regioni dovranno quindi affrontare un aumento delle spese per il pay back farmaceutico».
Inoltre, attacca ancora la Cgil, nell’ultimo Def e nella sua variazione, si legge che da qui al 2020 si prevede una riduzione della percentuale di Pil destinata al Servizio sanitario nazionale, che scende sotto la soglia del 6,5%. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, sotto questo tetto si mette a rischio la salute pubblica di un paese.
«Crediamo che tutto questo – dice ancora il segretario di Fp Cgil medici – sia il frutto di una strategia programmata che ha come obiettivo la mortificazione della sanità pubblica. Non è un caso che si registri un aumento costante della spesa privata, che in Italia è organizzata solo in forme sostitutive. Ormai il 10% della spesa sanitaria esce direttamente dalle tasche dei cittadini. Questa operazione va di pari passo con la progressiva delegittimazione dei ruoli, sia economica sia professionale, degli operatori».
Dall’altro lato, in diversi contratti nazionali si rafforzano le coperture del welfare integrativo: un benefit, indubbiamente, per i lavoratori, ma bisogna evitare a tutti i costi che le politiche di incentivazione anche fiscale della sanità privata vadano a detrimento del servizio universale, diritto costituzionale e garanzia per i più poveri, per i disoccupati o per gli stessi working poors. Sono tra gli 11 e i 12 milioni gli italiani costretti a rinunciare alle cure perché troppo costose.

La Stampa 13.12.17
Il tesoro ritrovato
Esposto a Roma il cartone d iGuernica utilizzato per l’arazzo ora all’Onu
Commissionato da Nelson Rockefeller inaugurò una storia di arte e amicizia
di Maurizio Assalto


(EREDI DÜRRBACH) - A Palazzo Giustiniani La mostra «Guernica icona di pace» (a lato il cartone) sarà inaugurata domani dal presidente del Senato Pietro Grasso e aperta al pubblico dal 18 dicembre al 7 gennaio. Dal 13 gennaio al 28 febbraio si trasferirà al Museo Magi ’900 di Pieve di Cento

Non tutti sanno che l’ultima fase della produzione artistica di Picasso fu contrassegnata da un interesse - non certo esclusivo, ma intensamente coltivato - per gli arazzi. È una storia di arte e amicizia, riscoperta attraverso altre storie di amicizia, che torna alla luce grazie a una mostra molto particolare, perché incentrata su un’unica opera, aperta al pubblico a Roma, nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, dal 18 dicembre al 7 gennaio (domani l’inaugurazione da parte del padrone di casa, il presidente del Senato Piero Grasso, a cui seguirà la visita del Capo dello Stato).
Si intitola «Guernica icona di pace», con riferimento all’immagine pittorica più tragicamente paradigmatica del Secolo breve, ma non espone l’apocalittica tela ispirata dal bombardamento nazista del ’37 sulla città martire basca, dipinta in due mesi da Picasso, sulla scia dei Disastri di Goya, su commissione del periclitante governo repubblicano spagnolo per essere presentata all’Expo parigina di quello stesso anno. È invece il cartone di 3,10 per 7,50 metri (pressappoco le stesse dimensioni dell’originale) realizzato nel ’55 dallo stesso artista per ricavarne un arazzo. E proprio in quanto simbolo universale degli orrori della guerra, e tributo a quei valori di pace e democrazia iscritti nella Costituzione italiana che si accinge a festeggiare i suoi 70 anni, il Senato lo accoglie nella propria sede di rappresentanza.
Dimenticato da tutti e ritenuto ormai perduto, quel cartone è stato scovato dalla tenacia investigativa della storica dell’arte Serena Baccaglini, curatrice della mostra, che l’ha già esposto a Praga, San Paolo del Brasile e Wroclaw, e lo porta ora per la prima volta in Italia. Un evento che è anche l’occasione per far rivivere una storia eccezionale.
L’antefatto è noto. Nella Parigi occupata del ’40 un ufficiale nazista fa visita all’atelier di Picasso, in rue des Grands Augustins. «Avete fatto voi questo orrore?», domanda quando si trova di fronte a Guernica. «No», ribatte l’artista, «l’avete fatto voi». Magari l’episodio è stato un po’ abbellito per renderlo esemplare; resta il fatto che nell’Europa sotto il giogo della croce uncinata il quadro non è più al sicuro.
Dalla tela al telaio
Così Nelson Rockefeller, rampollo di una delle più potenti dinastie americane (e futuro vicepresidente degli Stati Uniti negli anni di Gerald Ford) che da anni segue con passione il lavoro di Picasso, si offre di ospitare la tela al Moma, il museo newyorkese fondato nel ’29 da sua madre Abby. Finita la guerra, negli Anni 50 il quadro torna in Europa - non ancora in Spagna, dove per disposizione dell’autore rientrerà soltanto, nell’81 al Reina Sofia di Madrid, dopo la morte del dittatore Franco - in un tour con emblematica tappa anche a Milano, nel ’53, nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale devastata dalle bombe.
A questo punto, però, Rockefeller si è affezionato al dipinto, e chiede all’artista di fargliene una copia. Ma «io non faccio mai due volte lo stesso quadro», è la risposta. Discorso chiuso? No, perché Picasso, che già prima della guerra si era avvicinato all’arte dell’arazzo, proprio in quegli anni, a una mostra in Costa Azzurra, conosce una giovane tessitrice dalle dita d’oro, Jacqueline de la Baume, maritata al pittore e scultore René Dürrbach, a cui nel ’54 affida la trasformazione in arazzo del suo Harlequins del 1920. Sarà lei, un anno dopo, a tessere Guernica in undici colori (anziché i tre del quadro) e tre copie, una delle quali destinata a soddisfare le brame di Rockefeller che, nominato governatore dello Stato di New York, la porterà con sé nella Executive Mansion di Albany. L’artista è così soddisfatto del risultato - «un capolavoro», lo giudica - da dichiarare che soltanto Jacqueline da allora in poi sarà autorizzata a tessere i suoi quadri.
È l’inizio di una comunione artistica che durerà fino alla morte del pittore, nel 1973. Un ménage
à trois, per l’aggiunta di Rockefeller che, non pago delle opere di Picasso già in suo possesso, non potendo avere quelle conservate nei musei si mette a commissionarne le repliche in forma di arazzo: «La forza e lo splendore del tuo lavoro hanno dato alla mia vita una dimensione ulteriore», scrive all’amico, che in realtà non incontrerà mai, in una lettera del 1970. Picasso accetta di cofirmare gli arazzi con Jacqueline, si rimette in gioco, riprende e rielabora su cartone i propri lavori di molti anni prima. E la donna genialmente li traduce in tessuto nel suo atelier di Cavalaire, nei pressi di Saint-Tropez, qualche volta proponendo innovazioni cromatiche, come anche fa Rockefeller, che l’artista qualche volta accetta, più spesso respinge. Ogni passaggio della lavorazione deve essere da lui approvato per iscritto (nell’archivio della Fondazione Rockefeller è stata rintracciata tutta la documentazione), è sua la direzione e la supervisione totale dell’opera.
Ventisei capolavori
Anno dopo anno passarono così al telaio quadri celebri come Les demoiselles d’Avignon («Vedi», dice Picasso alla tessitrice, «queste Demoiselles sono più belle delle mie»), Pêche de nuit à Antibes, Les trois musiciens, L’acrobate, La joye de vivre, La baignade. L’ultimo, nel ’73, è Femme à la mandoline (quadro del 1909, cartone del ’70). In totale 26 arazzi (qualcuno in più copie), 19 dei quali acquistati dal collezionista americano e conservati tuttora presso la sede del Rockefeller Brothers Fund a Kykuit nello Stato di New York.
Ma che fine aveva fatto il cartone di Guernica? E quelli degli altri lavori di Jacqueline? Serena Baccaglini si è trovata sulla strada giusta quasi per caso, anni fa, inseguendo un’altra storia di amicizia - quella tra Picasso e l’attrice Lucia Bosè, che aveva avuto in dono 75 pezzi unici (quadri, disegni, ceramiche) divenuti l’oggetto di una mostra ospitata in diversi sedi in Italia e all’estero. E continuando a lavorare sul tema dell’amicizia (con gli amici l’artista era generoso: al suo barbiere aveva regalato una tazza dipinta, al macellaio l’insegna con l’immagine di un bovino) si imbatté nel fotografo Lucien Clergue, il fondatore dei Rencontres di Arles, antico sodale di Picasso, che le parlò dei cartoni e le suggerì di cercare nel Sud della Francia, tra i figli di Jacqueline, morta a 69 anni nel 1989.
Urlo contro la guerra
Uno dopo l’altro, contro ogni aspettativa, i cartoni sono rispuntati tutti, anche se giacevano da tempo dimenticati, considerati niente più che vecchi strumenti di lavoro ormai inutili: quello di Guernica era arrotolato dentro una cassa abbandonata in un garage. E adesso la studiosa sogna una epocale esposizione che li riunisca tutti, accostandoli ai relativi arazzi sparsi nel mondo tra musei e collezioni private.
Di uno solo la Fondazione Rockefeller si è privata, ed è proprio Guernica, che nel 1985, sei anni dopo la morte del magnate, la vedova ha donato alle Nazioni Unite, e che ora campeggia davanti alla sala del Consiglio di Sicurezza. E tale è la potenza evocativa del suo messaggio, quell’urlo infinito contro la guerra, che quando, nel gennaio del 2003, l’allora segretario di Stato Colin Powell venne a esibire le (false) prove che preludevano all’intervento armato in Iraq, si dovette coprirlo con un telo.

La Stampa TutoScienze 13.12.17
Neuroni e regola del pollice
Ecco il rischio intelligente
Lo psicologo Gerd Gigerenzer al Collegio Carlo Alberto di Torino “Come sopravvivere nell’era degli allarmi e delle fake news”
di Marco Cambiaghi


La mammografia è un buon esame di massa per capire se si ha un tumore al seno? Non è affatto detto. I dati hanno evidenziato che, in 10 anni, su 1000 donne asintomatiche «over 50» che si sono sottoposte allo screening ne sono morte 4, mentre ne sono morte 5 delle 1000 che non si sono sottoposte ai controlli.
Traduzione: quelli che balzano agli occhi di solito sono i dati relativi. In questo caso dicono che con lo screening il rischio è ridotto del 20% e, quindi, siamo portati a pensare che su 100 donne se ne salvano 20. Ma è qui l’errore: considerando i numeri assoluti, quelli reali, la riduzione della mortalità scende solo da 5 a 4 decessi ogni 1000 donne (ecco la riduzione del 20%). Il che significa che si salva solo una donna su 1000. E c’è di più. Delle 1000 donne sottoposte allo screening, 100 hanno poi svolto ulteriori esami, come le biopsie, che hanno evidenziato un falso allarme, mentre 5 hanno subito cure inutili, come la mastectomia. E, allora, cosa è meglio fare? Come capire quando si corre davvero un rischio e come affrontarlo?
A discuterne è Gerd Gigerenzer: psicologo cognitivo a capo del Max Planck Institute per lo Sviluppo Umano di Berlino, è stato ospite, giovedì scorso, della «Lezione Onorato Castellino» al Collegio Carlo Alberto di Torino. In un mondo iper-complesso, sempre più soggetto alla statistica e agli allarmi - ambientali, sanitari e sociali -, oltre che al diluvio delle fake news, capire cosa è reale e cosa non lo è fa la differenza. Gigerenzer, autore dei saggi «Imparare a rischiare» e «Quando i numeri ingannano», editi da Raffaello Cortina, prova una risposta partendo dalle basi: trasformare i numeri, quando ci sono, in capacità decisionale e gestire il potere delle intuizioni.
Capire il rischio non significa evitarlo: se non corressimo rischi, finirebbe l’innovazione e con questa anche le emozioni - osserva Gigerenzer -, ma non dobbiamo nemmeno buttarci a capofitto su ogni cosa, convinti che non picchieremo mai il naso. Il monito è chiaro: «Bisogna prendere in mano la propria vita!». Un punto di partenza è capire che, «spesso, abbiamo paura delle cose sbagliate: in molti Paesi il timore più grande è il terrorismo, ma non ci si rende conto che muoiono molte più persone in auto che a causa degli attentati». Ecco perché è fondamentale un sano autocontrollo. «I giovani, che non smettono di fissare lo smartphone mentre guidano, hanno paura di essere esclusi dal gruppo, se non rispondono subito a un messaggio. Si tratta, in questo caso, di educazione emozionale e autocontrollo digitale. La capacità di staccare, infatti, può essere insegnata».
Usare la testa senza farsi influenzare implica una rivoluzione psicologica, spiega Gigerenzer. Invece, spesso, non funziona così. Molti si fanno prendere dall’ansia quando salgono su un aereo, sebbene si tratti di uno dei mezzi più sicuri. Qual è la ragione? «In passato siamo vissuti in gruppi di 50-100 persone e, quindi, la perdita di qualche vita metteva a rischio il gruppo stesso. Oggi, invece, la sopravvivenza di ciascuno non è più basata su pochi individui».
Ogni giorno - anche se non ce ne rendiamo conto - chiunque fa, in media, tra le mille e le 10 mila scelte. Come non commettere errori? L’essere umano insegue la certezza dalla notte dei tempi. «Ma la ricerca della certezza è il maggior ostacolo che si frappone tra noi e una gestione intelligente del rischio». Se siamo quasi certi che la cometa di Halley ritornerà nel 2062, non possiamo avere la stessa certezza quando pensiamo alla persona con cui vorremmo passare la vita o alla Borsa. «Si deve imparare a convivere proprio con l’incertezza e capire la differenza tra rischi noti e ignoti».
Se i primi sono quelli che si affrontano con la logica o il pensiero statistico, come succede per le puntate al casinò, nel caso dei secondi i fattori in gioco sono troppi e non calcolabili, come in Borsa, ma anche in amore o nella salute. Ecco perché con i rischi ignoti - dice Gigerenzer - si devono usare le «regole del pollice». È l’intuizione o il «senso di pancia». «Non è un capriccio, né chiaroveggenza. Si tratta di una forma di intelligenza inconscia, legata all’esperienza». Il lavoro del cervello, d’altra parte, è per lo più inconsapevole e sarebbe un errore pensare che la conoscenza sia solo intenzionale. «Tuttavia - continua - la società è poco disposta a riconoscerlo, anche se prendere decisioni intelligenti significa sapere quale attrezzo usare per un problema: un martello va bene per un chiodo, non per una vite».
Viene da chiedersi, a questo punto, perché preoccuparci, se ci sono tanti esperti in azione. In realtà, «spesso fraintendono il rischio o non lo spiegano». Ragionare da soli ridiventa fondamentale. Senza dimenticare l’intuito. Quando Gigerenzer va in un ristorante, usa la sua «regola del pollice»: non chiede al cameriere consigli astratti, ma cosa mangerebbe lui. «Non ci deve pensare, è una scelta immediata».

La Stampa TuttoScienze 13.12.17
Quando un occhio va in tilt
il cervello reimpara a vedere
Provato il fenomeno del “blindsight”: “Ora creeremo nuove cure”
di Fabio Di Todaro


Un occhio funzionante c’è, a conferma della possibilità di fare a meno del bastone. Ma nelle persone che non vedono più da un lato, in seguito a un trauma o a un ictus che provoca una lesione nella corteccia visiva primaria dell’emisfero opposto, il piccolo capolavoro lo svolge il cervello.
È grazie alla sua plasticità che si riesce a rispondere agli stimoli che arrivano dalla parte «oscurata» del campo visivo: anche a livello motorio. Il cervello compensa in parte i danni alle aree visive dell’altro emisfero. Come? Reclutando le aree dell’emisfero intatto anche per elaborare i segnali visivi che, normalmente, coinvolgerebbero solo quello lesionato e guidandolo poi nella risposta. Un fenomeno intuito già da qualche anno e descritto adesso, per la prima volta, su «Pnas». In calce c’è la firma di Marco Tamietto, Alessia Celeghin e Matteo Diano dell’Università di Torino e Carlo Marzi dell’Università di Verona.
Mettendo in luce aspetti poco indagati, lo studio ha il merito di spiegare come il cervello promuova il recupero funzionale dopo una lesione alle aree visive. Si è partiti da un riscontro oggettivo: dopo un danno a questo livello della corteccia alcuni pazienti clinicamente ciechi reagiscono inconsapevolmente a stimoli visivi con adeguate risposte motorie. Il fenomeno - in gergo - è noto come «blindsight». Ovvero: visione cieca. Come questo si concretizzi, dopo i risultati sui modelli animali, è quanto spiegato nel lavoro. I ricercatori hanno combinato tecniche comportamentali e di neuroimaging per indagare le reazioni di un paziente di 55 anni con una lesione alla corteccia visiva dell’emisfero sinistro dall’età di otto, conseguenza di un incidente. «I risultati suggeriscono che la capacità non consapevole di rispondere agli stimoli nel campo cieco dipende da una attività compensatoria dell’emisfero intatto, che può essere coinvolto nell’elaborazione dei segnali e nella risposta attraverso il corpo calloso - afferma Tamietto, professore di neuroscienze cognitive -. Il cervello si riorganizza per far fronte alla situazione: sia a livello funzionale sia strutturale, aumentando il numero di fibre che compongono il corpo calloso, il ponte che consente la comunicazione tra i due emisferi». Un fenomeno che finora era stato osservato per le lesioni della corteccia motoria e di alcune aree di quella frontale deputate al controllo dell’attenzione e della pianificazione. Ma mai di quella visiva.
Qualcuno obietterà: una persona cieca in metà campo visivo può guardare con l’occhio opposto alla lesione. Ma la realtà non è così semplice. «Il campo visivo destro, per esempio, non è visto solo dall’occhio destro - aggiunge Alessia Celeghin, ricercatrice e prima firma del lavoro -. E comunque un deficit del campo visivo limita il paziente nelle vita quotidiana». Motivo per cui non basta il solo occhio nel lato opposto per evitare un ostacolo o elaborare una risposta a uno stimolo. Le osservazioni forniscono quindi un riferimento teorico per futuri studi sul recupero funzionale dopo un danno cerebrale e sui meccanismi che mediano le abilità non consapevoli.
«Il prossimo passo è capire cosa fare per incrementare l’attività delle aree integre. L’obiettivo è allenare la parte sana: così si renderà meno invalidante la cecità».

Repubblica 13.12.17
Il dossier
Calo demografico
Il Paese da salvare persi in un anno 200mila italiani
di Michele Bocci


Le proiezioni rivelano un nuovo record di mortalità dopo quello del 2015 E il crollo delle nascite non si arresta: è come se in 12 mesi fosse sparita una città grande come Padova
Due linee che si allontanano. Quella diretta verso il basso indica i nuovi nati, quella che sale rappresenta il numero dei decessi. In mezzo c’è lo spazio per una città da circa 200mila abitanti. È questo il saldo negativo tra chi viene al mondo e chi muore nel nostro Paese.
Come se nel 2017 dall’Italia scomparisse Padova.
Secondo la proiezione dei dati Istat relativi ai primi sette mesi di quest’anno, stiamo viaggiando verso un nuovo record in fatto di morti. Il 2015 sembrava aver segnato un picco irraggiungibile, secondo solo agli anni di guerra, e invece è già in arrivo una replica, forse addirittura un nuovo sorpasso. Due anni fa sono morte 647mila persone, nel 2017 si stima che il dato salirà a circa 663mila. Dopo il calo a 615mila del 2016 sarebbe una nuova, brusca, impennata.
I numeri li ha calcolati Giancarlo Blangiardo, professore di demografia a Milano Bicocca.
«L’Italia invecchia e questi sono i risultati — dice — Oggi abbiamo ben 17mila ultra centenari, ma se andiamo avanti così, nel 2060 diventeranno 140mila. Gli ultra novantenni sono 723mila, ma nel 2060 saranno 2 milioni e mezzo.
Un numero enorme.
L’invecchiamento della popolazione porterà a una frequenza sempre più alta di decessi, ma gli interventi principali andrebbero fatti sull’altro fronte: quello delle nascite, che invece continuano a scendere. Quel trend si può invertire, basti considerare che in Francia, ogni anno, nascono 300mila bambini in più rispetto all’Italia».
Nel 2017, sempre proiettando i dati Istat gennaio-luglio, nel nostro Paese potrebbero esserci circa 4mila nascite in meno rispetto al 2016, per un totale di 469mila bambini. Si tratta di un calo meno accentuato di quello degli anni precedenti. «Le politiche di sostegno alla natalità non devono riguardare solo le famiglie povere, ma anche il ceto medio perché è quello più numeroso. E si possono pensare aiuti pure per il ceto più benestante, al quale poi magari facciamo pagare le tasse», spiega sempre Blangiardo.
Nascite e morti sono comunque connesse. «La struttura demografica che abbiamo creato con le dinamiche passate porta a ridurre le potenziali madri e ad aumentare la popolazione anziana — osserva Alessandro Rosina, ordinario di demografia e statistica sociale alla Cattolica di Milano — Abbiamo un motore di fondo, che fa aumentare i decessi e diminuire le nascite. Questi picchi di mortalità ce li dobbiamo aspettare anche nel futuro. Basta un anno con condizioni sfavorevoli, come un inverno freddo e un’estate molto calda, oppure con bassi tassi di vaccinazione anti influenzale, per vedere numeri alti. A questi picchi si alterneranno dei cali».
In un Paese sempre più vecchio aumentano le persone fragili, destinate ad andarsene nelle annate peggiori.
I dati sulla mortalità di quest’anno porteranno come conseguenza l’abbassamento dell’aspettativa di vita degli italiani. Cosa che aprirà nuove discussioni sulla qualità del welfare e del sistema sanitario nazionale. Che «è buono, ma non particolarmente attento e protettivo nei confronti delle persone anziane», dice sempre Rosina.
È sulla stessa linea Walter Ricciardi, il presidente dell’Istituto superiore di sanità, che ammette come sia necessario cambiare qualcosa nel servizio sanitario. Già nel marzo scorso, dopo aver fatto uno studo su un campione di città, Ricciardi aveva lanciato l’allarme sull’aumento dei decessi per l’influenza. L’Istat conferma: nel gennaio del 2017 i morti sono stati ben 75mila, 20mila in più dello stesso mese del 2016 e 10mila in più del 2015.
«La stagione influenzale è di certo tra i fattori che portano a questi numeri — spiega il medico — Anche perché negli ultimi anni la vaccinazione per questa malattia si è ridotta. Tra un po’ negli Usa uscirà uno studio che dimostra come chi prende la polmonite da pneumococco come complicanza della malattia stagionale, quando finisce in ospedale, ha quasi una probabilità su tre di morire. È un dato altissimo. La vera sfida è proteggere gli anziani e il nostro sistema sanitario nazionale deve organizzarsi per farlo al meglio».

Repubblica 13.15.17
L’indagine
Armi e svastiche nel covo dei neonazi
Blitz e perquisizioni per Do.Ra., la comunità che celebrava Hitler L’inchiesta nata dopo gli articoli di “Repubblica”
di Paolo Berizzi


Varese Hanno festeggiato per anni l’anniversario della nascita di Adolf Hitler: raduni che attiravano nel Varesotto centinaia di naziskin provenienti anche dall’estero, tra fiumi di birra e braccia tese. Adesso la festa gliel’hanno fatta la Procura di Busto Arsizio e la Digos di Varese. Un blitz all’alba, con perquisizioni e cinque denunce per “riorganizzazione del partito fascista”. Rischia di sciogliersi il Sole nero simbolo dei Do. Ra., la Comunità militante dei dodici raggi, il più numeroso e strutturato sodalizio nazionalsocialista attivo in Italia. Quelli che ogni anno piantano croci e portano rune naziste sul monte San Martino per ricordare la morte dei soldati tedeschi delle SS. Quelli che hanno chiesto lo scioglimento dell’Anpi e il processo di tutti i partigiani ancora in vita per crimini di guerra. Quelli che organizzano conferenze esponendo bandiere con la svastica. E di svastiche gli agenti della Digos — con il coordinamento del servizio per il contrasto dell’estremismo e del terrorismo della direzione centrale della polizia di prevenzione, e sotto la guida del pm Maria Cristina Ria — ne hanno trovate ieri nella sede del gruppo, a Caidate, dieci chilometri da Varese. Sede che è stata sequestrata con decreto preventivo ( non accadeva dagli anni ‘ 90 per una formazione politica). Il simbolo del regime nazista era impresso su adesivi, toppe e vessilli. Sempre nel corso delle perquisizioni, che hanno riguardato anche l’abitazione del presidente di Do. Ra., Alessandro Limido, figlio dell’ex calciatore della Juventus, Bruno Limido, sono spuntate armi: asce, coltelli, pugnali. E poi materiale di propaganda, tra cui manifesti, volantini e diverse copie del Mein Kampf di Hitler, la “ Storia segreta della Gestapo”’ e “ Waffen SS — La grande sconosciuta”, di Leon Degrelle. Le indagini su Do. Ra. sono iniziate dieci mesi fa dopo le inchieste e i servizi di “ Repubblica”, che racconta il caso dei neonazisti varesini dal 2013 e che per questo è stata attaccata dagli stessi militanti con striscioni e messaggi intimidatori. Due le ipotesi di reato sulle quali, inizialmente, avevano deciso di procedere le procure di Varese e Busto Arsizio: apologia di fascismo e ricostituzione del disciolto partito fascista, e odio razziale. Il fascicolo principale è poi finito (per competenza territoriale) a Busto. E il pm Ria ha ravvisato la violazione della Legge Scelba (art. 1 e 2).
In sostanza: attraverso una propaganda razzista, iniziative sul web e sul territorio, proclami dei suoi vertici, Do. Ra. avrebbe tentato in questi anni di ricostituire il “ disciolto partito fascista”. Antisemiti e antisistema. “ Nemici della magistratura”. Protagonisti di una resistenza “ ideale” in attesa di riprendere le armi per difendere “ i sacri confini della patria”. Sono i tratti distintivi di Do. Ra. Che fin dalla nascita ( 2012) rivendica un’autonomia “politica” rispetto alle altre formazioni dell’ultradestra. Negli atti di indagine sono finiti, in particolare, due fatti. La manifestazione commemorativa vicino al Sacrario partigiano del monte San Martino dell’anno scorso, durante la quale i naziskin avevano posto sul terreno una runa “tiwaz” e una corona di alloro con i colori della bandiera nazista. E la richiesta choc di sciogliere l’Anpi. Due provocazioni segnalate anche dall’Osservatorio sulle nuove destre. Su Do.Ra. a dicembre 2016 i deputati Pd Emanuele Fiano e Daniele Marantelli avevano presentato un’interrogazione al ministro dell’Interno, Marco Minniti, chiedendo lo scioglimento. Il titolare del Viminale il 25 gennaio aveva risposto durante il question time in aula spiegando — in riferimento al caso — che “l’ordinamento vigente consente l’adozione di un provvedimento di scioglimento solo a seguito di una sentenza penale irrevocabile che abbia accertato il verificarsi della fattispecie della riorganizzazione del disciolto partito fascista”. Nei prossimi giorni l’inchiesta della Procura di Busto Arsizio potrebbe portare a nuovi sviluppi.

Repubblica 13.12.17
La memoria perduta
La verità sulla parola fascismo
di Wlodek Goldkorn


Era il settembre del 1942, quando in una delle sue trasmissioni alla Bbc, destinate al pubblico in Germania, Thomas Mann raccontò ai tedeschi le notizie ( quelle che all’epoca poteva avere) sulla sorte degli ebrei in Polonia e nel resto dell’Europa occupata. Parlò del ghetto di Varsavia, dei treni pieni di persone destinate a morire, dei gas con cui veniva effettuato l’assassinio di massa. Da figlio dell’epoca dei Lumi, il Nobel per la letteratura pensava che spiegando « come stanno le cose » , enunciando « la verità dei fatti » , facendo capire che il sangue degli innocenti ricadrà sulle teste del popolo dei carnefici, avrebbe portato i suoi connazionali a un moto di sdegno e di ribellione; per salvarsi l’anima e forse anche la vita.
Oggi, a 75 anni di distanza da quel discorso, a 72 anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz e con i fascisti che dispiegano i loro vessilli nelle città del Vecchio continente ( la rinascita del fascismo non è un fenomeno solo italiano) sappiamo che un discorso improntato a un modo di pensare razionale e razionalista, legato alla fede nella capacità degli umani di stare dalla parte del Bene, a patto che capiscano la situazione, ecco che un discorso così non è sufficiente per combattere il fascismo. E sappiamo anche che la stessa memoria e la testimonianza sono messe in discussione. Insomma, la pregiudiziale antifascista sembra essere caduta.
Ágnes Heller, 88enne, ebrea, filosofa e quindi sia testimone della Shoah che analista della condizione umana dice: « Non basta indicare il Male perché le persone non compiano il male. La razionalità non è sufficiente. Prendiamo un bambino: dirgli di non torturare il gatto non basta, perché il bambino può sempre rispondere “ fa male al gatto, non a me” » . E quindi? « E quindi bisogna trovare un modo perché il bambino senta e non solo sappia che non occorre fare del male. Per citare Pascal, ci sono le ragioni del cuore » .
Tra le ragioni del cuore che finora abbiamo coltivato ci sono appunto i racconti dei testimoni, i viaggi nei campi di sterminio, prima di tutto ad Auschwitz, immagini e filmati tramandati dall’epoca del nazismo. Tutti quanti, con funzioni pedagogiche e di monito: ecco a che cosa porta il fascismo, quindi “ mai più”. Tuttavia, i testimoni ( a cui tutti auguriamo una vita lunghissima) stanno per mancare del tutto. I viaggi ad Auschwitz certamente avvicinano alla dimensione dell’orrore, ma forse non sono sufficienti perché i liceali che visitano il campo capiscano con quanta facilità si possa diventare non solo le vittime ma anche i carnefici.
Dan Diner, storico tedesco e israeliano, uno dei maggiori esperti delle vicende del secolo scorso e degli ebrei dice in proposito: « La Shoah segna il crollo della stessa episteme dell’Occidente. Si tratta di una catastrofe che ha reso inutili e obsolete le solite categorie con cui abbiamo pensato e che ha reciso il legame tra causa ed effetto » . Conseguenza ne è che oggi, a ormai tre generazioni di distanza, siamo portati a vedere solo le cose che ci appaiono “ concrete”, incapaci, dice Diner di creare metafore, astrazioni, generalizzazioni. Ecco, la parola stessa fascismo ci dice ormai poco, se non come riferimento storico. E poi, forse siamo troppo schiacciati sulla narrazione delle vittime.
È scandaloso pensarlo? Forse è solo paradossale. Prendiamo un esempio drastico ed estremo. Le immagini che conosciamo della Shoah. Nella loro stragrande maggioranza sono fotografie scattate dai nazisti alle loro vittime, un attimo prima di ucciderle. Il nostro sguardo sugli assassinati della Shoah, sulle persone condotte alle camere a gas ( immagini che dovrebbero indurci a ripetere “ mai più”) è lo sguardo dei carnefici; empatia sì, ma empatia estetica, l’estetica del Male. D’altronde, altre immagini non ne abbiamo, tranne pochissime e scattate in condizioni di quasi clandestinità.
E a proposito delle immagini. Jürgen Stroop che comandava le truppe naziste nel ghetto di Varsavia, dopo la sconfitta della Rivolta del 1943, scrisse un rapporto ai suoi superiori a Berlino. Vi accluse oltre cinquanta foto: documenti del suo trionfo. Sono composte per lo più come i dipinti quattrocenteschi: a destra i buoni, i tedeschi; a sinistra i cattivi, gli ebrei. Manca il crocifisso in mezzo. Ma la cosa più importante, tra quelle foto ci sono almeno due immagini emblematiche. La prima, famosissima: il bambino con le mani alzate; vittima innocente. Chiunque l’ha vista decine di volte, riprodotta ormai all’infinito. L’altra, mostra tre insorti, due donne e un uomo, giovani, bellissimi, con le mani alzate ma serrate in un pugno, gli occhi che trasmettono fierezza e sfida; sullo sfondo, fiamme e fumo dei palazzi che bruciano. I tre sono l’immagine della lotta, dell’eroismo, della speranza. Ma quella foto, in cui malgrado se stesso un fotografo nazista immortalò un gesto arcaico ma che rinnova ogni combattente convinto delle proprie ottime ragioni del cuore, la conoscono solo gli esperti. Ecco, forse per combattere oggi il fascismo che rinasce e per recuperare una funzione politica della memoria, occorre tornare a parlare della Resistenza, più che delle vittime inermi.