martedì 12 dicembre 2017

Corriere 12.12.17
Il pretesto della pazzia
Le donne ribelli o vittime di violenza erano spesso rinchiuse in manicomio
Un saggio di Annacarla Valeriano (Donzelli) sull’uso degli ospedali psichiatrici come strumento per colpire i comportamenti femminili ritenuti trasgressivi.Una pratica intensificata sotto il fascismo ma proseguita anche nel dopoguerra
di Paolo Mieli


Un lavoro straordinario, quello portato a compimento da Annacarla Valeriano, che ha passato in esame le cartelle cliniche delle ricoverate nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al 1950, per definire un «percorso dell’esclusione» assai particolare. Esclusione che «tende a essere interpretata spesso come una condizione ineluttabile toccata in sorte ai più deboli, ai più disperati, la naturale conseguenza di stili di vita condotti fuori dagli schemi». E che proprio per questo «appare» come un «oggetto» opaco, «confinata ai margini di società in continua trasformazione o racchiusa tra le mura di un luogo deputato a gestirla, fino a farne perdere le tracce». Un «percorso» che inizia, ovviamente, ben prima della marcia su Roma, ma che — come vedremo — trova il suo culmine ideologico proprio nel ventennio mussoliniano. Ne è venuto fuori un libro prezioso, Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista (Donzelli), che, è prevedibile, verrà discusso con grande interesse.
In principio — come ha raccontato David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (Laterza) — fu la legge del 1904, imperniata sul concetto del malato di mente come persona pericolosa e «non più adeguata all’evoluzione sociale dei tempi» che dovrà essere iscritta nel casellario giudiziario come da imposizione dell’articolo 604 del Codice di procedura penale. Un’importante questione sarà in tempi immediatamente successivi quella della «cornice eugenetica» all’interno della quale, già nel corso della Prima guerra mondiale, andrà collocato il trattamento delle donne (ma non solo) negli ospedali di cura delle malattie mentali. Il punto di riferimento era, però, precedente all’esplosione del conflitto, per la precisione il primo Congresso internazionale di eugenica tenuto a Londra nel 1912, i cui risultati erano stati immediatamente recepiti e portati nel nostro Paese dal Comitato italiano per gli studi di eugenica, nato nel 1913 proprio per «studiare i fattori che possono determinare il progresso o la decadenza delle razze, sia sotto l’aspetto fisico, sia sotto quello psichico». Ma, avverte Valeriano, l’eugenica italiana — a differenza di quel che si potrebbe credere — non era affatto in sintonia con quelle dell’Europa settentrionale: la prevenzione, l’igiene, il recupero morale delimitarono i confini del discorso scientifico in Italia e consentirono al nostro Paese di non sfociare nelle «esagerazioni» tedesche. Poi venne la Grande guerra. Le donne ricoverate in frenocomio tra il 1915 e il 1918 — «con patologie che sembravano avere un collegamento diretto con i traumi bellici» — «furono probabilmente inquadrate in quella categoria psichicamente tarata, incapace di sopportare l’urto degli eventi, sulla quale era bene adottare delle misure di risanamento». Se si guarda alle cartelle cliniche, «è facile accorgersi di come ad essere medicalizzata fosse stata la sfera dei sentimenti»: «emotività, paura, rifiuto, quando non incanalati», erano deviati in «un indicibile tormento», con «manifestazioni a colorito depressivo che avevano perlopiù congelato le pazienti in stato di torpore e apatia». In questa dimensione sospesa «tutto il mondo si era annullato ed era rimasta in piedi solo la violenza del trauma vissuto».
L’immobilità, l’incapacità di assolvere i ruoli, di accudire i figli e di «far continuare la vita» — come scrive Anna Bravo in Donne e uomini nelle guerre mondiali (Laterza) — il non essere più le stesse persone che gli uomini avevano lasciato a casa nel giorno dell’arruolamento, animano i documenti che fotografano «un microcosmo femminile lacerato dall’esperienza bellica, irrimediabilmente compromesso nelle sue consuetudini». Bombardamenti, «ansie, attese, paure, fame erano divenuti orizzonti familiari nella quotidianità delle donne e non tutte riuscirono a uscirne indenni». Quantomeno negli equilibri psichici. I «deliri di perdizione e di rovina» erano «una manifestazione tipica dell’angoscia indotta dalla guerra». Attraverso la negazione del proprio corpo, della propria personalità, del proprio essere nel mondo aveva trovato espressione la sensazione di essere state tagliate fuori da un universo di valori e di abitudini al quale non si sarebbe più fatto ritorno.
In Italia il cosiddetto «grande internamento manicomiale», scrive Valeriano, può essere individuato in un periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Ed è nel corso di questi decenni che viene edificato un consistente numero di manicomi su tutto il territorio nazionale. Questo periodo coincide con la nascita di un Paese moderno «così come siamo abituati a pensarlo oggi». Un «Paese moderno» nel quale, accanto alle campagne, cominciavano a svilupparsi grandi agglomerati urbani capaci di accogliere famiglie sempre più numerose, in cui compaiono «infrastrutture potenziate» anche dal sistema manicomiale, concepito per «assistere la follia», ma usato «soprattutto per mantenere l’ordine pubblico e la tutela della moralità, attraverso la presa in carico della pericolosità sociale e del pubblico scandalo».
Questo aspetto «già dispiegato all’indomani dell’Unità d’Italia, si irrobustisce negli anni del fascismo quando, con la stretta repressiva attuata dal regime, si ampliano i contorni che circoscrivono i concetti di marginalità e devianze». I manicomi, di riflesso, accentuano la loro dimensione di controllo, affiancandosi allo Stato per contribuire a plasmare «uomini e donne chiamati ad assolvere una serie di compiti che rispecchiano il clima dei “tempi nuovi” e a mettere le proprie vite al servizio della “rivoluzione fascista”». È in questa fase storica che in manicomio finisce la «malacarne» che, «nella sua destinazione di genere», è composta da «quelle donne che si discostano dall’ideale fascista della sposa e madre esemplare e che con le loro condotte intemperanti, con le loro esuberanze, con la loro inadeguatezza fisica, rischiano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato». Attorno a queste «anomalie della femminilità», ridotte dallo sguardo psichiatrico a semplici «corpi» che «non eseguono più i loro doveri e che si dimostrano incapaci di qualsiasi freno», il regime mussoliniano «intreccia discorsi diversi, attingendo in larga parte alle costruzioni culturali di matrice positivista intessute per conferire un’identità a quelle frange marginali che sono in antitesi con la parte sana della società».
Dalla consultazione della documentazione medica e della pubblicistica di regime «balza però agli occhi come i “discorsi” sulle donne diverse non siano una novità introdotta dal fascismo ma siano stati, semmai, ideologicamente utilizzati nel corso del Ventennio per delimitare la devianza femminile e contrapporre ad essa un’immagine pubblica di femminilità disposta ad assolvere compiti e doveri nell’interesse comune». Si tratta «di un’operazione di reinvenzione delle identità femminili». Attuata dal regime «con la volontà esplicita di inserire anche le donne in un più ampio progetto di educazione spirituale e morale, al fine di trasformarle in cellule organicamente produttive, soggetti capaci di interagire armonicamente con l’apparato statale, fondendosi in esso come ingranaggi perfettamente sincronizzati». L’ospedale per «malati di mente», in uno scenario di questo tipo, «oltre a controllare e custodire l’anormalità, diventa», scrive Valeriano, «uno dei luoghi in cui attuare una politica di sorveglianza che annulla i diritti individuali in nome dell’ordine pubblico». All’istituzione psichiatrica vengono consegnate «quelle donne che si rifiutano di conformare il proprio stile di vita agli ideali proposti dal fascismo e che, proprio per questa ragione, hanno bisogno di essere rieducate attraverso la disciplina manicomiale per riportare le loro condotte entro i recinti di una normalità biologicamente e socialmente costruita». Lo stesso richiamo alla «normalità biologica» diventa essenziale all’interno della politica sanitaria che, già a partire dal 1927, si incardina sui temi della «difesa» e della «cura della razza» e si impegna per la «realizzazione di obiettivi di politica demografica attraverso l’allontanamento dalla società di coloro che, tarati sotto il profilo somatico e morale, non possono trovare altro spazio di accoglienza se non in luoghi — come i manicomi — deputati al trattamento dei comportamenti più turbolenti e al risanamento degli istinti deviati».
In questo sistema assistenziale, «riprogrammato sugli obiettivi di politica demografica», i manicomi «conoscono uno sviluppo sostanziale e registrano per tutto il Ventennio un aumento costante dei ricoverati, tanto che tra il 1927 e il 1941 i pazienti passano da circa sessantamila a quasi novantacinquemila unità». Tra le loro mura vengono rinchiuse «le madri inadeguate — che hanno ricusato un ruolo materno vissuto come costrittivo — oppure le ragazze ribelli, colpevoli di non saper controllare pulsioni sessuali, caratteri indomiti, e assimilate, in diversi casi, a vecchie figure patologiche come le isteriche di Charcot»; ma anche donne che oggi tutti sarebbero naturalmente portati a «tutelare», come «le vittime di violenza carnale o dei traumi di guerra».
Poi il fascismo cadde, ma il secondo dopoguerra fu, per la «malacarne», ugualmente terribile. Annacarla Valeriano riporta alla luce diversi casi inquietanti. Quello della giovane ricoverata dopo essersi ribellata allo zio e alla madre, con i quali aveva avuto dissidi e «litigi continui», finché il medico di famiglia l’aveva dichiarata «affetta da isterismo di alto grado». La presa di coscienza avvenne solo negli anni Sessanta. Dapprima con un libro di Lieta Harrison, Le svergognate (Edizioni di Novissima). Poi con una serie di articoli di Angelo Del Boca, successivamente raccolti nel volume Manicomi come lager (Edizioni dell’Albero). In quegli stessi anni Sessanta il ministro socialista della Sanità, Luigi Mariotti, inizia una campagna di denuncia degli ospedali psichiatrici, divenuti, a suo dire, vere e proprie «bolge dantesche».
È incredibile, ma ancora cinquant’anni fa — come documenta ampiamente Pier Maria Furlan in Sbatti il matto in prima pagina. I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia (Donzelli) — i manicomi erano affollati da donne «sane trattate come pazze solo per punizione». Donne rinchiuse perché avevano palesato un «temperamento ostinato e ribelle», compiendo «fughe frequenti e immotivate da casa», cercando la compagnia di «uomini di qualunque ceto e condizione». In alcuni casi erano accusate di essersi rese protagoniste di litigi «con la portiera e i vicini di casa». In altri di aver condotto «vita irregolare con spiccate tendenze erotiche e rifiuto di qualsiasi ordine o minima regola di vita». Talvolta di aver «tralasciato le preoccupazioni per la famiglia» e qualcuna di aver preferito spendere «sconsideratamente il denaro che il marito le affidava». Oppure di aver esibito, a detta dei parenti più stretti, un «comportamento inadeguato» e «abnorme in campo sessuale». Qualcuna, anziché dedicarsi alle «faccende», aveva cominciato a «uscire molto spesso e a dimenticare l’ora del rientro a casa». Suo padre raccontava di aver fatto tutto il possibile «per frenarla, ma lei non voleva sentire niente, né consigli, né minacce». Per giunta aveva gettato l’ombra del disonore sulla famiglia «perché la si vedeva spesso coi giovanotti». Un’altra era stata considerata affetta da «disturbi sotto forma di intolleranza alla disciplina familiare» che la portavano a compiere «conquiste amorose, fughe da casa». Un’altra ancora era ripetutamente fuggita dalla famiglia e — a detta dei suoi parenti — aveva preso l’abitudine a «sperperare il proprio denaro regalandolo e facendo acquisti non necessari» (ma i medici avevano accertato che questa «alterazione psichica» si era manifestata dopo che era stata «ripetutamente percossa alla testa con un bastone dal proprio marito, riportando contusioni multiple al capo»). In qualche caso, dopo che il medico di famiglia aveva diagnosticato «isterismo di alto grado», gli psichiatri, avendo tenuto la paziente in osservazione per oltre un mese, l’avevano considerata «rassegnata per la sua sorte tragica», ma «perfettamente orientata e cosciente» e l’avevano restituita alla famiglia (uno zio che la maltrattava), specificando che non riconoscevano in lei «alcuna malattia mentale».
Questo genere di medici più scrupolosi erano, però, un’eccezione. Quasi sempre la diagnosi di «comportamento quanto mai strano e dovuto senza dubbio a squilibrio mentale» (o cose del genere) era sufficiente per rinchiudere molte di queste povere persone in pubblici lager per malate di mente. Sul finire degli anni Sessanta alcune giovani erano state ricoverate a forza con l’accusa di essersi allontanate da casa e dal lavoro «per unirsi con i capelloni» o perché erano andate «nelle bettole a fare l’amore».
Qualcosa del genere si prolungò ancora per anni e anni. Praticamente fino al 13 maggio del 1978, quando fu approvata la cosiddetta legge Basaglia. Incredibile.

Repubblica 12.12.17
Psicologia
Nella rete delle ossessioni
di Elisa Manacorda


Gesti ripetuti, paure insensate, pensieri fissi. Insicurezze ingiustificate. Un milione di italiani soffre di disturbi compulsivi Ma guarire si può. Se la diagnosi è giusta e tempestiva O ggi non dovete assolutamente pensare alle giraffe. Mai, per nessun motivo. Tenetelo bene a mente. Impossibile? Ovviamente sì. Nel momento stesso in cui proibiamo a noi stessi di pensare a qualcosa ( le giraffe), è chiaro che la nostra mente non può che tornare continuamente al tema proibito ( le giraffe). È normale: ma dopo un po’ vi stancherete di questo giochino e vi dimenticherete delle giraffe. Nelle persone affette da Disturbo ossessivo compulsivo (Doc), invece, questo diventa un pensiero molesto che si infila in ogni recesso della mente e occupa tempo e spazio, rovinando la giornata, i rapporti sociali, la concentrazione sul lavoro, insomma la vita intera. Di solito, com’è ovvio, non si tratta di giraffe. «I pensieri intrusivi tipici delle ossessioni – spiega infatti Francesco Mancini, neuropsichiatra infantile e direttore della Scuola di specializzazione di Psicoterapia cognitiva di Roma – fanno infatti riferimento a eventi negativi, accaduti o soltanto immaginati, che generano allarme nel paziente ( per esempio la paura di una contaminazione dopo aver toccato una maniglia, o di non aver chiuso bene il gas prima di uscire di casa), oppure immagini mentali che lo spaventano mettendo in discussione la sua moralità: una bestemmia in chiesa, l’impulso di picchiare una persona indifesa, un atto sessuale perverso». Come nel caso delle giraffe, nel momento stesso in cui il paziente si sforzerà di allontanare da sé il pensiero proibito, questo continuerà a tormentarlo per tutto il giorno. Per neutralizzarlo, continua Mancini, il paziente metterà in atto una serie di comportamenti compulsivi: disinfettarsi le mani in continuazione, controllare per l’ennesima volta la posizione della manopola in cucina, oppure ripetere come un mantra preghiere purificatrici che lo possano mondare del pensiero impuro. Tentativi di soluzione alla ricerca di un senso di sollievo che ben presto svanisce e rigetta il paziente nello sconforto.
Si calcola che su 100 bambini nati oggi, 2 o 3 svilupperanno nell’arco della propria vita il disturbo. In questo momento ne soffre – perché di vera sofferenza si tratta – circa l’ 1,5- 2% della popolazione generale. In Italia si calcola quasi un milione di pazienti. Si tratta di uomini e donne, disoccupati o professionisti, laureati o con un basso livello di istruzione, giovani e vecchi, senza distinzione, anche se il disturbo compare più frequentemente tra i 6 e i 15 anni nei maschi e tra i 20 e i 29 nelle donne. I primi sintomi si manifestano nella maggior parte dei casi prima dei 25 anni (il 15% ha esordio intorno ai 10) e in bassissima percentuale dopo i 40. In ogni caso il disturbo tende a perdurare.
Poco chiare sono però le cause. Cosa spinge una persona a dedicare tutto quel tempo ad allineare meticolosamente le carte di lavoro con l’angolo della scrivania? Perché quella mamma è terrorizzata all’idea di fare del male al suo bambino tanto da evitare qualsiasi contatto? Chi soffre di Doc, spiegano i terapeuti della scuola di Roma, ha paura che una propria azione od omissione possa provocare una disgrazia ( se non ordino le carte sul tavolo succederà qualcosa di terribile, se tocco il mio bambino certamente lo ucciderò), e l’attività ossessiva è finalizzata a prevenire la colpa di non essere stato abbastanza attento. Alla base ci sarebbe insomma il timore di poter essere responsabili di un evento catastrofico, e dunque una particolare vulnerabilità al senso di colpa. Accade a coloro che crescono in contesti familiari severi, con molte regole e principi morali ferrei. A quelli che da piccoli hanno avuto un genitore molto critico, poco affettivo, concentrato sulle performances e soprattutto incapace di ricucire i rapporti dopo un rimprovero (tipica incapacità di riconciliazione è “ mettere il muso”). E tutto questo può generare un senso di inadeguatezza. Ma fa male anche l’eccesso opposto: figli iperprotetti e senza autonomia, con genitori ansiosi e ipo-responsabilizzanti. Accanto alle colpe di mamma e papà, però, nell’insorgenza del disturbo trovano posto anche le esperienze fatte a scuola o nel gruppo dei pari. Studi sui gemelli omozigoti separati alla nascita hanno poi mostrato che nella malattia può essere presente una componente ereditaria. «Si parla di familiarità, nel senso che tra consanguinei è più facile trovare un paziente con Doc rispetto alla popolazione generale » , ammette Mancini. L’importante però è intendersi su cosa si trasmette: un gene, o piuttosto un’abitudine familiare, un comportamento?
La certezza, per fortuna, è che si può guarire. Con la terapia cognitivo-comportamentale, a volte abbinata all’intervento farmacologico. «Ma non deve mancare il supporto dei familiari e degli amici » , conclude Mancini. Che devono evitare di ricadere anche loro nel circolo vizioso generato dalle ossessioni del paziente. Né accomodamento né antagonismo, insomma. Ma gentile fermezza nel contrastare l’attività ossessiva del loro caro.

Repubblica 12.12.17
La terapia
Ma da dove ti viene questa mania
di E. M.


Riconoscere l’evento che causa la malattia E imparare a controllarlo D al disturbo ossessivo compulsivo si guarisce. Se questo viene riconosciuto e trattato adeguatamente. Il che accade solo nel 70% dei casi. La restante quota di pazienti non viene intercettata dalle strutture, oppure non riceve la terapia corretta. E in assenza di trattamento la remissione spontanea si verifica solo in un numero ridotto di casi.
Dopo la diagnosi, « il primo lavoro che si affronta con il paziente è quello di definire chiaramente qual è l’evento che scatena l’ansia, il pensiero ossessivo associato e qual è il rituale che si mette in atto per ridurre il disagio » , spiega Barbara Basile, psicoterapeuta specialista di Schema Therapy, un approccio che viene utilizzato parallelamente alla terapia cognitivo- comportamentale nel trattamento dei disturbi ossessivo- compulsivi. Una volta chiaro il meccanismo, il terapeuta espone il paziente allo stimolo che gli provoca disagio per un periodo di tempo maggiore di quello che sarebbe normalmente tollerato. Per esempio, a chi ha paura del contagio da oggetti contaminati, si chiede di tenere la mano sulla maniglia di una porta per qualche minuto, lavorando sull’accettazione dell’ansia. In seguito si lavora alla prevenzione della risposta, aggiunge Basile, che consiste nel bloccare per qualche tempo quelle azioni che normalmente seguirebbero la situazione temuta, in questo caso chiedendogli di non lavare le mani, per un lasso di tempo gradualmente maggiore, dopo aver toccato la maniglia.
Con un intervento mirato le percentuali di guarigione variano tra il 50 e l’ 85. « Alcuni pazienti, però, possono mantenere una sensibilità al disturbo che, in seguito a eventi importanti o a situazioni stressanti, può generare delle ricadute » , spiega la terapeuta. Perciò lui o lei, durante le sedute, deve acquisire gli strumenti per poter gestire in autonomia le eventuali ricadute.
Accanto alla psicoterapia può essere previsto un intervento farmacologico. Si tratta in genere di antidepressivi Ssri – farmaci che agiscono sulla regolazione dell’umore – ed eventualmente antipsicotici. « La chimica può essere un buon alleato, a volte è necessaria in fase iniziale per sbloccare una impasse o agire su una condizione concomitante, per esempio la depressione che a volte si presenta insieme ai disturbi ossessivo- compulsivi » , aggiunge lo psichiatra Marco Saettoni del Centro Pandora di Lucca. Ma i farmaci da soli producono un miglioramento nel 10% dei casi appena.
– e. m.

Corriere 12.12.17
Lo scontro su Gerusalemme
Lo scrittore Amos Oz: «Trump bambino viziato ma io temo i fanatici»
di Lorenzo Cremonesi


«Gli ebrei non devono più essere minoranza a casa propria, per questo non credo nello Stato binazionale. Il leader Usa? Pragmatico». Così lo scrittore Amos Oz. Su Gerusalemme, diplomazia in azione da Bruxelles a Istanbul. Gelo tra l’Alto rappresentante Ue Mogherini e il premier israeliano Netanyahu.
«Mio padre venne picchiato a sangue, quasi ucciso, mentre studiava all’università di Vilnius da un branco di lituani antisemiti. Era la metà degli anni Trenta, ben prima dell’arrivo delle truppe naziste. Per lui fu evidente che doveva lasciare l’Europa. Divenne sionista, partì per Gerusalemme. Più tardi mi raccontava che in realtà quell’aggressione gli salvò la vita. Se fosse rimasto, sarebbe morto con milioni di altri ebrei nella macchina dell’Olocausto, tra cui la maggioranza dei suoi famigliari. La sua lezione personale è anche quella collettiva dello Stato di Israele: gli ebrei non devono più essere minoranza a casa propria. In Israele dobbiamo restare la maggioranza della popolazione. Per questo motivo molto elementare io non credo nella soluzione dello Stato binazionale. Se annettessimo Cisgiordania e Gaza noi diventeremmo ben presto una minoranza nel nostro Paese. Lo so che se ne parla da tempo ormai. Ne parlano i palestinesi umiliati dalle ultime dichiarazioni di Trump su Gerusalemme, che non credono più nella partizione in due Stati. E per motivi ideologici ben noti lo propagandano anche le destre israeliane, che sostengono il movimento dei coloni, assieme alla sinistra più estrema. Ma è un errore. Non mi stancherò mai di ripeterlo».
Ci siamo appena seduti nel suo studio luminoso e tappezzato di libri al dodicesimo piano di uno dei grattacieli di Ramat Aviv, il quartiere universitario che è anche cuore della Tel Aviv laica, e subito Amos Oz parla della sua grande passione dopo quella dello scrivere romanzi: la politica. Una passione che lo vide nel 1982 tra i massimi leader di «Pace Adesso», il movimento contro l’invasione israeliana del Libano, e poi grande sostenitore degli accordi di Oslo tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat nel 1993.
L’università di Vilnius gli ha da poco fatto avere i documenti relativi a suo padre. Sono gli attestati di iscrizione e degli esami, alcune foto ingiallite di un diciannovenne magro, dall’espressione seria. Raccontano un mondo di fantasmi alla vigilia della catastrofe. Oz è rilassato. Non ha parole tenere per i pochi palestinesi che stanno manifestando contro Trump. «Hanno perso il treno del processo di pace ai tempi di Bill Clinton. L’ultima possibilità è bruciata con Ehud Barak nel Duemila. Era stata la loro chance migliore di avere lo Stato, potevano accettare e lavorare per migliorarla, come per noi fece David Ben Gurion nel 1948. I leader europei, che allora erano della generazione cresciuta con i miti universitari terzomondisti del ’68, erano pronti ad ascoltarli, stavano con loro. Oggi non più. Il loro tempo è passato. Ci sono altri problemi più urgenti in Medio Oriente. Le piazze palestinesi sono scoraggiate dai loro leader. Mancano idee, motivazioni e volontà di combattere».
Il rifiuto dello Stato binazionale è dunque senza appello? «Pochi giorni fa, nella stessa poltrona dove sta lei, era seduto uno dei massimi negoziatori palestinesi. Voleva convincermi che siamo tutti semiti, che in realtà la convivenza come cittadini dello stesso Stato sarebbe molto semplice. Ma non lo credo affatto. Sono scettico degli Stati multinazionali. Pochi catalani riescono a mettere in dubbio la Spagna. Non occorre ricordare cosa è capitato nella ex Jugoslavia. Basti vedere gli eventi del Medio Oriente negli ultimi anni. Iraq, Siria, Libano, Afghanistan, con le minoranze discriminate, se non derubate e massacrate. Oggi è difficile essere minoranza sotto una maggioranza musulmana, specie se ci sono quelli che cercano vendetta, con i fanatici che dettano la politica. Quando gli ho ricordato la sorte terribile degli yazidi, le difficoltà dei curdi e ancor più dei cristiani in Medio Oriente, lui è rimasto in silenzio. Cosa poteva replicare?».
Da qui a parlare della mossa di Trump su Gerusalemme il passo è breve. «Possiamo ancora dividere il Paese seguendo più o meno i confini della Guerra dei Sei Giorni. Non credo a chi dice che l’annessione ebraica della Cisgiordania sia ormai irreversibile. Possiamo far traslocare i coloni ebrei, che vivono per lo più nel 4 per cento dei territori occupati. Possiamo benissimo dividere Gerusalemme per farne la capitale di due Stati distinti. Più avanti, se funziona, potremo cooperare, prima economicamente, poi magari pensare a una confederazione. Ma prima di tutto dobbiamo separarci, come in un condominio dove ognuno ha il suo appartamento con la chiave per la sua porta. Non mi piacciono i dormitori».
Il suo giudizio su Trump è meno duro di quanto si possa pensare. «Io più di tutti temo i fanatici, che purtroppo da noi sono di casa, compresi gli ebrei. Ci sono certi operatori umanitari delle Ong europee che sono più fanatici degli stessi estremisti arabi. I fanatici sono dovunque, dannosi per tutti, che parlino in nome di Dio o delle diete vegetariane. Con loro non si ragiona. L’ho scritto anche in Cari fanatici , il mio ultimo libro pubblicato da Feltrinelli, che vorrei fosse letto come una sorta di mio testamento politico. Trump è piuttosto un bambino viziato che in ogni momento vorrebbe essere amato e si offende per qualsiasi critica. Un presidente irruente, destinato a creare tensioni, però non un religioso fanatico. E questa è una fortuna, può rivelarsi un pragmatico che cambia idea. Sono molto più pericolosi certi fondamentalisti cristiani nel Congresso Usa. Temo i suoi consiglieri, non lui. Non mi stupirebbe neppure che grazie al suo rapporto personale con Putin, dettato anche dal comune desiderio di isolare la Cina, tra qualche mese non elaborino assieme una proposta di pace per noi».
Oz qui sorride, gli piace il paradosso: «Vi immaginate se Putin e Trump si intendono per obbligarci a dividere la regione in due Stati? Chi potrebbe opporsi davvero?».

il manifesto 12.12.17
Grasso, prima volta in tv e già semina il panico
Ragazzi di sinistra. Il Pd attacca per il simbolo di Leu mostrato in video. Ironie delle femministe sulla «E». Ma il nuovo segno grafico evidenzia un nervo scoperto della nuova lista. Il 22 il sì di Laura Boldrini
di Daniela Preziosi


Prima volta in tv di Piero Grasso, ed è subito un vespaio di polemiche. I dirigenti della lista Liberi e uguali guardano con soddisfazione i dati di ascolto di Che tempo che fa di domenica sera (4milioni di telespettatori, c’erano anche gli U2, in realtà i numeri di Fabio Fazio sono in calo) e gioiscono per lo scampato pericolo: quella del presidente del senato è stata una performance tutto sommato buona per un battesimo. «Poteva andare anche molto peggio», ammettono.
MA FUORI DALLE STANZE di via Zanardelli (la sede di Mdp) si scatena la polemica. Il dem Michele Anzaldi prende male la lunga inquadratura del simbolo rosso fiammante («amaranto», lo definisce Grasso) della lista Leu. «Una rovinosa caduta di stile», attacca, «una violazione gravissima da sottoporre all’Agcom». Violazione ‘de che’ non è chiaro: la par condicio non è ancora in vigore. Per Sergio Boccadutri (ex Sel ora Pd) consisterebbe nell’aver mostrato il simbolo «come in una tribuna politica», «privilegio» negato ad altri ospiti. Qualcuno ha impedito a Renzi, una settimana fa nella stessa trasmissione, di sventolare le insegne tricolori Pd? Si scatena la contraerea grassista: «Attacchi scomposti» mossi da «ardore da sentinella del renzismo», replica il senatore Gotor (Mdp). «Reazioni al limite dell’isterismo», per Fratoianni (Si). Dal Pd si attacca anche la scelta del nome nel simbolo dopo tutta la retorica (antirenziana) sul passaggio «dall’io al noi». «Non lo volevo, mi hanno detto che è come il braccialetto che si mette ai bambini appena nati», si giustifica Grasso. Intanto però i compagni separati ex area Pisapia si preparano a poortare in dote al Pd una lista «Sinistra progressista», parole lasciate orfane dai Liberi e uguali.
MA LE CRITICHE PIÙ TEMIBILI arrivano per un altro passaggio dell’intervista. E da un fronte interno. Nasce da una frase impacciata a proposito della «E» che unisce «Liberi» e «Uguali», segno grafico che al conduttore fa pensare a tre «foglioline». «Abbiamo come elemento fondante la parità di genere», spiega Grasso, «Ci sono delle foglioline accanto alla ‘i’ che danno l’idea dell’ambiente» e «questa ‘E’ che dà la possibilità di individuare le donne come elemento fondante nella nostra formazione politica. Del resto madri, sorelle, compagne e lavoratrici sono coloro che possono aiutarci a cambiare il paese».
QUESTA «E» IN REALTÀ è la toppa grafica all’inspiegabile scelta di un logo maschile plurale e chequalche dissenso ha sollevato soprattutto fra le ex Sel. Svarione politico di diretta derivazione da una leadership fatta solo di «ragazzi di sinistra»: Grasso, Speranza, Fratoianni, Civati, per non parlare dei padri nobili Bersani, D’Alema, Epifani, Vendola. Questione seria, che in molti (e molte) credono di veder riequilibrata con l’ingresso in squadra di Laura Boldrini (annuncerà il suo sì a Grasso il 22 dicembre a Roma, quartiere San Lorenzo).
INTANTO UNA PIETOSA MANO grafica fa quel che può. Peraltro il creativo in questione è il fratello di Pippo Civati, Alberto, a titolo gratuito. «Ho giocato con la ‘E’ facendola diventare un elemento grafico che potesse dare una lettura al femminile, così che Liberi potesse esser letto anche come Libere».
Sui social l’hastag #foglioline tiene banco, l’onda filorenziana si scatena. Si accusa il candidato di un paragone botanico che in realtà non ha fatto. Ma i tweet a cui Grasso&Ditta dovrebbero prestare attenzione sono altri. Fulvia Bandoli, femminista e ecologista: «Nome nel simbolo e tre foglie multitasking ambiente/Costituzione/donne? E definirle ancora mogli fidanzate compagne? Hanno nomi, cognomi, storie e lotte di libertà e hanno detto no a ruoli di fiancheggiamento da un secolo». Lorella Zanardo, autrice a suo tempo vicina a Nichi Vendola: «Schedine, meteorine , veline. Per Natale la sinistra di Liberi e uguali promuove le donne e definisce il nostro ruolo: foglioline». C’è un fraintendimento, spiega Maria Cecilia Guerra, capogruppo Mdp al senato (e unica donna del gruppo di punta di Leu) e tuttavia «Grasso si è fatto carico di un problema, che esiste, che riguarda sia la minor presenza delle donne nei ruoli di dirigenza dei partiti, sia l’utilizzo di un linguaggio al maschile che non rappresenta la parità fra i generi».

il manifesto 12.12.17
Sanità, i limiti di uno sciopero che si ripete da 8 anni
di Ivan Cavicchi


Nei confronti dello sciopero dei medici oggi più che mai confesso un forte imbarazzo. Come non essere d’accordo con le loro battaglie. Ma nello stesso tempo c’è la realtà di un governo che al Senato, con la fiducia, ha chiuso i giochi sul contratto.
Dunque sarà grasso che cola se a questo sciopero darà il solito contentino. Quello di tutti gli anni e che vale più o meno in proporzione quanto noi diamo a chi ci lava il vetro della macchina.
La storia ormai va avanti da otto anni, otto anni di mancato rinnovo dei contratti, insieme ad un costante de-finanziamento della sanità, ad un crescente depauperamento della sua qualità, ad un ostinata politica di de-capitalizzazione del lavoro, e da ultimo insieme ad un crescente processo di privatizzazione della sanità pubblica.
Il sindacato è praticamente impotente, zimbello di una politica senza scrupoli che lo dileggia e lo inganna e che nonostante tutti suoi guai contrattuali derivino da precise politiche economiche del governo, non è ancora risuscito a tirare fuori una piattaforma per contrastarle, a opporsi alla defiscalizzazione delle mutue, a contestare una idea scellerata di sostenibilità, a opporsi al definanziamento sistematico del sistema.
Se la sanità è stata posta in contrapposizione al Pil, come ha voluto fin dall’inizio il governo Renzi, non c’ è prospettiva, e meno che mai i soldi per rinnovare i vostri contratti.
Bisognerebbe imparare a chiedersi per quale ragione questo governo che considera i medici un costo che ostacola lo sviluppo, dovrebbe rinnovare i contratti . Eppure a parte la solita retorica sul diritto alla salute e le proteste regolarmente fuori tempo massimo, non abbiamo ascoltato una parola contro il Job act che ha spianato la strada alle politiche che ora con diabolica coerenza stanno mettendo i medici ai margini. Non una parola quando Renzi, alle ultime primarie, con una mozione ha teorizzato il welfare on demand, la fine dell’universalismo, il sistema multi-pilastro e il diritto alla protezione sanitaria ma solo per chi lavora.
Rispetto a questo malcelato furore anti-sanità, era scontato che non sarebbero stati rinnovati i contratti, che migliaia di giovani medici non sarebbero stati assunti, che l’esercito di precari non sarebbe stato stabilizzato.
Abbiamo assistito alle figuracce in Senato quando vi il Pd, con l’emendamento sul prezzo delle sigarette, metteva in atto la guerra tra poveri. Come quando si litiga in famiglia su come spendere i soldi che eventualmente potremmo vincere alla lotteria. Una vincita virtuale tra i contratti, l’abolizione del super ticket e il finanziamento dei Lea
Questo governo non è riuscito neanche a provare un po’ di rispetto verso Cittadinanzaattiva che per abolire il super ticket aveva raccolto 35000 firme. Niente abolizione, solo un altro contentino sulle esenzioni ma non per via delle firme ma per darla calda a Pisapia che come si ricorderà era andato da Gentiloni a chiedere non l’abolizione degli incentivi fiscali alle mutue e il rifinanziamento del sistema pubblico, ma solo la cancellazione del super ticket. Anche qui altro teatrino rispetto ai miliardi di sotto-finanziamento solo pochi spiccioli.
Anche questa legge di bilancio conferma, per l’ottava volta, che il problema non sono i topi che continuano a fare il loro mestiere ma il gatto che non riesce a prenderli più. Siamo in campagna elettorale, questo governo sta dando mance a destra e a manca ma lascia i medici a bocca asciutta. Penso che subito dopo il panettone l’intersindacale medica debba aprire una seria riflessione prima di tutto su di se.
Intanto vorrei invitarvi a fare un gesto politico davvero politico. La rete sostenibilità e salute ha lanciato un appello che propone di bloccare gli incentivi fiscali alle mutue.
Volete rinnovare i contratti? Volete abolire il super ticket? Volete difendere la sanità pubblica? Bene firmate, come ho fatto io, questo appello. Vi assicuro che un gesto del genere varrebbe più di qualsiasi sciopero.

Il Fatto 12.12.17
Sanità ferita, contro i tagli parte la rivolta dei medici
Oggi lo sciopero generale per la manovra. Dal 2007 persi 9 mila camici bianchi
Sanità ferita, contro i tagli parte la rivolta dei medici
di Roberto Rotunno


Se qualcuno ha in programma per oggi un’operazione non urgente o una visita specialistica in un ospedale pubblico, dovrà rimandare l’appuntamento. I medici del servizio sanitario nazionale sono in sciopero per 24 ore, perché la legge di Stabilità, in discussione al Senato, non contiene nuovi finanziamenti destinati al settore, ma anzi ci sono nuovi tagli. La mancanza di fondi per la cura della salute, secondo i sindacati, “contribuisce a un collasso il cui conto ricade sugli operatori e sui pazienti”. “È curioso – dice Costantino Troise, segretario dell’Assomed – che nella manovra si diano bonus a tutti, anche ai giardinieri, ma si dimentichi la salute dei cittadini”. Le Regioni italiane hanno quantificato un fabbisogno da 1,3 miliardi di euro per fare quantomeno fronte a due adempimenti. Il primo è il rispetto dei “Livelli essenziali di assistenza”, i Lea aggiornati solo l’anno scorso. L’altro è il rinnovo del contratto per il personale della sanità pubblica, con gli aumenti di stipendio promessi dalla ministra Marianna Madia a novembre 2016, alla vigilia del referendum. Dato che parliamo di nuovi costi, insomma, l’assenza di risorse aggiuntive si traduce, di fatto, in un taglio poiché spingerà le Regioni a cercare i fondi necessari all’interno del Fondo sanitario nazionale già definanziato da anni.
Oggi dovrebbero essere 40 mila gli interventi chirurgici che salteranno, oltre a centinaia di migliaia di altre prestazioni da rinviare. “Chiudiamo un giorno per non chiudere per sempre”, dicono i medici. La mobilitazione, che a parole è sostenuta anche dalla ministra Beatrice Lorenzin, è indetta dai sindacati della sanità di Cgil, Cisl e Uil insieme a sette sigle autonome. Non c’è solo il problema del mancato adeguamento delle buste paga (ferme al 2010), ma anche gli organici carenti, i conseguenti turni pesanti, il precariato negli ospedali pubblici.
Il governo spera di firmare il rinnovo del contratto di chi lavora nelle funzioni centrali entro la fine del 2017. Per il comparto sanità, invece, le trattative sono ancora ferme. Nel frattempo, con il blocco del turnover e i tagli abbiamo perso 9 mila medici tra il 2009 e il 2015 a causa dei pensionati non sostituiti. Le condizioni si sono quindi appesantite: “Ormai i dottori lavorano 13 mesi l’anno – spiega Troise – si fanno turni di notte a 70 anni, l’età media è 55 anni”. Dal 2016 è in vigore una direttiva europea che impone un riposo di almeno 11 ore a fine turno, ma questa norma “è disattesa soprattutto al Sud”. Secondo l’osservatorio dei sindacati, se contassimo solo quelli necessari per il rispetto della direttiva, bisognerebbe assumere subito 5 mila medici. Per la Cgil nei prossimi 3 anni serviranno 18 mila medici solo per compensare i pensionamenti.
La penuria riguarda soprattutto gli specialisti a causa di una rigidissima politica del numero chiuso. Due settimane fa si è tenuto il concorso per le scuole di specializzazione: si sono presentati 15 mila laureati, ma solo in 7 mila sono stati ammessi, gli altri dovranno fermarsi almeno un anno. Al massimo, nel frattempo, potranno fare le guardie mediche (pericoloso soprattutto per le donne) o cercare un posto nel privato. In quest’ultimo caso, guadagnerebbero bene, ma resterebbe un rallentamento del percorso di formazione. C’è chi decide di andare all’estero, soprattutto in Germania. Nel 2014, dice l’Istat, 2.363 medici hanno chiesto la documentazione al ministero per esercitare fuori dall’Italia (nel 2009 erano solo 369). Insomma, l’Italia investe per farli studiare nelle università pubbliche, ma poi vengono “regalati” ad altri Paesi. Chi resta spesso è condannato alla precarietà: sono 14 mila – sempre per i radar sindacali – quelli che lavorano con contratti a termine. Metà di loro ha un contratto da dipendente a tempo determinato; gli altri 7 mila sono co.co.co., false partite Iva e altre tipologie: stesso lavoro degli stabili ma senza tutele.
Questo è il quadro fornito da chi di sanità si occupa. Nel settore l’Italia spende l’8,9% del Pil, ma per il 25% si tratta di spesa privata che nel 2016 è arrivata a 37,3 miliardi di euro. Circa 12 milioni di cittadini, ha ricordato a giugno il Censis, rinuncia a curarsi. Secondo l’Eurostat, il nostro Paese destina alla tutela della salute il 28,9% del capitolo protezioni sociali, contro il 42,9% della Germania e il 34,9% della Francia. Al Servizio sanitario sono stati tolti quasi 30 miliardi nell’ultimo decennio.

Il Fatto 12.12.17
Cuperlo ha scoperto cosa farà da grande: l’intervistatore
di Andrea Scanzi


Nel penultimo numero de L’Espresso c’era una gran bella intervista. L’intervistato era Joe R. Lansdale, scrittore tra i più acuti e ispirati. Normale che fosse bella. Più stupore suscitava il nome dell’intervistatore: Gianni Cuperlo. Uomo di classe e cultura, ma certo non un giornalista: quantomeno, quella di (saper) fare interviste non è la sua attività più nota. All’interno di una chiacchierata torrenziale e meravigliosa, Cuperlo – che sapeva più cose su Lansdale dello stesso Lansdale, come capita quando un fan vero incontra il suo mito – ha toccato tutti gli argomenti che poteva: gli Stati Uniti di ieri e di oggi, il Texas pistolero e quello “stronzo di Trump” (la definizione è di Lansdale), Hap e Leonard (la coppia che ha reso celebre l’autore). Eccetera. Cuperlo era su di giri come quando Travaglio intervista Renato Zero. Come quando uno che conosco bene ha intervistato Roger Waters. O come quando la Meli intervista Renzi: ognuno ha i miti (e i rottami) che si merita. Se uno degli obiettivi delle interviste è suscitare curiosità, allora Cuperlo è stato un fenomeno: il giorno dopo ho comprato praticamente l’opera omnia di Lansdale. Esaurita la lettura, e con ciò il piacere, sorgevano però alcuni quesiti. Il primo: perché molti esponenti politici, quasi sempre di sinistra, sono strepitosi quando parlano di cultura e ben poco esaltanti quando “fanno” i politici? Pensate anche a Veltroni: come politico non ne abbiamo il poster in camera, ma come uomo di cultura è una stimolantissima miniera di conoscenze e passioni. Il secondo quesito è il seguente: il Cuperlo che si esalta per il politicamente scorretto di Lansdale è per caso lo stesso che, quando il direttore di questo giornale scriveva su L’Unità, riteneva che ciò fosse “una pessima notizia”?
Per un contrappasso sadico, Cuperlo ha poi ricevuto purghe analoghe dal diversamente satirico Staino, che – in piena logica stalinista – ha accusato Cuperlo di non essere abbastanza fedele alla linea. Il terzo quesito è più che altro una constatazione amara: all’interno del Pd, se non sei iper-renziano, oggi non hai più alcuna ragion d’essere. E dunque devi cercarti un altro lavoro. Cuperlo non ha certo intervistato Lansdale perché da grande vuole fare la firma dell’Espresso, ma è già cominciato – e non da ieri – il suo ricollocamento. Per meglio dire: il suo ritorno alle origini. Del resto Cuperlo, oltre a essere uomo di partito ed ex dalemiano, coautore – con D’Alema e pure Claudio Velardi – di libri riusciti come Un paese migliore (1995), è anzitutto uomo di cultura. Classe ’61. Liceo Classico a Trieste, laurea al Dams di Bologna (Sociologia della Comunicazione), docente a Teramo. Una vita dentro il Pci e poi tutti i suoi derivati. Deputato dal 2006. Più diventava noto e più sembrava poco convinto. Candidato non troppo carismatico alla segreteria del Pd, il collettivo Terzo Segreto di Satira ci costruì sopra un video memorabile. Presidente del Pd come contentino datogli dai renziani, ovviamente s’è dimesso quasi subito (invece Orfini è sempre lì). Capofila di quei dissidenti-ma-non-troppo interni al Pd, è assai abile nella pratica snervante e insopportabile del penultimatum. Quando va in tivù sembra volerci dire che, se non fosse un parlamentare Pd, tutto voterebbe tranne il Pd. Di recente ha scritto un bel libro per Donzelli, Sinistra, e poi, che a novembre ha presentato con Renzi, ribadendo una volta di più quel suo strano masochismo. Adesso arriva l’intervista a Lansdale: un gran pezzo di giornalismo. E un altro pezzo “accettabile” di Pd che si prepara al congedo politico. Auguri.

Il Fatto 12.12.17
“Manda la foto hot o niente concorso”. Il metodo Bellomo
“Falsi profili Facebook per spiare”. “Processo” al consigliere di Stato per suoi corsi alle aspiranti magistrate. “Ragazze ricattate per vantaggi sessuali”
“Manda la foto hot o niente concorso”. Il metodo Bellomo
di Carlo Tecce


Un giorno, una borsista stremata, si è sfogata con Francesco Bellomo: “Metti le persone sotto torchio, fai gli interrogatori con toni inquisitori, mandi infiltrati e organizzi pedinamenti…”. Il metodo di Bellomo, consigliere di Stato, era parecchio rodato, quasi infallibile: pressioni, minacce e ricatti per controllare la vita, ogni dettaglio, ogni minuto, delle studentesse. Lui insegnava i trucchi per superare il concorso da magistrato, loro si dovevano sottomettere e con assoluta riservatezza. Guai a confidarsi con un membro della scuola privata di formazione giuridica Diritto e Scienza; guai a coinvolgere un fidanzato “sfigato” o peggio ancora “scemo”; guai a pensare al matrimonio, a non mollare un compagno se bocciato dalle valutazioni scientifiche del direttore, il medesimo Bellomo; guai a non rispondere subito ai messaggi, a negare una fotografia in posa sexy. Lui si sentiva “agente superiore”, dotato di un quoziente intellettivo strabiliante, loro erano allieve obbligate a consegnare se stesse con la firma in calce a un farneticante contratto, zeppo di codici, doveri, pochi diritti e tanto “dress code” E così, per non “commettere reati”, dovevano accettare qualsiasi richiesta, qualsiasi indicazione: lo spessore dei pantaloni, il tessuto delle minigonne, la consistenza del pizzo per gli abitini estivi, le prove di velocità a Bari (si narra che usi una Ferrari). Perché soltanto chi corre, chissà, può indossare la toga.
Quando il metodo Bellomo s’inceppava, ecco che interveniva il collaboratore, anzi il “mediatore” Davide Nalin, giovane magistrato in servizio a Rovigo. L’uno completava l’altro. E assieme rischiano di finire le rispettive carriere. Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, guidato da Alessandro Pajno, ha approvato la rimozione dall’incarico del quarantenne barese Bellomo. Ora manca il parere dell’adunanza generale di Palazzo Spada. Venerdì, invece, il Csm può sospendere dalle funzioni e dallo stipendio il trentenne magistrato Nalin. L’ha chiesto Paolo Ciccolo, il procuratore generale della Cassazione che esercita la funzione disciplinare.
Nel documento inviato al Consiglio superiore della magistratura e al ministro Andrea Orlando (Giustizia), Ciccolo ricostruisce la gabbia dell’orrore che Bellomo e il complice Nalin avevano creato attorno a una borsista, per un periodo fidanzata del consigliere di Stato: “In qualità di ‘mediatore’, Nalin spendeva più volte la sua autorevolezza con la ragazza, studentessa borsista, per indurla: alla ‘conciliazione’ di un’ipotizzata controversia giudiziaria per asserito inadempimento contrattuale; alla prosecuzione della relazione sentimentale con Bellomo; al soggiorno col consigliere a Bari durante le vacanze estive del 2016; alla trasmissione allo stesso Bellomo di una foto in atteggiamento intimo. Tutto ciò rappresentando alla ragazza, in caso di mancata accondiscendenza alle menzionate proposte, la commissione di reati che le avrebbero impedito la partecipazione al concorso in magistratura”. Chi disobbediva, insomma, rinunciava per sempre alla toga: “Nalin si è adoperato per far conseguire a Bellomo indebiti vantaggi di carattere sessuale e, comunque, tali da consentire al medesimo di perdurare la relazione cui egli ambiva, sfruttando la condizione psicologica della ragazza, interessata a superare il concorso per entrare in magistratura”.
Il padre di questa ragazza ha innescato con un esposto l’istruttoria di Palazzo Spada sul capo di Diritto e Scienza. Pajno e colleghi hanno ascoltato un’altra ragazza, che ha tentato di sottrarsi a Bellomo per sfuggire da una sorta di persecuzione: “Ogni tanto c’erano telefonate sul concorso e sui principi da rispettare e il consigliere Bellomo, in base al principio di gerarchia, l’aveva ripresa perché lei avrebbe dovuto rispondere subito alle sue telefonate. In particolare, era avvenuto che Bellomo le aveva inviato un messaggio al quale lei aveva risposto il giorno dopo. Questo ritardo le era stato specificamente contestato da Bellomo come un inadempimento agli impegni assunti”.
Per il consigliere era necessario imparare l’arte della spia, ovviamente aggiornata ai tempi: aprendo falsi profili su Facebook. Quando le ragazze si ribellavano, Bellomo le trasformava in “caso” da esaminare durante le lezioni e negli articoli della rivista. E non mancavano mai anedotti intimi e sessuali. Ma c’è una domanda che merita risposte complesse: cosa garantiva Bellomo agli studenti? Chiosa il pg Ciccolo: “Vi è poi da considerare l’allarme e lo sconcerto suscitati nell’ambiente degli aspiranti magistrati, ai quali – alla luce di tali fatti – si è fatta balenare la possibilità di superare il concorso con metodi affatto estranei alla formazione tecnica, professionale e deontologica”. Racconta una ragazza: “Unico beneficio di cui fruivo come borsista, rispetto agli altri, consisteva nella consegna due settimane prima delle dispense sugli argomenti da studiare incentrate sui temi che secondo le previsioni di Bellomo, basate a dire di quest’ultimo su degli algoritmi, sarebbero uscite al concorso”. Agente superiore e pure preveggente di un certo livello. Però Bellomo contesta le accuse e al Fatto dichiara: “Mi sottopongono a un procedimento disciplinare per le mie idee. Non sono fatti, ma solo idee”.

Il Fatto 12.12.17
Caso Rossi, festini hard e Misteri MPs: nuovi testi
di Ferruccio Sansa


Un commerciante e un’estetista. Sono stati sentiti dai pm di Genova nell’indagine sui presunti festini a luci rosse cui a Siena avrebbero partecipato magistrati che si occupavano della morte di David Rossi, il responsabile della comunicazione di Mps ai tempi del ciclone giudiziario. L’indagine sul possibile tentativo di “abbuiare” l’inchiesta su Rossi va avanti. Nelle prossime settimane verranno sentiti altri testimoni.
Il fascicolo per abuso d’ufficio è ancora senza indagati. L’inchiesta è partita dopo i servizi televisivi delle Iene. Era il 6 marzo 2013 quando Rossi precipitò da una finestra di Rocca Salimbeni, la sede dell’istituto bancario. Una morte che gli investigatori toscani classificarono come suicidio. Ma i familiari di Rossi non ci hanno mai creduto.
L’inchiesta delle Iene ha sottolineato aspetti inediti. Ci sono tra l’altro le dichiarazioni dell’ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, che in un’intervista ha riferito di ‘festini’ ai quali avrebbero forse partecipato personaggi della magistratura e della politica locali. Così il pm genovese Cristina Camaiori e il procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati – competenti a indagare quando possono essere coinvolti magistrati toscani – nelle scorse settimane hanno sentito Piccini. L’ex sindaco ha sostenuto: “Ho solo riportato voci che mi ha raccontato qualcuno. Mi sembra un avvocato romano”. Nei giorni scorsi, appunto, è toccato a un commerciante e a un’estetista (coinvolta nell’inchiesta su festini in una villa a Monteriggioni che nell’aprile 2016 aveva portato a 4 arresti domiciliari). Tutti e due, però, hanno negato di avere notizie attendibili su party a base di sesso e cocaina e su chi vi partecipasse.
L’inchiesta comunque non si ferma qui. I pm genovesi potrebbero indagare sugli accertamenti compiuti dopo la morte di Rossi.

Repubblica 12.12.17
Le alleanze
Tre liste in coalizione col Pd Renzi aspetta il sì di Bonino
Accordi chiusi con i centristi di Casini e Lorenzin e la gamba sinistra ( dai Verdi ai prodiani)
di Tommaso Ciriaco


ROMA Un attacco a quattro punte, per rompere un assedio che l’ha costretto in difesa. « Provano a circondarmi - confida Matteo Renzi Mi sparano addosso da tutte le parti. Cercano di isolarmi. Ma vedrete che adesso, con la coalizione ormai pronta e il tira e molla con Mdp alle spalle, riusciremo a recuperare». L’alleanza di centrosinistra è in campo, mancano solo i dettagli. Il centro della galassia sarà la lista del Pd. Attorno ruoteranno tre piccoli pianeti: una lista ulivista, una centrista e quella europeista di Emma Bonino.
Dopo il ponte dell’Immacolata lontano da Roma, Renzi spende il lunedì al Nazareno. Telefona, incontra i futuri alleati, maneggia percentuali e calcola seggi. Il compito più semplice è paradossalmente quello di stringere un accordo alla sua sinistra, perché archiviato il balletto con gli scissionisti dem l’intesa scorre via liscia. La lista si farà. Ne faranno parte esuli di Campo progressista, i Verdi di Angelo Bonelli, il sindaco di Cagliari Massimo Zedda, qualche prodiano di rango come Giulio Santagata, che tratta a nome dell’area ma potrebbe non candidarsi. In queste ore si studia anche il simbolo. E c’è già una certezza grafica: richiamerà esplicitamente il periodo dell’Ulivo. Sperando di far simpatia al Professore e agli elettori che lo rimpiangono.
A questo gruppetto di sinistra potrebbero aggregarsi i socialisti di Riccardo Nencini. Potrebbero, perché anche la gamba centrista dell’alleanza li corteggia. « Io vorrei che stessimo insieme - assicura Fabrizio Cicchitto durante la direzione di Ap, come riporta l’agenzia Dire - E vorrei che andassimo tutti con Renzi. Mdp, o come diavolo si chiama, tratta Matteo come i comunisti trattavano Craxi e Berlusconi». Il deputato alfaniano è tra i registi del contenitore di centro. Partirà tra qualche ora, appena consumata la scissione di Maurizio Lupi, diretto ad Arcore. Certo, Beatrice Lorenzin continua a sgolarsi per l’unità («come si dice a Roma, dividerci sarebbe una cazzata » ), ma sa bene che la separazione consensuale è inevitabile. Toccherà proprio a lei assumere il comando del listone alleato di Renzi.
A dire il vero sarà una guida duale, perché anche Pierferdinando Casini ha voglia di partecipare alla sfida. Insieme, sceglieranno anche il nome del partito “gentiloniano”, che richiamerà indirettamente l’esperienza del premier. Il nome? “ Moderati per il governo”. O “ per il buongoverno”, anche se dal Pd fanno presente che ha un retrogusto un po’ troppo berlusconiano. Per Renzi, insomma, resta da definire soprattutto il capitolo Bonino. La leader radicale tiene ancora il pd sulla corda, preoccupata dalle difficoltà nella raccolta delle firme. Ma alla fine assieme a Benedetto Della Vedova dirà sì e lancerà “+ Europa”, alleata con i dem.
Poi sarà il tempo della campagna elettorale. «E nei collegi - giura il segretario dem - possiamo ribaltare i pronostici. Bisogna solo indovinare le candidature giuste » . Quella di Angelino Alfano non è più un problema, e Renzi ringrazia. Le richieste di posti in lista, però, restano tantissime. E i posti disponibili alla Camera, secondo le ultime stime formulate al Nazareno, non superano quota 150. Comprese le deroghe, quelle che le correnti continuano a sollecitare. La più importante è per il ministro Dario Franceschini. Che il suo collega di governo Alfano, più leggero di qualche tonnellata dopo il passo indietro, descrive così durante la direzione di Ap: « Quando Renzi annunciò che in caso di sconfitta al referendum si sarebbe dimesso, chiesero la stessa cosa a Dario. Lui rispose: “ No, se si dimettono tutti qualcuno dovrà pure governare”... Franceschini è sempre il numero uno».

Repubblica 12.12.17
Viaggio nell’onda nera
Casa, lavoro e Waffen SS la Toscana dell’ultradestra
Propaganda anti- immigrati e non solo. L’offensiva dei gruppi neofascisti in quella che era roccaforte dalla sinistra punta sulle aree più colpite dalla crisi. E adesso le istituzioni corrono ai ripari
di Paolo Berizzi e Laura Montanari


FIRENZE Le bandiere nere di Forza Nuova sono spuntate in un sabato di mercato prenatalizio, fra il lampredotto e gli ortaggi, lungo la piana Firenze-Prato, in quella Sesto Fiorentino un tempo soprannominata “Sestograd”.
Eccoli, in uno dei feudi storici della sinistra, i neofascisti che hanno dichiarato guerra a
Repubblica. Tanto per cambiare distribuiscono volantini contro lo Ius soli. «Vogliono la tua casa, il tuo lavoro, la tua donna.
Fermali!». Il nemico è il solito immigrato-invasore-usurpatore.
Non che la gente faccia a gara per mettersi in tasca i foglietti. Però, da queste parti, la sola presenza è un indicatore. E la spia è accesa da tempo. L’ultradestra attecchisce anche nella regione rossa per eccellenza. Tanta CasaPound, seguono Forza Nuova e Lealtà Azione. “Black Tuscany”, prove generali di esproprio. Sullo sfondo, un sottobosco di coltura: circoli giovanili che reinterpretano il nostalgismo, associazioni tendenza nazionalsocialista, bande ultrà dal saluto romano facile. E poi il “miracolo” delle organizzazioni studentesche nei cui simboli ha ripreso a ardere la fiamma, tipo Casaggì a Firenze (18mila voti nella consulta provinciale: 32 rappresentanti su 58). «Il clima nei nostri confronti è cambiato.
Oggi andiamo in piazza senza le contestazioni di una volta, anche se di notte le azioni intimidatorie contro le nostre sedi non mancano», dice Eugenio Palazzini, 33 anni, autista ncc, coordinatore regionale di CasaPound. Un classico della narrazione subdola e post-ideologica dei fascisti del terzo millennio. Loro sono le vittime. E lo Stato nato dalla Costituzione è «cattivo» e «illiberale» perché non accetta la contraddizione in termini di chi si dichiara fascista e allo stesso tempo democratico. In principio fu Lucca. Un po’ avamposto, un po’ ariete. L’8% all’incasso (un consigliere comunale, Fabio Barsanti, indagato per rissa) dopo avere lavorato nelle periferie e ascoltato gli italiani poveri.
Persino sopra M5S. Adesso, sull’onda del boom alle ultime amministrative, le tartarughe nere vogliono avanzare le linee.
Prendere le aree di crisi. Prato, Siena, Pistoia, Massa. Un obiettivo ambizioso che prevede due passaggi: piegare Forza Nuova nel rinnovato derby dei camerati. E rosicchiare terreno alla sinistra “di governo”. Ancora Palazzini: «Oggi in Toscana abbiamo 14 sedi e un migliaio di iscritti. Fra i capoluoghi siamo assenti soltanto a Pisa e a Livorno (ex fortezza rossa, oggi a guida pentastellata, ndr), ma presto arriveremo anche lì. L’ultima apertura? Pietrasanta in Versilia, e pochi mesi prima altre due: Grosseto e Siena». Il menù offerto da CasaPound ricalca il modello Firenze. Dove però il turismo tiene la depressione economica sotto i livelli di guardia, e l’immigrazione è più mobile. Lotta anti sfratti; ronde della sicurezza con “marcatura a uomo” sui pusher nei parchi pubblici; decoro urbano. Sembra passata un’era glaciale dalla scomoda vicenda dello scrittore-killer Gianluca Casseri, il simpatizzante casapoundino che nel 2011 falciò a colpi di pistola due senegalesi prima di puntare l’arma contro se stesso. Gli immigrati, sempre loro. La strategia espansionistica dei neofascisti punta adesso su Prato. Luogo di conquista ideale. Qui la crisi morde le fabbriche del tessile, e l’ “invasione” continua a crescere: su 192mila abitanti, 36mila sono stranieri, 18mila cinesi. Soffiano sul malessere diffuso i sovranisti.
«L’immigrazione cinese ha portato solo svantaggi alla città mentre lo Stato ha dimenticato i propri figli», dice Francesco Corrieri, capo pratese di CPI che in città è sbarcata nel 2008. Vai a spiegargli che i cinesi rappresentano da anni una grossa realtà produttiva. A proposito di stoffe: la propaganda nera ama gli striscioni. A settembre il Comune piazza le barriere anti terrorismo nel centro storico e subito spunta un lenzuolo con la scritta «Invece delle strade chiudiamo le frontiere». Ancora più esplicito il titolo della giornata di studio organizzata quest’estate dall’associazione “culturale” anti Ius soli “Etruria 14”: “Waffen SS, la grande sconosciuta” (il braccio armato delle SS naziste). Tra raccolte firme per il “reddito di natalità”, volantinaggi no euro e “ramazzaday” per protestare contro gli scarti dispersi nell’ambiente dalle fabbriche di Chinatown, CPI cresce. E non si preclude altri obiettivi. Siena, per esempio. Nella città rossa del Monte dei Paschi squassata dal precipizio bancario a primavera si gioca la campagna elettorale.
CasaPound ha il suo candidato: Sergio Fucito, 62 anni, generale della Folgore in pensione. «Si sono mangiati la gallina dalle uova d’oro – dice sul Monte dei Paschi – hanno distrutto quello che Ezra Pound veniva qui a studiare come modello di banca etica. Se venissi eletto sindaco? La prima cosa che farei è sbloccare l’arrivo di nuovi migranti e dare la priorità agli italiani per le case popolari».
Questione alloggi. Collette e provviste alimentari per i soli toscani in difficoltà. Sono il tasto su cui suona anche Forza Nuova.
Coordinatore regionale è il negazionista Leonardo Cabras («6 milioni di ebrei sterminati? Non c’erano neanche in Europa. Da dove li hanno tirati fuori?»).
«Riceviamo 300 contatti a settimana. La gente vuole conoscere le nostre battaglie».
Alcune sono tristemente note.Tipo quella contro Don Massimo Biancalani, il prete di Pistoia colpevole di avere portato un gruppo di migranti in piscina.
Oppure lo striscione appeso a Lucca sotto la casa del sindaco Pd Tambellini che voleva dare un riconoscimento simbolico di cittadinanza ai bambini nati di Italia da famiglie di migranti: «Unico cittadino onorario, Benito Mussolini». Non era ancora uscita la storia della bandiera del secondo Reich appesa da un carabiniere nella caserma Baldissera di Firenze. Ma il clima era già inquinato. Di fronte all’avanzare dell’onda nera in Toscana la Regione è corsa ai ripari: ha istituito un Osservatorio contro i fascismi, i nazismi e le discriminazioni razziali. Sono 15 i casi segnalati all’avvocatura regionale. Impossibile non ricordare quello del professore di Massa che ha piantato sulla cima di un monte delle Apuane la bandiera di Salò. E poi la foto ricordo dell’ignaro vescovo di Lucca Italo Castellani con gli ultrà della Lucchese mentre fanno il saluto romano.
Altro argine: alcuni Comuni, prima Pontedera, poi Firenze, si sono allineate alla scia di amministrazioni che hanno approvato un modulo “restrittivo”: spazi comunali e patrocini solo a chi dichiara estraneità a «fascismo, razzismo, xenofobia, antisemitismo e omofobia». A Pontedera la prima sanzionata è stata Forza Nuova.
Chissà se Lealtà Azione, emanazione politica degli hammerskin antisemiti, una sede a Firenze chiamata Il Rifugio e una rete di associazioni collegate, riuscirà, come già accaduto in alcuni Comuni lombardi, a farla franca e a aggirare l’ostacolo.
Le ultime iniziative se le sono organizzate in casa. I titoli?
“Walt Disney e Mussolini”, “Racconti dalla Siria”, “L’arte della Guerra: tra gioco dei soldatini e storia“.

Repubblica 12.12.17
Il populismo in cerca di un vocabolario
di Michele Ainis


Il populismo è fin troppo popolare. La parola – se non anche la cosa – rimbalza nei discorsi dei politici, tracima sui media e nel web, ci casca addosso. Già, ma che diavolo significa? Le parole, a usarle troppo spesso, subiscono una sorta d’azzeramento semantico, come dicono i linguisti: diventano suoni, non concetti. È successo alla parola «democrazia» (Sartori ne contò decine di definizioni). Sta succedendo al populismo, tanto che ormai viene squadernato come un calendario: populismi di destra o di sinistra, di lotta o di governo, nuovi o stagionati.
Ecco, i vecchi populismi. Quelli, almeno, già li conosciamo: narodniki russi, People’s Party negli Usa, peronismo sudamericano. Ma è una conoscenza teorica, libresca, non avendoli mai sperimentati di persona. E d’altronde pure i libri mentono, talvolta. Così, Mény e Surel ( Populismo e democrazia, 2000) scrivono che un elemento d’identità del populismo è l’avversione verso tutti i poteri neutri, dalla magistratura alle autorità di garanzia; ma allora dovremmo definire populista anche Togliatti, che in Assemblea costituente s’oppose strenuamente all’istituzione della Corte costituzionale.
Sta di fatto che questo fenomeno, oggi come ieri, non si lascia inquadrare in precise gabbie concettuali. Ha tratti mutevoli, cangianti. Tuttavia qualcosa nel populismo si ripete, impermeabile alle stagioni della storia. In primo luogo un elemento nazionalista (oggi diremmo «sovranista»). Poi la critica all’establishment, alle classi dirigenti, sempre bollate come parassitarie e inette. Inoltre una concezione primitiva della democrazia, senza filtri, senza mediazioni, senza le lungaggini delle procedure parlamentari. E infine la presunzione di rappresentare il “vero” popolo: «I am your voice», proclamava Trump durante la sua campagna elettorale. Un popolo omogeneo, indistinto, compatto nell’avversione all’altro da sé, dunque in primo luogo nell’avversione agli altri popoli.
Tutto l’opposto della concezione pluralistica della società, che è il presupposto delle democrazie.
Però in questo, almeno qui in Italia, c’è un deposito culturale, c’è un’idea organicistica della società che a suo tempo allevò il fascismo. A differenza del mondo anglosassone: loro dicono «people», al plurale, per designarsi come comunità di singoli individui; noi diciamo «popolo», al singolare, e in tale sostantivo i singoli annegano in una totalità indifferenziata, in un organismo omogeneo dove conta assai poco l’apporto di ciascuno.
Probabilmente nessuno di questi elementi è sufficiente, di per sé, a catalogare come populista un determinato messaggio politico: devono ricorrere tutti insieme, è la loro somma che contraddistingue il populismo. E il nuovo populismo presenta almeno due caratteri innovativi rispetto alle esperienze precedenti. Anzitutto si è affermato anche un populismo di sinistra (che reclama protezionismo e servizi pubblici) accanto ai populismi di destra (che s’oppongono al multiculturalismo). In secondo luogo vi si coglie un elemento passatista, l’idea che le lancette dell’orologio possano girare al contrario, per sfuggire ai formidabili problemi della modernità. Sono però nuove le cause che spiegano il successo attuale delle parole d’ordine populiste. Possiamo indicarne almeno un paio.
Primo: la globalizzazione, con le sue diseguaglianze. Nel 1820, in base al reddito pro capite, fra il Nord e il Sud del mondo c’era uno scarto di 3 a 1; invece nel 2011 lo Stato più ricco del pianeta, il Qatar, vantava un reddito pro capite 428 volte maggiore rispetto allo Stato più povero, lo Zimbabwe. Questa faglia sotterranea si riproduce tale e quale in ogni Stato, in ogni regione, in ogni città. E l’Italia non fa certo eccezione – anzi, esprime la società più diseguale di tutto l’Occidente, dopo il Regno Unito e gli Usa. Da qui la rabbia verso tutte le strutture sociali, dall’economia alle istituzioni.
Secondo: l’accelerazione tecnologica, che spinge folle di lavoratori fuori dal mercato del lavoro, perché sostituiti dalle macchine o perché scavalcati da nuove abilità. Sicché reagiscono con un senso d’angoscia, che reclama scorciatoie, soluzioni semplici a problemi complessi. Ma la democrazia è una creatura complicata, e a sua volta la semplificazione può ben risolversi in una trappola autoritaria.
Sta di fatto che la comunicazione politica viene dominata da messaggi rozzi, semplificati, e in conclusione demagogici; una categoria (la persuasione demagogica) messa a fuoco fin dai tempi di Aristotele. Anche se, più che Aristotele viene in mente Umberto Eco, con la sua Fenomenologia di Mike Bongiorno.
Che «convince il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo». Sarà per questo che i nostri leader sono diventati populisti, senza sforzi, forse senza neppure averne l’intenzione. È un’inclinazione naturale, mettiamola così.