giovedì 14 dicembre 2017

Il Fatto 14.12.17
Chiusa l’Unità, Pessina finanzia Berlusconi
L’ex editore
Partecipa a una cena di sottoscrizione ad Arcore. Giornalisti e poligrafici in Cig
di Luciano Cerasa


A Natale dobbiamo essere tutti più buoni, come ci ricorda ogni anno la pubblicità del panettone e oltre ai regali da destinare ad amici e familiari è il momento di rivolgere un fattivo pensiero anche ai nostri impegni e doveri verso la società.

Il costruttore milanese Massimo Pessina, socio di maggioranza della casa editrice del quotidiano l’Unità e con una quarantina di lavoratori tra giornalisti e poligrafici finiti in cassa integrazione, pare abbia destinato a questo capitolo edificante del suo budget personale ben diecimila euro. Una bella sommetta, per un imprenditore ufficialmente in difficoltà, che divisa per 40 si tradurrebbe in un piccolo sollievo di 250 euro da mettere sotto l’albero dei suoi esausti dipendenti, ancora in attesa degli stipendi degli ultimi mesi e, nel caso dei poligrafici, anche dell’erogazione del primo assegno della cassa integrazione. Tutto è bene quello che finisce bene, quindi, sentenzierebbe William Shakespeare a chiosa di questa bella storia natalizia, se non fosse proprio per il finale, anzi della fine che Pessina avrebbe fatto fare ai diecimila euro.
Antipasto tricolore, pasta al pesto ai quattro formaggi, sformato di melanzane e panettone artigianale: è il menu a prezzo fisso che il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha offerto l’altra sera a una ventina di imprenditori, tutti accorsi alla sua tavola per finanziargli la campagna elettorale, anche se l’ex Cavaliere mantiene il primato di essere uno degli imprenditori più ricchi del pianeta. La quota da versare, appunto diecimila euro a testa, comprendeva, oltre al godimento per essere accolti dall’anziano tycoon in persona, anche l’apertura straordinaria della casa di Arcore, per la prima volta messa a disposizione per una banale iniziativa di fundraising. E chi c’era, tra quei “fortunati” commensali, secondo quanto riportato dai cronisti di Repubblica e Libero? Proprio Massimo Pessina, l’editore del fu quotidiano della sinistra storica che, finito nelle mani del costruttore grazie ai buoni uffici di Matteo Renzi, ha cessato le pubblicazioni nel giugno scorso, dopo mesi di impegni non mantenuti e a distanza di ben 93 anni dalla sua fondazione. La gestione di Pessina con il rinnovato impegno del Pd è durata due anni, dal momento della terza riapertura nel giugno 2015 alla nuova chiusura. Il nuovo socio aveva sottoscritto dieci milioni di euro, ma non tutti, pare, ancora versati. Investimenti azzerati, redazione e distribuzione strozzate di pari passo al crollo delle copie vendute, una linea editoriale schiacciata su Matteo Renzi, hanno convinto lo stesso Pessina di aver fatto un pessimo affare e della necessità di cercarsi nuovi padrini politici.
Ad attrarre ad Arcore l’ex editore dell’Unità sarà stato decisivo il programma illustrato da Berlusconi insieme alla coordinatrice per la Lombardia, Mariastella Gelmini al dessert: meno tasse, pensione specifica per le donne e più diritti per gli animali.

il manifesto 14.12.17
Donatella Di Cesare, la sovversione di coabitare il mondo
«Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione», per Bollati Boringhieri. Un pensiero politico contro la xenofobia populista e il razzismo. La nostra casa non è lo Stato, né il mercato, ma il mondo intero: l'Internazionale
di Roberto Ciccarelli


Chi è alla ricerca di un’istanza politica contraria al «nazionalismo» in epoca «post-nazionale» e al sovranismo razzista che lega la destra e la sinistra nell’abbraccio mortale con il populismo, la può trovare in Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione (Bollati Boringhieri, pp. 275, euro 19). È un libro importante quello scritto da Donatella Di Cesare, potente nella decostruzione della sovranità, incalzante nello svolgimento tra riflessione genealogica, racconto e saggio. Una prova dello stile della filosofia contemporanea: il «pensiero dell’attualità». Questo libro, scrive l’autrice, è un contributo alla definizione di uno jus migrandi in un momento politico in cui i diritti fondamentali delle persone sono soggetti a una torsione securitaria tale che appare lecito chiedersi se non sia finita l’idea stessa di ospitalità.
LA FILOSOFIA della migrazione non è una teoria dell’erranza senza ritorno alla «terra madre» o all’autorevole «padre». Non è una teoria economica, biologica o un’etica dell’«Altro». È una filosofia politica anti-sovranista, una politica della «coabitazione» nella terra spaesata, per di più in tempi di «globalizzazione» dove facciamo ritorno a una casa che è sempre altrove. Questa filosofia è l’espressione di un «diritto di fuga», mentre la libertà soggettiva di chi emigra è punita, tradotta in mobilità, resa adattabile a «quote» e fabbisogni di manodopera. Il migrare eccede ogni misura e indica un destino più ampio, il soggiorno umano sulla terra riguarda tutti, nessuno escluso.
SIN DA PLATONE e Aristotele la figura dello straniero ha destabilizzato il nomos stanziale della filosofia e oggi scuote le radici dello Stato in quanto átopos – il senza luogo, il fuori-luogo ovunque del nomadismo. Lo Straniero è una figura presente in tutte le culture e le religioni. Nella Torah, ad esempio, gli abitanti della terra sono gherim vetoshavim, stranieri e residenti temporanei allo stesso tempo. Questa è anche la condizione del lavoratore a giornata, il lavoratore che vende la forza lavoro, in cambio ottiene un salario spesso non sufficiente per sopravvivere, in più è sfruttato. Senza contare che, in questo caso, l’estraneità è l’esperienza di tutti i lavoratori rispetto al loro lavoro mercificato. Quando si incarna nel migrante, lo straniero diventa un’anomalia intollerabile. Non è solo un intruso illegale. La sua esistenza segregata in spazi di eccezione è percepita come una sfida all’esistenza dello Stato. Alla «nuda vita» è attribuita una carica sovversiva perché scredita la purezza mitica del potere e rivela i paradossi della cittadinanza: l’inclusione degli «autoctoni» è basata sull’esclusione degli «stranieri». La «democrazia» è tale quando si difende dall’esterno ed esercita un potere coercitivo contro gli inermi anche all’interno.
IL MIGRANTE, in quanto straniero, è una figura abissale perché rivela che l’estraneo non è solo l’altro da me, ma è quello che abita in me. Questa esperienza è stata definita da Freud «perturbante»: è ciò che turba l’ordine dell’Io, mostrando l’inquietudine più grande. L’Io non ha proprietà, una terra a cui appartenere, una coscienza a cui rimettere i suoi peccati, ma è un altro ed è straniero a se stesso. È Unheimlich, un essere-senza-casa. Il migrante mette a nudo il mito dell’identità autoctona, la finzione su cui è fondata la sovranità, il valore che lo Stato difende in nome della «sicurezza». Se l’Io è un altro, scriveva Rimbaud, allora il Sé immobile crolla. Un esito inaccettabile che lo Stato evita ricorrendo alla polizia e agli eserciti. Così la sovranità esibisce il suo ultimo potere: il monopolio della violenza.
QUESTA È LA TRAGEDIA dell’attuale governo italiano: dopo avere respinto i migranti in Libia, li ha guardati sulla Cnn venduti come schiavi. Un delitto atroce che non troverà, probabilmente, un giudice, ma forse molte testimonianze. Stranieri residenti è una di queste. Ed è bruciante. In tedesco esiste una parola che spiega questa esperienza perturbante: Wanderung. Significa migrare e errare. L’equivalenza tra un movimento fisico e l’esperienza dell’errare (vagare, sbagliare) è il fondamento della filosofia della migrazione. Il suo obiettivo è dimostrare che l’abitare non è mai puro. Chi abita in un territorio viene da un movimento e si dirige altrove. Così fa il migrante: il punto dove arriva coincide con una nuova partenza. L’abitante è anche lui un migrante che ha deciso di fermarsi, e poi ripartire di nuovo. Prima di un territorio statale, abitiamo una vita che non appartiene a nessuno ed è comune a tutti. Condividiamo un movimento ancora prima di un’appartenenza. Siamo tutti stranieri e residenti. Su questa «e» si gioca il conflitto.
LA CASA degli stranieri residenti non è lo Stato, né il mercato. È l’Internazionale. La riproposizione di questa categoria è una delle idee originali del libro. Di Cesare la intende come sinonimo di una «coabitazione oltre le appartenenze e la proprietà». In questa prospettiva l’Altro non è una metafisica, non è l’ospite, né può essere rinchiuso nelle contraddizioni del diritto di asilo. Se lo straniero siamo noi, allora il sé e l’altro non sono opposti, ma si implicano a vicenda. Lo straniero non è dunque l’ opposto del cittadino, entrambi sono stranieri residenti in un’Internazionale slegata dal territorio e dalla cittadinanza, capace di trasformare la prima e di superare le aporie della seconda. La coabitazione indica un essere-in-comune, pratica una convergenza politica e mostra un altro modo di stare al mondo. Per gli anarchici e i comunisti la casa è il mondo intero. Per tutti gli altri l’Internazionale è la coabitazione della futura umanità con i prossimi e gli stranieri.

Il Fatto 14.12.17
Su “liberi e uguali”, la polemica demente
di Daniela Ranieri


C’è una parte della cosiddetta sinistra maschile e femminile sedicente femminista che quando si parla di rispetto della parità sessuale gode ad autorappresentarsi dentro uno stereotipo culturale di pura demenza.
Altrimenti non si spiega perché schiere di Senonoraquandiste, truppe hashtaggate di Twitter, deputate del Pd (che mai hanno brillato per femminismo, e anzi si sono comodamente adagiate sul beneficio genetico di essere “quote rosa” nella scuderia di un maschio) si sono imbarcate in questa sciocca, lunare, anti-popolare e pretestuosa polemica attorno al simbolo di Liberi e uguali, la nuova formazione di sinistra guidata da Pietro Grasso che lo stesso Grasso ha presentato in Tv.
La polemica è nata, su quel crinale tra lo zelo dei mistici e il furore degli allucinati (se non sulla pura malafede), da un malinteso: mentre col suo eloquio garibaldino Grasso spiegava il simbolo (la prossima volta chieda a noi, lo sconsigliamo gratis), Fazio ha chiamato “foglioline” il triplice svolazzo che trasforma la “i” finale di “Liberi” in una “e”. Al che Grasso, disabituato al marketing elettorale in cui eccellono i cialtroni della politica e i toreri da talk show, gli è andato dietro, impappinandosi tra questione di genere e questione ambientale e offrendo il fianco ai segugi del Pd. Che, tutto preso com’è dalla gagliarda guerra contro le fake news (degli altri), con l’account del suo organo ufficiale, Democratica, diffonde una fake news inventandosi un virgolettato mai pronunciato: “@PietroGrasso: ‘Ci sono alcune foglioline, a forma di E, che indicano le donne presenti nel nostro movimento e il ruolo che svolgono nel Paese’. Esattamente che vuol dire, presidente?”.
Dell’inarrestabile cascata di indignazione social e invettive antisessiste non è il caso di dare conto (per dire il livello, ecco il parere di Alessia Morani, vicecapoqualcosa del Pd: “Quei giorni in cui ti svegli e scopri di essere cibo per koala #foglioline”). Inutile spiegare che Grasso mai ha chiamato le donne “foglioline”, e che, semmai, insieme a Speranza, Civati e Fratoianni, è stato il primo a porsi il problema e a indicare nelle donne “l’elemento fondante della nostra formazione politica”.
Il punto di caduta del dibattito qui è duplice: da una parte, la furia politicamente corretta che offusca la ragione. Come avrebbe dovuto chiamarsi il nuovo partito per non offendere le sensibilità di genere, se al plurale, laddove ci sono “liberi” e “libere”, in italiano si dice sempre “liberi”? Cambiamo la grammatica? Rinominiamo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino? Riformiamo la Costituzione (stavolta può farlo anche la Boschi), dove dice “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini…”, mettendo un asterisco al posto della “i”? Possibile che le donne di sinistra, che ricordavamo serie, incazzate, ironiche e forti, si accontentino di così poco?
D’altro lato, è evidente che nessun cittadino sano di mente alle prese con la sua esistenza, e eventualmente col suo lavoro ottenuto non grazie ma nonostante la politica, può interessarsi di un tema che appassiona solo qualche enclave di privilegiati. Beato (e beata) quello che pensa di aver finalmente trovato la causa del crollo della sinistra italiana nelle tre linee di Photoshop del simbolo di Liberi e uguali. Così può continuare a ignorare che il Pd perde voti, che si spostano verso il M5S e addirittura verso B. (il quale si sa cosa pensasse delle donne e che pure, come Renzi, al governo ne ha portate parecchie), perché non tutela le donne in termini di parità salariale, garanzie professionali, assistenza sanitaria, applicazione del diritto all’aborto, accesso agli asili nido pubblici, rapporti di lavoro, preferendo esibire donne-immagine in luoghi di potere perché e purché manovrate dal capo.
Così mentre s’inventa lo spauracchio delle fake news putiniane (per colpa delle quali avrebbe perso il referendum), il Pd al governo falcidia la spesa sanitaria, che nel 2010 rappresentava il 24% e nel 2016 il 21,9% dei fondi a disposizione del welfare pubblico (ne ha scritto sul Fatto Luciano Cerasa), e derubrica a “inutili” e dunque a pagamento 208 esami prima gratuiti (il trucco consiste in ciò: sono inutili quegli esami che si rivelano tali solo dopo averli fatti). È un partito che fa man bassa dei salari di uomini e donne e, s’è visto con la banda del Giglio, finanche dei loro risparmi, che fa finta di ridurre la disoccupazione con un magheggio disonesto per il quale risultano occupati anche quelli che hanno lavorato un’ora in un mese, che dimentica il suo elettorato storico per lisciare i padroni e gli apolidi fiscali durante le Leopolde. Se qualcuno pensa che alle donne interessi di più una fogliolina in un simbolo invece che questo, è un maschilista, uomo o donna che sia.

il manifesto 14.12.17
Asia Argento: «Sono vittoriosa, non vittima»
Televisione. A proposito della puntata di #cartabianca, andata in onda lunedì sera su rai3
di Alessandra Pigliaru


Durante l’ultima puntata di #cartabianca andata in onda lunedì sera su Rai3 si è svolta una scena nauseante.
Asia Argento, dopo aver chiesto un confronto pubblico con alcuni dei suoi detrattori, è stata insultata in studio da Pietro Senaldi e Vladimir Luxuria che, se possibile, si sono mostrati ancora più sgradevoli, rozzi e imbarazzanti di quanto siano apparsi nelle scorse settimane su carta stampata e social.
Ma Asia Argento è «vittoriosa, non una vittima» come lei stessa si definisce schivando le accuse di chi non crede alla violenza sessuale da lei subita e denunciata.
Davanti a una Bianca Berlinguer forse troppo tiepida nella conduzione, l’attrice e regista italiana è stata in vario modo denigrata da espressioni tipo «Per esserci violenza dev’esserci dissenso».
Eppure la forza di Argento è stata, ancora, evidente ed efficace. Con un punto che andrebbe sottolineato: all’inizio della trasmissione lei chiede ai suoi interlocutori «Mi chiederete scusa, stasera?».
Cara Asia, perché questa mal riposta speranza? Chi alla tua esperienza risponde con continue canzonature è una causa persa. Bisogna invece trasformare un lessico intero, inventare un linguaggio della lotta che è anche del cuore, un’educazione sentimentale quando si parla di violenza maschile contro le donne.
E bisogna farlo insieme a chi non processa la credibilità di una donna che prende parola pubblica. Il resto sono interlocuzioni guaste in partenza.

Il Fatto 14.12.17
Molestie sessuali, una riflessione oltre Asia Argento
di Silvia Truzzi


Martedì sera, Asia Argento è stata ospite nello studio di Cartabianca. Ed è tutto quello che diremo della trasmissione, perché quel che cantava Giorgio Gaber continua a essere vero (“Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate e in cambio pretendete la libertà di scrivere”). Ed è tutto quello che diremo pure di Asia Argento medesima, provando a concentrarci su alcune sue affermazioni, a nostro avviso più importanti del giudizio su di lei, come attrice, regista e donna. Un vizio del dibattito pubblico su quasi qualunque argomento è ridurre tutto al personale: più dei principi valgono i vari protagonisti, commentatori e commentati. Una selva di io che sposta continuamente l’oggetto della discussione. Forse così si spiega perché il Time abbia deciso di mettere sulla copertina dedicata alla persona dell’anno (le donne di #metoo, che hanno sollevato lo scandalo delle molestie) quattro sconosciute e non volti noti, provando a concentrarsi su qualcosa che riguarda la collettività e non singole persone.
Premessa: Harvey Weinstein è un predatore sessuale, denunciato da quasi cento donne, che hanno raccontato di ricatti e agguati di ogni tipo, perfino stupri. Eppure è tutto un chiedersi perché le vittime hanno taciuto così a lungo, insinuando che l’abbiano fatto per convenienza. A pochi viene in mente che sia per vergogna, per pudore o proprio a causa delle insinuazioni di cui sopra. Che alla fine suggeriscono l’intramontabile “se la sarà cercata”: per una persona abusata non proprio il massimo dell’incoraggiamento ad aprirsi pubblicamente.
“Perché non te ne sei andata?”, “Perché non hai urlato? sono altre domande, che sembrano avere in sé la risposta: se non l’hai fatto ti andava bene. Qui ci si può solo affidare alle testimonianze di tantissime donne che sono state stuprate e hanno raccontato di essersi sentite “pietrificate” dalla paura, incapaci non solo di muoversi ma anche di fiatare. Molte dicono che mentre venivano violentate avevano perfino la sensazione di guardarsi da fuori, come se non stesse accadendo a loro. Come se non potesse essere vero. In studio la Argento ha poi sfiorato un argomento che naturalmente non è stato considerato da nessuno, e che invece è molto interessante: ha detto che la violenza l’ha cambiata e che dopo lei stessa ha cominciato a “oggettivizzare” il suo corpo, cioè a pensarsi come un oggetto. Negli anni dell’“io sono mia”, le femministe hanno cercato di affermare che le donne valgono per quel che sono e non per come appaiono (pur, qualche volta, con esiti comici). Berlusconi imperante, le donne – anche qui non senza qualche fatale isteria, di piazza e non solo – hanno combattuto il tentativo di ridurre il femminile allo stereotipo del corpo nudo, invitante, sessualmente provocante. Quello della donna che t’aspetta “sdraiata sul cofano all’autosalone e ti dice prendimi maschiaccio libidinoso, coglione”. Poi qualcosa è cambiato, forse per via della staffetta generazionale. È cambiato nella protesta (le femen che sfilano in topless), è cambiato nelle consapevolezze delle ragazze. Su Facebook e Instagram molte tra le giovanissime si mostrano ammiccanti e non di rado mezze nude (se non proprio nude). I social network sono un veicolo dell’immagine di sé che si vuole rimandare all’esterno: non è banale che per così tante donne ciò che si desidera comunicare – cioè quel per cui si pensa di poter essere apprezzate – sia il lato B o la scollatura. Tutto ciò non per suggerire che tacchi alti e minigonna siano da evitare, per carità. Solo per dire che sta anche alle donne rivendicare il loro ruolo nella società (per nessuna ragione può tornare a essere ornamentale). E che quando sono vittime hanno diritto di essere trattate come tali.

Il Fatto 14.12.17
Sanità ferita, contro i tagli parte la rivolta dei medici
Oggi lo sciopero generale per la manovra. Dal 2007 persi 9 mila camici bianchi
Sanità ferita, contro i tagli parte la rivolta dei medici
di Roberto Rotunno


Se qualcuno ha in programma per oggi un’operazione non urgente o una visita specialistica in un ospedale pubblico, dovrà rimandare l’appuntamento. I medici del servizio sanitario nazionale sono in sciopero per 24 ore, perché la legge di Stabilità, in discussione al Senato, non contiene nuovi finanziamenti destinati al settore, ma anzi ci sono nuovi tagli. La mancanza di fondi per la cura della salute, secondo i sindacati, “contribuisce a un collasso il cui conto ricade sugli operatori e sui pazienti”. “È curioso – dice Costantino Troise, segretario dell’Assomed – che nella manovra si diano bonus a tutti, anche ai giardinieri, ma si dimentichi la salute dei cittadini”. Le Regioni italiane hanno quantificato un fabbisogno da 1,3 miliardi di euro per fare quantomeno fronte a due adempimenti. Il primo è il rispetto dei “Livelli essenziali di assistenza”, i Lea aggiornati solo l’anno scorso. L’altro è il rinnovo del contratto per il personale della sanità pubblica, con gli aumenti di stipendio promessi dalla ministra Marianna Madia a novembre 2016, alla vigilia del referendum. Dato che parliamo di nuovi costi, insomma, l’assenza di risorse aggiuntive si traduce, di fatto, in un taglio poiché spingerà le Regioni a cercare i fondi necessari all’interno del Fondo sanitario nazionale già definanziato da anni.
Oggi dovrebbero essere 40 mila gli interventi chirurgici che salteranno, oltre a centinaia di migliaia di altre prestazioni da rinviare. “Chiudiamo un giorno per non chiudere per sempre”, dicono i medici. La mobilitazione, che a parole è sostenuta anche dalla ministra Beatrice Lorenzin, è indetta dai sindacati della sanità di Cgil, Cisl e Uil insieme a sette sigle autonome. Non c’è solo il problema del mancato adeguamento delle buste paga (ferme al 2010), ma anche gli organici carenti, i conseguenti turni pesanti, il precariato negli ospedali pubblici.
Il governo spera di firmare il rinnovo del contratto di chi lavora nelle funzioni centrali entro la fine del 2017. Per il comparto sanità, invece, le trattative sono ancora ferme. Nel frattempo, con il blocco del turnover e i tagli abbiamo perso 9 mila medici tra il 2009 e il 2015 a causa dei pensionati non sostituiti. Le condizioni si sono quindi appesantite: “Ormai i dottori lavorano 13 mesi l’anno – spiega Troise – si fanno turni di notte a 70 anni, l’età media è 55 anni”. Dal 2016 è in vigore una direttiva europea che impone un riposo di almeno 11 ore a fine turno, ma questa norma “è disattesa soprattutto al Sud”. Secondo l’osservatorio dei sindacati, se contassimo solo quelli necessari per il rispetto della direttiva, bisognerebbe assumere subito 5 mila medici. Per la Cgil nei prossimi 3 anni serviranno 18 mila medici solo per compensare i pensionamenti.
La penuria riguarda soprattutto gli specialisti a causa di una rigidissima politica del numero chiuso. Due settimane fa si è tenuto il concorso per le scuole di specializzazione: si sono presentati 15 mila laureati, ma solo in 7 mila sono stati ammessi, gli altri dovranno fermarsi almeno un anno. Al massimo, nel frattempo, potranno fare le guardie mediche (pericoloso soprattutto per le donne) o cercare un posto nel privato. In quest’ultimo caso, guadagnerebbero bene, ma resterebbe un rallentamento del percorso di formazione. C’è chi decide di andare all’estero, soprattutto in Germania. Nel 2014, dice l’Istat, 2.363 medici hanno chiesto la documentazione al ministero per esercitare fuori dall’Italia (nel 2009 erano solo 369). Insomma, l’Italia investe per farli studiare nelle università pubbliche, ma poi vengono “regalati” ad altri Paesi. Chi resta spesso è condannato alla precarietà: sono 14 mila – sempre per i radar sindacali – quelli che lavorano con contratti a termine. Metà di loro ha un contratto da dipendente a tempo determinato; gli altri 7 mila sono co.co.co., false partite Iva e altre tipologie: stesso lavoro degli stabili ma senza tutele.
Questo è il quadro fornito da chi di sanità si occupa. Nel settore l’Italia spende l’8,9% del Pil, ma per il 25% si tratta di spesa privata che nel 2016 è arrivata a 37,3 miliardi di euro. Circa 12 milioni di cittadini, ha ricordato a giugno il Censis, rinuncia a curarsi. Secondo l’Eurostat, il nostro Paese destina alla tutela della salute il 28,9% del capitolo protezioni sociali, contro il 42,9% della Germania e il 34,9% della Francia. Al Servizio sanitario sono stati tolti quasi 30 miliardi nell’ultimo decennio.

Corriere 14.12.17
Dna e iride: Pechino scheda un’intera regione
Conclusa la raccolta dei dati biometrici di uiguri (e cinesi) dello Xinjiang per motivi di «salute»
La denuncia di Human Rights Watch: «È una grave violazione della privacy e dei diritti umani»
di Paolo Salom


Dna, scansione dell’iride, impronte digitali e quant’altro sia utile — parliamo di dati biometrici — per identificare una persona al di là di ogni dubbio. In Cina si è da poco conclusa un’operazione senza precedenti nel campo della schedatura dei cittadini. Con un piccolo particolare: riguarda la popolazione tra i 12 e i 65 anni di una sola provincia, lo Xinjiang.
Per l’agenzia Xinhua , organo ufficiale dello Stato, il progetto, denominato «Visite mediche per tutti», ha uno scopo unicamente di salute generale ed è stato offerto «su base volontaria» a 19 dei 21 milioni di residenti della provincia autonoma della Repubblica Popolare, dove risiede la minoranza islamica uigura (11 milioni). Per Human Rights Watch, che ha denunciato la procedura, la realtà è diversa. «Questi dati — si legge in un rapporto pubblicato ieri sul sito dell’organizzazione internazionale — possono essere utilizzati per controllare una popolazione sulla base dell’origine etnica e sono una palese violazione dei diritti fondamentali dei cittadini». Sempre secondo l’organizzazione umanitaria, non tutti i partecipanti alla raccolta delle caratteristiche personali erano al corrente che i medici impegnati nella profilazione avrebbero trasmesso ai servizi di sicurezza l’intero database. «Le autorità locali dello Xinjiang — ha dichiarato Sophie Richardson, direttore dell’ufficio di Hrw dedicato alla Cina — dovrebbero cambiare nome all’intero progetto. Invece di “Visite mediche per tutti”, dovrebbero chiamarlo “Violazione della privacy per tutti”, dal momento che il consenso informato e una reale scelta non sembrano parte di questi programmi».
In base alle linee guida, differenti autorità fungono da centri di raccolta dei dati. I quadri di partito e la polizia sono responsabili delle fotografie, delle impronte digitali e della scansione dell’iride, oltre che dell’ hukou (il permesso di residenza delle famiglie). Usano app per smartphone progettate appositamente. Invece le autorità sanitarie si occupano di raccogliere il Dna e i campioni di plasma per determinarne il gruppo sanguigno. Anche questi dati sono alla fine inviati alla polizia. Pechino ha respinto le accuse di Human Rights Watch, spiegando che il programma ha «uno scopo puramente medico-scientifico», mentre i risultati potranno essere utili per «alleviare la povertà della regione, assicurare una migliore gestione locale» e, soprattutto, «promuovere la stabilità sociale». Curioso tuttavia come la procedura abbia riguardato soltanto i residenti dello Xinjiang, provincia grande oltre cinque volte l’Italia, per lo più desertica (ma ricca di risorse naturali) nell’estremo Nordovest del Paese. Non solo, l’ordine di raccogliere i dati è stato esteso anche a chi si è spostato altrove in Cina, di fatto consegnando alle autorità di polizia un archivio capace di rintracciare nomi, volti e origine etnica di tutti, dentro e fuori la provincia.
Lo Xinjiang è percepito a Pechino come una regione «problematica». Molti degli attentati terroristici che hanno mietuto vittime in Cina sono stati rivendicati da «separatisti» uiguri. Ora, tutti i cittadini, senza distinzione, sono nell’occhio (digitale) del governo.

Corriere 14.17.12
Ex Jugoslavia
La Storia e i tribunali se i giudici puniscono solo i vinti
di Paolo Mieli


In punta di piedi, se ne andrà, tra quindici giorni, il Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini commessi nella ex Jugoslavia. Ha operato — la Corte dell’Aia — per ventiquattro anni, nel corso dei quali sono stati portati alla sbarra 161 imputati: 90 hanno poi ricevuto una sentenza di condanna. L’ultima immagine di questo dibattimento giudiziario destinata a rimanere impressa è quella di fine novembre: il settantaduenne generale croato-bosniaco Slobodan Praljak che, appreso di dover stare in prigione vent’anni (due terzi dei quali, già scontati), si è suicidato ingerendo, davanti alle telecamere, una fiala di veleno. Per la cronaca, Praljak in un primo tempo era stato accusato di aver ordinato, nel 1993, la distruzione dello Stari Most. Si trattava del Ponte vecchio di Mostar, un gioiello architettonico realizzato tra il 1557 e il 1566 sulla Neretva dall’architetto ottomano Hajrudin Mimar per consentire alle comunità cristiana e musulmana di integrarsi tra loro. I giudici dell’Aia, però, avevano assolto Praljak per quell’ordine stabilendo che quel ponte era un «obiettivo legittimo» in quanto costituiva una «linea di rifornimento del nemico». E si erano limitati a condannarlo per altri crimini. Ma anche questo, evidentemente, era per lui intollerabile pur se gli anni da trascorrere in cella sarebbero stati davvero pochi. Del tutto diverso il suo dal caso di Hermann Göring a Norimberga, al quale pure era stato il generale croato impropriamente paragonato.
Göring si era sì dato la morte nell’ottobre del 1946 con il cianuro, ma dopo essere stato condannato a morte. Sarebbe morto comunque. Prima di Praljak si erano suicidati altri imputati di questo interminabile processo: l’ex ministro dell’Interno serbo Vlajko Stojiljkovic, l’ex sindaco di Vukovar Slavko Dokmanovic e, nel marzo del 2006, il quarantottenne presidente della Repubblica serba di Krajina, Milan Babic, impiccatosi in cella mentre stava scontando una pena di tredici anni. Tutti casi di condanne relativamente lievi, ben diversi da quelli del numero due di Adolf Hitler.
Nel corso del tempo trascorso dal 1993, anno in cui il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia fu istituito, ci sono stati altri decessi in cattività. Sei giorni dopo Babic, morì in cella il grande imputato di questo processo, Slobodan Milosevic. Un infarto, si disse, per giunta alla vigilia della condanna. L’ex presidente serbo aveva più volte avanzato il sospetto che i suoi carcerieri lo stessero avvelenando. Sospetti, non suffragati però da evidenze di alcun tipo. Come, peraltro, di dubbi non sorretti da prove ce ne sono stati più d’uno per le morti improvvise di alcuni dei reduci di quella guerra, rinchiusi nella prigione di Scheveningen. In ogni caso, restando a Milosevic, pur senza voler sminuire le sue colpe, va ricordato che nel 2016, dieci anni dopo la sua scomparsa, il Tribunale penale internazionale ha stabilito che non fu responsabile di crimini di guerra in Bosnia. I giudici dell’Aia lo hanno scritto a chiare lettere nella sentenza di duemila e cinquecento pagine con cui hanno condannato a quarant’anni di carcere il leader dei serbi di Bosnia Radovan Karadzic. Anzi, in quella sentenza è stato addirittura dato atto a Milosevic di aver cercato di convincere Karadzic che «la cosa più importante di tutte era mettere fine alla guerra» e che «l’errore più grande dei serbo-bosniaci era di volere la sconfitta totale dei musulmani in Bosnia». Ed è così potuto accadere che (sempre nel 2016) Prokuplje, una cittadina di trentamila abitanti nel Sud della Serbia, annunciasse l’intenzione di costruire un monumento a Milosevic. E che il capo dello Stato, Tomislav Nikolic, un ex leader del dissenso serbo, non ritenesse di dirsi «contrario» mettendo in imbarazzo l’uomo destinato a succedergli, l’allora primo ministro Aleksandar Vucic (il quale, nel merito del giudizio da dare sull’iniziativa di Prokuplje, se l’è cavata dicendosi «combattuto»).
Morale: il pur scrupoloso lavoro dei giudici dell’Aia ha avuto l’effetto di produrre addirittura una iniziale riabilitazione di Milosevic. Senza peraltro dare soddisfazione alle vittime di quella guerra degli anni Novanta. Come dimostra un effetto del già citato «caso Karadzic»: il 24 marzo 2016 la Corte dell’Aia ha condannato Radovan Karadzic — l’uomo che si vantò della «pulizia etnica» — a quarant’anni di carcere per dieci capi di imputazione su undici (quanti ne aveva individuato dall’accusa). Ripetiamo, dieci su undici: Karadzic è stato ritenuto responsabile del massacro di Srebrenica (1995), di altri cinque misfatti contro l’umanità e quattro di guerra. Ma è stato assolto dall’accusa di genocidio in sette comuni bosniaci, dove le forze militari serbe da lui comandate si sarebbero macchiate di esecuzioni, stupri di massa e avrebbero gestito campi di concentramento con l’intenzione di uccidere quanti più musulmani possibile. I giudici hanno sentenziato che di ciò non esisteva prova certa, ed è bastato questo perché il senso della loro decisione fosse capovolto. Un superstite di quelle stragi, Amir Kulagiv, ha dichiarato: «La condanna appare come un premio per quello che Karadzic ha fatto, non una punizione... Questa sentenza non rende giustizia nemmeno a una sola persona assassinata a Srebrenica, figuriamoci alle molte migliaia di morti». Dopodiché nella Republika Srpska , uno staterello bosniaco controllato dalla Serbia, la casa dello studente di Pale (cittadina da cui fu lanciato l’assedio a Sarajevo), è stata battezzata con il nome di Karadzic e alla cerimonia di inaugurazione hanno presenziato la moglie del condannato nonché il presidente Milorad Dodik. Ecco: chi è curioso di sapere come possa accadere che dei criminali di guerra possano, dopo qualche tempo, diventare oggetto di venerazione potrà d’ora in poi studiare con profitto il caso jugoslavo.
Quanto a noi, resta il dilemma che ci perseguita dai processi di Norimberga e Tokyo, i quali sanzionarono le colpe di tedeschi e giapponesi alla fine della Seconda guerra mondiale. Si può considerare «giusto» un Tribunale che, al termine di un conflitto (a maggior ragione se si tratta di una guerra civile), scopra e punisca esclusivamente reati commessi dagli sconfitti? Possibile che non si riesca a trovare neanche una macchiolina sull’abito dei vincitori?
Siamo proprio sicuri — ad esempio — che i musulmani bosniaci di Alija Izetbegovic non abbiano qualche morto sulla coscienza? E c’è qualcosa da dire anche a proposito di noi europei, delle Nazioni Unite, dell’Occidente nel suo insieme. Il generale serbo Ratko Mladic il 4 giugno del 1995 incontrò il generale francese Bernard Janvier che comandava le forze Onu nella ex Jugoslavia ed era disposto a qualsiasi concessione pur di ottenere la liberazione dei suoi caschi blu, in gran parte francesi, trasformati dai serbi in scudi umani. Mladic, in cambio del loro «rilascio», chiese la fine dei raid aerei della Nato; la ottenne e marciò su Srebrenica da cui il colonnello Thom Karremans, al comando del battaglione di caschi blu olandesi, l’11 luglio si ritirò chiudendo un occhio, anzi tutti e due, su quel che stava per accadere. Risultato una carneficina con un bilancio finale di ottomila morti. Per quella strage, pochi giorni fa, a fine novembre, Mladic è stato, giustamente, condannato all’ergastolo. Ma forse avrebbe dovuto essere sanzionato con un simbolico giorno di prigione anche qualcuno di coloro che consapevolmente gli consentirono di uccidere quelle migliaia di persone. Non tutti. Almeno uno.

Corriere 14.12.17
Elzeviro / Un libro di Pucci e Bettini
L’angoscia di fare i conti con Medea
di Eva Cantarella


Il suo nome torna ogni volta che in qualunque parte del mondo una donna uccide i propri figli per vendicarsi di un abbandono: è Medea. Questa è infatti l’immagine di lei che Euripide presentò agli spettatori quando, nel 431 a.C., ad Atene, mise in scena la sua storia. Ma le fonti e le infinite rivisitazioni del suo mito ce ne hanno presentate anche tante altre. Ed è a queste altre (accanto a quella ormai canonica euripidea) che è dedicato il libro Il mito di Medea. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi (Einaudi, pagine 321, e 30), nel quale Giuseppe Pucci (al termine di un bellissimo racconto di Maurizio Bettini in cui è Medea stessa a raccontare la sua storia) ci descrive le vicende delle «figlicide», che — semplificando al massimo il discorso — cercheremo di illustrare partendo dal giorno in cui nella lontana Colchide (più o meno l’attuale Georgia) giunse Giasone, l’eroe ateniese che doveva riportare in Grecia il Vello d’Oro (magica pelle di un animale dal manto d’oro, appunto). Non appena lo vide Medea, figlia del locale re Eeta, se ne innamorò e, dopo averlo aiutato a compiere l’impresa altrimenti impossibile, lo seguì nella sua fuga alla volta della Grecia, stanziandosi a Corinto con lui e i due figli nati dalla loro unione. Fino al giorno in cui venne a sapere che Giasone stava per sposare la figlia del re del luogo, per ordine del quale lei avrebbe dovuto abbandonare Corinto insieme ai figli. E, dopo un inutile confronto con il vile e tronfio Giasone, organizzò la vendetta, uccidendo la rivale e quindi i propri figli.
Ma lo abbiamo detto, accanto a quella vendicativa euripidea ci sono molte altre Medee. Per cominciare, c’è la maga straniera, capace di crimini efferati come l’uccisione del fratello Assirto, che l’aveva seguita nella fuga verso la Grecia: dopo averne fatto a brani il cadavere, Medea ne aveva gettato in mare i pezzi uno alla volta, costringendo il padre che li inseguiva a fermarsi per raccoglierli: così aveva salvato la sua vita e quella di Giasone. Non meno atroce la morte escogitata per eliminare il vecchio Pelia, zio di Giasone. Temendo che questi volesse attentare alla vita del nipote, Medea aveva convinto le sue figlie a immergerlo in un calderone di acqua bollente in cui aveva gettato delle erbe magiche, grazie alle quali Pelia sarebbe ringiovanito: e Pelia era morto bollito. Ma c’è anche un’ulteriore Medea: la profuga giunta da un Paese dai costumi diversi, alla quale si attribuivano tutti i possibili crimini, l’esule che nessuno accoglieva, che non aveva un Paese dove crescere i figli e che li uccide per risparmiar loro la vita che li avrebbe aspettati se fossero vissuti.
Non meno importante della prima, e non meno appassionante, la seconda parte del libro dedicata a «la Medea dei moderni» nella letteratura e nel teatro, nell’opera e nel cinema, dalla quale Medea emerge come il personaggio tragico che forse meglio di ogni altro si è prestato a rappresentare la tragedia di qualunque discriminazione e ingiustizia, da quella di genere a quella politica, da quella economica a quella etnica.
A seguire, dopo le indicazioni iconografiche, troviamo un capitolo conclusivo sul «complesso di Medea», che tratteggia le diverse interpretazioni psicoanalitiche in materia e si conclude con la considerazione che «come che sia, se empatizzare con Medea è difficile, se non impossibile, dobbiamo pur sempre attrezzarci per conviverci, perché, lo vogliamo o no, le madri assassine sono intorno a noi». Da sempre, ben prima di Euripide: «Ma da duemilacinquecento anni, grazie a lui, siamo costretti a guardare in faccia quel fantasma, per fare i conti con le angosce che esso ci dà». Che altro dire se non che questo è un libro che vale veramente la pena di leggere?

Repubblica 14.12.17
Biotestamento una legge per la dignità
di Michela Marzano


Dopo mesi e mesi di ostruzionismo, decine di migliaia di emendamenti, discussioni assurde e incomprensibili sul dovere di ogni medico di «dare da mangiare agli affamati» e da «bere agli assetati», la legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (Dat), ossia il testamento biologico, è in dirittura d’arrivo. Ormai nessuno potrà più ostinarsi a somministrare a un paziente «cure inutili o sproporzionate», recita il testo della norma. Ormai «in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda e continua», continua il testo. Ormai, non solo un paziente potrà rifiutare in tutto o in parte le cure che gli vengono proposte, incluse la nutrizione e l’idratazione artificiali, ma ognuno di noi potrà anche esprimere anticipatamente le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari in previsione di una sua possibile e futura incapacità a comunicare. Il Parlamento sembra quindi avercela fatta a non cedere alle pressioni di chi ha cercato in ogni modo di ostacolare il sacrosanto diritto di ognuno di potersene andare quando ormai non c’è più nulla da fare. Erano anni che il fronte del “no” invocava i concetti di «sacralità della vita» e di «dignità della persona», facendo finta di non sapere che la dignità di ognuno di noi si fonda sulla nostra autonomia. Erano anni che l’ostinazione di alcuni parlamentari costruiva muri invalicabili tra la politica e la realtà, ignorando la differenza fondamentale che esiste tra il «far morire» e il «lasciar morire», «l’eutanasia attiva» e «l’eutanasia passiva», la dignità e l’intransigenza. Molto bene, quindi. Anche perché l’Italia, da un punto di vista culturale, è pronta da tempo. Ha seguito con emozione le battaglie portate avanti per più di quindici anni da Peppe Englaro per «intravedere la possibilità di strappare Eluana a quell’inferno che lei non voleva». Si è commossa davanti alla drammatica decisione di dj Fabo di recarsi in Svizzera per non essere più obbligato a restare in vita. Ha condiviso le riflessioni del professor Mario Sabatelli quando il neurologo del Gemelli, citando papa Pio XII, ha spiegato che il compito di un medico è soprattutto quello di lenire le sofferenze, anche quando i farmaci possono accelerare la morte di un paziente. L’Italia era quindi pronta da tempo, e aspettava solo che il legislatore riluttante si decidesse una buona volta per tutte a dare forma giuridica al diritto per ognuno di noi di morire con dignità e senza dolore. Certo, una volta approvata definitivamente la legge, si dovrà fare lo sforzo di rendere la norma realmente operativa, spiegando a tutti le modalità tecnico-amministrative con cui redigere le Dat. Certo, esistono delle ambivalenze nella legge – frutto dei compromessi politici talvolta necessari all’approvazione di norme sui diritti – che danno ancora al medico un forte potere discrezionale. Ma si tratta, in fondo, di un primo e fondamentale passo in avanti sulla strada del riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei pazienti. Che, finalmente, taglia le gambe al paternalismo retrogrado di quei medici che, per troppo tempo, si sono arrogati il diritto di mantenere in vita coloro che, dalla vita, si erano già allontanati, tradendo così la propria vocazione.