mercoledì 27 dicembre 2017

Corriere 27.12.17
Lo spettro massonico
La chiesa condannò i «liberi muratori» esagerando molto la loro influenza
Un saggio di Fulvio Conti, pubblicato in un volume a cura di Giorgio Fabree Karen Venturini (il Mulino), mostra che le logge ebbero una parte di rilievonella Rivoluzione francese e sotto Napoleone, non nel Risorgimento italiano
di Paolo Mieli


Perfino Gioacchino Belli, che pure fu un implacabile fustigatore del malcostume nello Stato pontificio, ebbe sentimenti non simpatizzanti nei confronti della massoneria e condivise al fondo l’ostilità della Chiesa ai liberi muratori. Nel 1838 Belli scrisse un sonetto, Li rivoltosi , in cui lasciò trasparire la propria diffidenza per i massoni: «Chiameli allibberàli o fframmasoni/ O ccarbonari, è sempre una pappina/ È sempre canaijaccia ggiacubbina/ Da levàssela for de li cojjoni». Segno che il pregiudizio antimassonico si diffuse nell’Ottocento anche in ambienti che non possono essere considerati di stretta osservanza cattolica. Nel saggio Dalla condanna al dialogo: tre secoli di relazioni tra Chiesa e massoneria — che uscirà nel libro, edito dal Mulino, curato da Giorgio Fabre e Karen Venturini, La Chiesa tra restaurazione e modernità (1815-2015) — Fulvio Conti ricostruisce le condanne della Chiesa a partire dalla lettera apostolica In eminenti (1738), con la quale, esattamente un secolo prima del sonetto del Belli, papa Clemente XII stabiliva il divieto, pena la scomunica, di affiliazione alla massoneria e ad altre associazioni dello stesso tipo «contrarie alla sicurezza dei regni» nonché — a suo dire — in grado di causare «mali gravissimi non solo alla tranquillità degli Stati, ma anche alla spirituale salvezza delle anime».
La massoneria aveva all’epoca 21 anni. Il suo atto di nascita, ricorda Conti, viene infatti comunemente individuato nella decisione adottata da quattro logge inglesi, il 24 giugno 1717, di dar vita alla Grand Lodge of London. Sei anni dopo la «loggia madre» si dotò di un corpo di norme statutarie, Constitutions of the Free-Masons , codificate dal reverendo James Anderson, pastore della Chiesa presbiteriana scozzese. La Chiesa cattolica intuì immediatamente che quello dei «Liberi muratori» era un fenomeno con grandi potenzialità di proselitismo e si sentì minacciata. Nel 1739, l’anno successivo a quello della succitata lettera del Papa, un editto del cardinale Giuseppe Firrao, segretario dello Stato pontificio, ribadì il divieto per i fedeli di affiliarsi a quelle «perniciosissime aggregazioni», minacciando la confisca dei beni e addirittura la pena di morte per coloro che non avessero obbedito all’ingiunzione del pontefice. Proprio così: la pena di morte. Punizioni che per di più avrebbero dovuto essere inflitte, secondo l’editto, «irrimediabilmente e senza speranza di grazia». Ma queste disposizioni caddero sostanzialmente nel vuoto. E, anzi, durante la guerra di Successione austriaca (il conflitto che tra il 1740 e il 1748 consacrò, su versanti opposti, Maria Teresa d’Asburgo e Federico II di Prussia) «ideali e modello associativo della libera muratoria», scrive Conti, «conobbero una grande espansione grazie alla nascita di logge militari, che ebbero una particolare diffusione nel mondo germanico». Così il successore di papa Clemente, Benedetto XIV, con la bolla Providas Romanorum Pontificum nel 1751 si sentì in dovere di aggiungere di suo uno specifico invito a tutti i sovrani e ai governi a che bandissero la massoneria. Tra i più lesti ad accogliere l’esortazione papale, in quello stesso anno, furono Carlo di Borbone a Napoli e Ferdinando VI a Madrid. Nel contempo però — a bilanciamento dell’iniziativa pontificia — si ebbe una certa sovrapposizione tra le idee della massoneria e quelle dell’Illuminismo.
Poi la Rivoluzione americana del 1776 presentò, secondo Conti, «la realizzazione empirica, nell’elaborazione costituzionale e nella pratica di governo, dei valori espressi dalla cultura dell’Illuminismo». E della massoneria. La Gran loggia d’Austria giunse a proclamare che «ogni loggia era una democrazia», mentre la massoneria danese negli anni Sessanta affermava che la «libertà repubblicana» era un bene oltremodo prezioso. Nel 1779 la loggia parigina Noef Soeurs, a cui era affiliato Voltaire assieme a molti altri intellettuali, accolse con grandi elogi Benjamin Franklin e presentò i propri appartenenti come «cittadini della democrazia massonica». E a ridosso della Rivoluzione francese — come ha individuato Giuseppe Giarrizzo in Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento (Marsilio) — non pochi segmenti europei dell’universo liberomuratorio divennero vere e proprie «strutture terroristiche» dirette a favorire la conquista francese dei Paesi confinanti, nonché l’avvento di governi repubblicano-rivoluzionari in vari Stati italiani e tedeschi, in Svizzera e in Austria. È in questo contesto che viene pubblicato, nel 1797, il celeberrimo libro del gesuita Augustin Barruel considerato primogenito di ogni teoria «cospirazionista»: Memorie per una storia del giacobinismo . In esso viene esposta la tesi del complotto massonico che sarebbe stato all’origine della Rivoluzione francese. Tesi che nella seconda metà del Novecento sarebbe stata oggetto di un importante studio di Reinhart Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese (Mulino) e per certi versi anche della Critica della Rivoluzione francese (Laterza) di François Furet.
Conti ritiene che queste ipotesi interpretative siano suggestive, ma debbano essere contestualizzate e fortemente circoscritte nel tempo e nello spazio. Senza indulgere «alla costruzione di simili teoremi, i cui passaggi risultano talora difficilmente dimostrabili», l’influenza della massoneria sulla Rivoluzione francese «appare tuttavia indubbia… sia dal punto di vista ideologico (basti pensare all’apporto dato dalle logge alla diffusione dell’idea egualitaria e alla sperimentazione di forme di rappresentanza democratica), sia sotto il profilo organizzativo, con molte figure del mondo liberomuratorio che rivestirono contemporaneamente ruoli direttivi durante l’esperienza rivoluzionaria o nel giacobinismo europeo». Successivamente — ha notato Franco Della Peruta in un saggio che compare nel volume, curato da Aldo Alessandro Mola, La massoneria nella storia d’Italia (Atanòr) — tutti quelli che raccolsero le bandiere della rivoluzione fecero propri metodi organizzativi e simboli massonici. In toto o quasi, ha scritto Giarrizzo. Ma, secondo Della Peruta, i rivoluzionari si differenziavano dalla massoneria per la pratica attivistica e cospiratoria. Sotto questo aspetto «il terreno sul quale germinarono non è tanto quello delle logge dei Franchi muratori quanto piuttosto quello delle congiure repubblicane del 1794-95, delle cospirazioni patriottico-unitarie del 1798-99, delle esperienze giacobine».
Il periodo napoleonico, prosegue Conti, vide la massoneria divenire «un fenomeno à la page», svuotata del messaggio cosmopolita delle origini e «impegnata apertamente a sostenere i disegni espansionistici dell’impero». Napoleone la utilizzò come strumento di governo e «nelle terre cadute sotto il suo dominio favorì la diffusione delle logge, che si riempirono di militari, di burocrati e di funzionari del regime».
Nel 1805 fu fondato a Milano un Grande Oriente d’Italia che «sancì l’aggregazione delle numerose logge sotto un unico centro organizzativo nazionale». Il ruolo di gran maestro, «ad eloquente testimonianza degli stretti legami esistenti fra potere politico e cariche massoniche», fu affidato a Eugenio di Beauharnais, appena insediato come viceré del Regno d’Italia. Qualche tempo dopo si costituì un Grande Oriente napoletano che, fra il 1806 e il 1808, fu guidato dal re di Napoli Giuseppe Bonaparte e, in seguito, da Gioacchino Murat. Conti accredita le stime secondo cui «nei territori italiani a egemonia francese si contarono circa ventimila affiliati, in larga parte funzionari civili e militari», che frequentarono le logge assieme ai rappresentanti dei ceti emergenti dei commerci, delle imprese e delle professioni. E riprende le tesi di Gian Mario Cazzaniga — curatore di La massoneria. Storia d’Italia, Annali, 21 (Einaudi) — secondo cui l’adesione alle logge fu per molti un fenomeno di convenienza ma, ad un tempo, esse costituirono un veicolo di circolazione delle idee liberali e un «laboratorio dell’unità nazionale». È sempre Cazzaniga a mettere in evidenza la «doppia realtà» della massoneria milanese e di quella napoletana: «Da una parte una adesione di massa, superficiale e provvisoria, a liturgie più dinastiche che muratorie, dall’altra una più ristretta e convinta rete liberale di spirito repubblicano, figlia spirituale degli Idéologues e degli Illuminati di Baviera, non senza presenze dell’esoterismo cristiano, che prepara ed anticipa le battaglie per le riforme costituzionali e per l’indipendenza nazionale».
Ma, come documenta Aldo Alessandro Mola in Storia della massoneria italiana (Bompiani), dopo la sconfitta del Bonaparte e in epoca di Restaurazione la Libera muratoria cedette gradualmente il passo ad altre associazioni segrete. Rimase, per così dire, sullo sfondo. La massoneria fu sostanzialmente inerte tra il 1830 e il 1870. Inoltre — mette in chiaro l’autore — «non ebbe alcun coinvolgimento diretto nelle prime due guerre di indipendenza e, più in generale, non prese parte alcuna alla cospirazione patriottica e dei moti risorgimentali». Di qui, il paradosso. Mentre «la massoneria risultava di fatto pressoché annientata, la Chiesa continuava a vedere in essa l’oscura ispiratrice di tutti i suoi principali nemici: il liberalismo, la democrazia repubblicana, il movimento patriottico che si batteva per l’Italia unita con Roma capitale, il laicismo positivista e materialista». Di questa bizzarria si accorse Gaetano Salvemini, che nel febbraio 1914 così scrisse ad Alessandro Luzio: «La leggenda che il Risorgimento italiano sia stato opera della massoneria è stata creata dai clericali, i quali, incapaci di rendersi conto di questo fenomeno, lo attribuirono al diavolo» (la lettera è riportata in un libro dello stesso Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano , edito da Zanichelli). Ma Pio IX e il suo successore Leone XIII continuarono a osteggiare senza tregua i Liberi muratori. Lo stesso fecero i Papi successivi. In Francia dal 1884 nacquero associazioni e giornali (cattolici) antimassonici. Nel 1887 «La Civiltà Cattolica» annunciò la formazione di una Lega per combattere la massoneria. Che poi confluì nell’Unione antimassonica, la quale nel 1896 tenne un convegno a Trento, città (all’epoca austriaca) che nel 1545 aveva ospitato il Concilio antiluterano.
Adesso — anche per effetto dell’offensiva cattolica — il clima era cambiato e, dopo l’avvento al potere della Sinistra (1876), la massoneria ebbe ben cinque presidenti del Consiglio: Depretis, Crispi, Zanardelli, Fortis e Boselli. Oltreché gli amministratori di alcune importanti città, primo tra tutti il sindaco di Roma (tra il 1907 e il 1913) Ernesto Nathan. All’avvento del fascismo, per avviare il percorso che avrebbe portato nel 1929 ai Patti lateranensi la Chiesa di Pio XI pretese e ottenne da Mussolini la messa al bando delle «associazioni segrete». E impose a don Sturzo le dimissioni dalla segreteria del Partito popolare, accusandolo di favorire, con il suo antifascismo, proprio la massoneria. Cosa che provocò una risentita lettera del sacerdote l’8 luglio del 1923. E neanche dopo la caduta del fascismo, la fine della guerra e il ripristino in Italia della democrazia le cose cambiarono. Né con Pio XII, né con Giovanni XXIII. Fu solo all’epoca di Paolo VI che si allentò la presa. Nel 1974 una lettera del prefetto della Sacra congregazione per la dottrina della fede, il cardinale croato Franjo Seper, all’arcivescovo di Filadelfia, pur ribadendo il veto ai fedeli di iscriversi ad associazioni massoniche, affermava che la scomunica doveva applicarsi soltanto a «quei cattolici iscritti ad associazioni che veramente cospirano contro la Chiesa». Il gesuita Giovanni Caprile fece notare che implicitamente si ammetteva l’esistenza di «associazioni massoniche che nulla hanno di cospiratorio contro la Chiesa e contro la fede». Le cose si fermarono lì. Ma quando nel 1978 morì Paolo VI, la «Rivista massonica» pubblicò un corsivo anonimo in cui si leggeva: «È la prima volta — nella storia della massoneria moderna — che muore il capo della più grande religione occidentale, non in istato di ostilità coi massoni».
Nel 1980 la Conferenza episcopale tedesca, dopo sei anni di incontri con esponenti delle Grandi logge di Germania, dava alle stampe una «Dichiarazione circa l’appartenenza di cattolici alla massoneria» in cui si accusava la Libera muratoria di non essere «mutata nella sua essenza» e si dichiarava che l’adesione ad essa metteva «in questione i fondamenti dell’esistenza cristiana». Successivamente tutte le principali personalità della Chiesa, fino a Joseph Ratzinger, hanno ribadito — pur senza particolare enfasi — la condanna della massoneria. Finché, a sorpresa (quantomeno per i toni), nel febbraio 2016 è comparso sul «Sole 24 Ore» un articolo del cardinale Gianfranco Ravasi dal titolo Cari fratelli massoni che ha riproposto le aperture della stagione di Paolo VI. Ma i tempi di una deposizione delle armi che possa essere considerata definitiva appaiono ancora lontani.

Corriere 27.12.17
La rivista «Harvard Working Knowledge» si occupa dell’opera sull’arte della mercatura scritta da Benedetto Cotrugli, nato nel Quattrocento
L’etica del capitalismo non è protestante, la inventò un italiano
di Daniele Manca


Di regali il Rinascimento ne ha fatti parecchi all’Italia e al mondo occidentale. Ma solo negli ultimi mesi anche l’economia e gli affari stanno scoprendo che gli debbono qualcosa in più. Non tanto e non solo per la partita doppia che Luca Pacioli delineerà in maniera compiuta nel suo Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità nel 1494. Ma per un altro libro, precedente, la prima opera del genere chiamato in inglese how to do . Un manuale di business. Come fare il mercante iscrivendo però la professione in un’architettura di princìpi, di valori, di dedizione. Quell’etica del capitalismo che possiamo pensare abbia avuto origine proprio da un manoscritto del 1458 pubblicato a Venezia solo nel 1573 a firma di Benedetto Cotrugli.
Il Libro del’arte de la mercatura è stato tradotto quest’anno in inglese da John Francis Phillimore e pubblicato dalla prestigiosa Palgrave Mc Millan: The Book of the Art of Trade . Se n’è parlato a Venezia lo scorso febbraio. Ca’ Foscari e il suo ex rettore Carlo Carraro, assieme al banchiere Fabio Sattin che ha fatto da trait-d’union con Dante Roscini, docente a Harvard, e uno dei maggiori storici viventi, Niall Ferguson, sono idealmente le persone attorno alle quali il fenomeno Cotrugli è andato affermandosi. Tanto da sbarcare alla prestigiosa università di Boston lo scorso ottobre e sulla prestigiosa rivista «Harvard Working Knowledge» a fine novembre.
Comprensibile l’attenzione. La domanda dalla quale sono partiti gli studiosi è semplice: come è possibile che un mercante italiano (le sue origini sono a Dubrovnik, al tempo chiamata Ragusa), del XV secolo possa insegnare qualcosa agli imprenditori di oggi, ai businessmen ? La risposta è nella storia stessa di Cotrugli, che si ritrova a dover fare il mercante mentre stava studiando all’Università di Bologna. Entrando nel mondo del commercio lo trova disorganizzato, senza una vera cultura, indisciplinato, preda di uomini che, incuranti delle leggi e delle regole, pensano solo a come arricchirsi.
Nel libro, diviso in quattro parti, si descrive invece un nuovo tipo di mercante. Capace di essere generoso con i poveri come lontano dalla politica. «Generalmente con nessuna corte non è conveniente al mercante impicciarsi et macime d’avere magistrati o administrationi, perché sono cose periculose, et quelli tali non sono di ragione da essere reputati mercanti, ma offitiali», scrive Cotrugli. Una professione da esercitare con onore, integrità, diligenza. E sebbene siano necessarie astuzia e scaltrezza, con queste non si deve esagerare.
Anche la successione deve essere preparata con cura e guidata dalla meritocrazia. I figli dovranno avere tutori che insegnino loro l’arte e facciano capire princìpi come quelli sul denaro. «Al tuo figliol non lasci maneggiar danari fino a che cognoscha che cosa è il danaro et quanto val, et con quanta fatica si guadagna», scrive il mercante filosofo. Come ha spiegato Roscini alla rivista di Harvard «ci sono concetti che rimandano alla corporate social responsibility e alla responsabilità verso la comunità». Concetti che solo qualche secolo più tardi faranno capolino tra le riflessioni sul capitalismo e i suoi fondamenti.

La Stampa 27.12.17
Missione militare italiana in Niger
Domani il via libera per 470 soldati
di Francesco Grignetti


L’arrivo di nuovi barconi, in questo scorcio finale di 2017, non stupisce più di tanto il ministero dell’Interno. Se la rotta libica nella seconda metà dell’anno è stata drasticamente ridimensionata, non si è però mai chiusa del tutto. Basta scorrere i numeri degli arrivi: 11.461 a luglio, 3.920 ad agosto, 6.282 a settembre, 5.984 a ottobre, 5.641 a novembre, 1.872 al 22 dicembre. In totale, 35.163 arrivi contro 111.214 nello stesso periodo del 2016.
La Dottrina Minniti funziona soprattutto perché sono diminuiti i passaggi attraverso il deserto. «Siamo riusciti a impedire che la Libia diventasse un collo di bottiglia», spiegava nei giorni scorsi. Merito di un lavoro coordinato con i colleghi di Ciad, Mali, Burkina Faso e Niger.
A proposito di Niger: domani il consiglio dei ministri ufficializza una nuova missione militare in quel Paese, che passerà gradatamente da 120 fino a 470 soldati. Apparentemente sarà una missione solo italiana di addestramento alle forze di sicurezza locali, ma di fatto sarà un impegno multinazionale visto che si inserisce in uno sforzo europeo (con francesi e tedeschi) e uno africano (a beneficiare del training e dei rifornimenti saranno all’inizio solo i nigerini, ma è previsto un allargamento alle forze di sicurezza di Mali, Ciad, Burkina Faso e Mauritania).
Scopo della missione, aiutare le forze locali a controllare il proprio territorio. Non basta più pattugliare il Mediterraneo, infatti. O impegnarsi per la stabilizzazione della Libia. «Il lavoro - ha spiegato il premier Paolo Gentiloni nei giorni scorsi - deve continuare, concentrando l’attenzione e le energie sul mix della minaccia del traffico di essere umani e il terrorismo nel Sahel».
Resta lo scandalo dei centri di detenzione in Libia. Le Nazioni Unite si sono impegnate a svuotarli prestissimo con rimpatri assistiti verso i Paesi di origine o con accoglienza all’estero per chi ha diritto all’asilo. Di qui il numero di 10.000 persone vulnerabili (con timbro Unhcr) che i Paesi Ue promettono di accogliere attraverso i «corridoi umanitari». Ma il piano è tutto sulla carta. La nuova Austria di estrema destra, per dire, è già sulle barricate.
E non c’è solo il corridoio che passa per la Libia a portare i migranti in Europa. Frontex, braccio operativo della Ue per la difesa dei confini, segnala che si è rivitalizzata la rotta del Mediterraneo occidentale che porta in Spagna (3.900 arrivi a novembre) e quella del Mediterraneo orientale con sbocco in Grecia (3.700 persone).

Corriere 27.12.17
Sinistra divisa sulla missione, critica anche la Lega
Scontro sui soldati in Niger
Calenda: «Occorre una nuova Costituente, le riforme non vanno fermate»
di Lorenzo Salvia e Fiorenza Sarzanini


L’ invio dei militari italiani in missione nel Niger è l’occasione di un nuovo litigio con la sinistra. «Un brutto regalo» commenta Liberi e uguali che accusa il ministro Marco Minniti di «non aver brillato per trasparenza». Critica anche la Lega. Il cambio di strategia voluto per accrescere il peso del nostro Paese in Europa. Il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda in un’intervista al Corriere chiede «una Costituente».

ROMA Ministro Carlo Calenda, che voto darebbe alla legislatura che sta per finire?
«Non spetta a me dare voti. Avevamo due grandi emergenze, quella economica e quella istituzionale. Sul primo versante il bilancio è positivo per merito di tanti fattori: la Bce, la capacità di reazione delle imprese italiane ma anche la politica economica dei governi Letta, Renzi, Gentiloni che ha ridotto il deficit liberando risorse per la crescita. I problemi non sono alle nostre spalle, ci vorranno anni per comporre le fratture sociali ed economiche della grande crisi. Ma i governi di questa legislatura, primo fra tutti quello Renzi, hanno fatto molto di più per la crescita dell’insieme degli altri governi della Seconda Repubblica».
E sull’altra emergenza, invece, quella istituzionale?
«Abbiamo perso la sfida della costruzione di un sistema più forte ed efficiente. Ritengo questo nodo fondamentale in uno scenario internazionale pieno di incertezze. La sicurezza nazionale viene messa a rischio da un sistema che rallenta l’implementazione delle decisioni, favorisce il prosperare di particolarismi e ci trasforma nella Repubblica dei ricorsi al Tar e dei feudi locali. La prossima legislatura dovrà avere al centro questo tema, diventato tabù dopo il referendum. Forse la strada giusta, per aumentare il coinvolgimento dei cittadini, potrebbe essere quella di un’assemblea costituente».
Addirittura. E perché?
«È l’unico modo per aprire in maniera ordinata la Terza Repubblica invece di subire la dissoluzione caotica della Seconda. Serve un luogo per affrontare le pulsioni diverse emerse dal referendum costituzionale e da quelli di Lombardia e Veneto. Un luogo per porre fine alla kermesse delle leggi elettorali estemporanee, ridisegnare il rapporto tra esecutivo e legislativo, per affrontare il tema di una democrazia efficace, che peraltro affiora in tutti i Paesi occidentali».
La cosa più importante che ha fatto come ministro?
«Industria 4.0, il piano Made in Italy e la Strategia energetica nazionale sono stati i tre pilastri dello sviluppo. I dati sulla produzione industriale, sugli investimenti privati e sulle esportazioni confermano che la strada è quella giusta. Ma se questo è il “gioco d’attacco” sono altrettanto orgoglioso di quello che abbiamo fatto per i settori industriali in difficoltà con una politica commerciale più forte contro il dumping, il rafforzamento del golden power contro gli investimenti predatori e il lavoro sulle crisi industriali, dall’Alcoa al protocollo contro le delocalizzazioni dei call center. Siamo riusciti a riportare al centro l’industria e il lavoro e questo era il mio obiettivo politico».
E la cosa più importante che invece non siete riusciti a fare?
«Come ministro, il ritardo nella costruzione di quello che dovrebbe essere il nostro Fraunhofer (la rete tedesca degli istituti di ricerca applicata per le imprese, ndr ), rimasto per un anno in balia delle “navette” tra ministeri e organi di controllo. E poi non aver avuto il tempo di presentare una seconda legge sulla concorrenza più incisiva dopo la prima approvata con anni di ritardo. Per i governi nel loro insieme, abbiamo mancato l’obiettivo di sconfiggere il rancore e la sfiducia nel futuro, ancora troppo diffusi nel Paese. Anche per colpa di molti errori di comunicazione che hanno dato il senso di un distacco con la parte del Paese che ancora soffre.
Sulla vendita di Alitalia è vero che state stringendo con Lufthansa?
«Abbiamo tre offerte. Le valuteremo con molta attenzione e a metà gennaio inizieremo la negoziazione in esclusiva».
D’accordo, ma la compagnia tedesca è in vantaggio rispetto a easyJet e al Fondo americano Cerberus oppure no?
«Ripeto, abbiamo tre offerte. Il nostro obiettivo è raggiungere un accordo prima delle elezioni. Oggi Alitalia è gestita meglio e finisce l’anno avendo lasciato sostanzialmente intatto il prestito ponte. Ma è un’azienda fragile che non può sopravvivere da sola attingendo illimitatamente al denaro pubblico».
E sull’Ilva? C’è il rischio che il compratore, ArcelorMittal, si ritiri?
«Non lo so. Ha chiesto garanzie sugli investimenti allo Stato per tutelarsi nel caso in cui i ricorsi al Tar invalidino tutto, magari fra due anni. È inaudito: 5,3 miliardi di euro per un investimento industriale nel Sud non si vedevano da 40 anni. Ma la cosa incredibile è che nel merito del piano ambientale non ci sono osservazioni rilevanti»
Be’, con il governatore della Puglia Michele Emiliano ormai siamo allo scontro quotidiano.
«Nell’ultimo incontro abbiamo rivisto punto per punto le richieste di Comune e Regione, in larghissima parte accettate, a partire dall’anticipo della copertura dei parchi minerari. Nel giro di poco più di 24 mesi Ilva potrebbe diventare la migliore acciaieria europea, liberando una città ostaggio del dilemma salute/lavoro che non è degno di un Paese civile. Il sindaco mi ha chiesto garanzie per ritirare il ricorso. Gli ho proposto di firmare con istituzioni, investitore, parti sociali un accordo di programma. Spero davvero che prevalga quella responsabilità invocata da tutti i sindacati, oltre che da Gentiloni».
Ha detto più volte che alle prossime elezioni non si candiderà. Non glielo chiedo di nuovo. Ma, da cittadino, chi voterebbe?
«Il mio campo è quello del centrosinistra. Del resto ho servito, e ne sono orgoglioso, sotto tre presidenti del Partito democratico che in modi diversi hanno mostrato qualità e capacità. Guardo con grande interesse all’operazione di Emma Bonino, è fondamentale che l’alleanza con il Pd vada in porto. Ma sopratutto mi batterò perché il centrosinistra recuperi il linguaggio della realtà e della responsabilità contro quello della fuga dalla realtà dei 5 Stelle e della Lega. La prossima legislatura è molto pericolosa».
Pericolosa? E perché?
«La fine degli stimoli della Bce, un’Eurozona orientata a minore flessibilità, l’Occidente sempre più diviso e il Mediterraneo tornato al centro delle crisi. Non è tempo di rottamazioni, slogan e leadership solitarie ma di costruire un ampio fronte liberal democratico capace di mettere in sicurezza il Paese mentre attraversa il più difficile crocevia nella storia del Dopoguerra».
ROMA L’obiettivo è indicato nel decreto che sarà approvato dal Consiglio dei ministri: «Rafforzare le capacità di controllo del territorio delle autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel (Niger, Mali, Mauritiana, Chad e Burkina Faso) e lo sviluppo delle Forze di sicurezza nigerine per l’incremento di capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza». È dunque la lotta agli schiavisti e ai fondamentalisti dell’Isis lo scopo primario della missione militare annunciata alla vigilia di Natale dal premier Paolo Gentiloni e dalla ministra della Difesa Roberta Pinotti per l’invio di soldati in Niger. Un impegno concordato oltre un mese fa con il presidente francese Emmanuel Macron che si inserisce in una nuova tattica politica sul piano internazionale: concentrarsi in quelle aree ritenute di «prioritario interesse strategico» e dunque il cosiddetto Mediterraneo allargato, dunque Africa del nord, Sahel, Medio Oriente, Corno d’Africa e Paesi del Golfo. E dunque rimanere in coalizione con Parigi e Berlino proprio per avere un ruolo attivo in Africa e dunque essere interlocutore privilegiato in sede europea.
I tempi
Dopo il via libera del governo il decreto dovrà essere ratificato dal Parlamento. Negli anni scorsi è capitato che il voto sulle missioni slittasse tra febbraio e marzo, ma poiché la legislatura è ormai al termine in questo caso bisognerà procedere in fretta e dunque è possibile che venga calendarizzato già a metà gennaio. Si procederà in base all’articolo 61 della Costituzione sugli «atti urgenti e indifferibili». Saranno prorogate le missioni già in corso e si aggiungerà quella per l’invio del contingente in Niger.
I 470 soldati
I primi a partire saranno i militari del Genio che si occuperanno del quartier generale e delle altre necessità primarie. Sono 120 i soldati inseriti nel primo contingente che dovrebbe stabilirsi nel Sahel entro i primi di marzo, mentre per la fine dell’anno si arriverà «fino ad un massimo di 470 unità, per una media di impiego di circa 250 unità. L’Esercito schiererà «addestratori, sanitari, genio militare, unità di supporto, unità di protezione». I mezzi terrestri a disposizione saranno 120 oltre a due aerei da ricognizione. Lo Stato maggiore sta analizzando ogni necessità in accordo con gli altri Stati che già si trovano nell’area, vale a dire Stati Uniti, Francia, Germania e i Paesi africani.
La tattica
Le resistenze dei comandi militari hanno finora impedito che si decretasse il ritiro del contingente dall’Iraq, ma la questione rimane aperta. E infatti all’invio dei soldati in Niger si affiancherà il progressivo rientro di quelli che sono tuttora impegnati in Afghanistan e gli altri che si occupano della sorveglianza della diga di Mosul. Anche tenendo conto che quella zona può diventare rischiosa per lo scontro tra forze governative e peshmerga. Nei colloqui avuti con Francia e Germania è stato ribadito come la scelta di andare in Sahel entrando a far parte di quella coalizione si trasforma «nel primo sviluppo di una concreta strategia di difesa europea».

Roma Quello di domani sarà il Consiglio dei ministri numero 65 della XVII Legislatura. L’ultimo del governo Gentiloni. Servirà per decidere l’invio di 470 soldati italiani in Niger. Una missione, ha detto il premier Paolo Gentiloni, «per sconfiggere il traffico di esseri umani e il terrorismo», perché «l’Italia ha l’obiettivo di costruire dialogo, amicizia e pace nel Mediterraneo e nel mondo».
Sarà l’ultimo atto del governo, ma rischia di trasformarsi anche nell’ennesimo scontro all’interno della sinistra, con Liberi e uguali che parla di «brutto regalo sotto l’albero» e accusa il ministro dell’Interno Marco Minniti di «non aver brillato per trasparenza».
Domani Gentiloni terrà anche la tradizionale conferenza stampa di fine anno e concluderà così il suo esecutivo. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si avvia a sciogliere le Camere già domani pomeriggio, il che prelude alla fine della legislatura e all’indizione di nuove elezioni. Il 4 marzo è la data più probabile visto che, per la Costituzione, «le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti».
Fino ad allora però, il governo Gentiloni dovrebbe restare in carica per gli affari correnti, tra cui anche il voto del Parlamento sulle truppe italiane in Niger. Una scelta dell’ultimo minuto che però non piace a molti. «Non serve» per il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli (Lega) che invita il governo a «usare quei soldi per pattugliare i nostri territori e mari». Mentre Pippo Civati e Andrea Maestri di Liberi e uguali parlano di «brutto regalo sotto l’albero di Natale», senza «una discussione seria e approfondita su una questione così importante di politica estera». I 5 Stelle definiscono «priorità la lotta ai trafficanti» ma «senza sviluppo sarebbe azione sterile» e perciò «aspettiamo di conoscere le regole di ingaggio dei nostri militari».
In tutto ciò si inserisce la questione sullo Ius soli, il cui esame al Senato è saltato il 23 dicembre per mancanza del numero legale. Il presidente Grasso lo ha calendarizzato il 9 gennaio, ma di fatto ne è stata decretata la morte, visto che le Camere si scioglieranno prima. E se Lega e Forza Italia esultano, Mdp accusa il Pd di «scelta politica: ha tenuto ferma la legge sulla cittadinanza per paura di perdere consensi». E Avvenire , quotidiano dei vescovi, sentenzia: «Scelta da ignavi».

Il Fatto 27.12.17
Effetto Etruria, nei sondaggi il Pd crolla ai minimi storici
Fine legislatura - Domani Mattarella può già sciogliere le Camere, la campagna elettorale inizia con Renzi ben sotto la “soglia Bersani”: i dem sono attorno al 23%
Effetto Etruria, nei sondaggi il Pd crolla ai minimi storici
di Tommaso Rodano


Negli ultimi giorni della legislatura il Partito democratico tocca forse il punto più basso della sua storia. A leggere i sondaggi pubblicati nei giorni di Natale, non è più solo un lontano ricordo il famoso 41% delle Europee del 2014 (che Matteo Renzi ritiene di aver eguagliato – perdendo – nel referendum costituzionale dell’anno scorso), ma pure la soglia del 25,4% del Pd di Bersani nelle Politiche del 2013.
Domani il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dovrebbe firmare lo scioglimento delle Camere (malgrado le tenui speranze di chi chiede un ultimo colpo di coda sullo ius soli). E forse già domani il Consiglio dei ministri, che si riunisce per la discussione sulle missioni militari, potrebbe scrivere il decreto che fissa le prossime elezioni al 4 marzo.
Il Pd inaugura malissimo la campagna elettorale: nell’ultimo anno la flessione è stata praticamente inesorabile. Il 2017 è iniziato con le ferite ancora fresche del referendum, è proseguito con la scissione di Bersani e Mdp, la nuova incoronazione di Renzi nelle primarie di fine aprile, la sconfitta nelle Amministrative di giugno e poi nelle Regionali siciliane di novembre. Si sta chiudendo, infine, con la batosta Etruria nella commissione parlamentare sulle banche. In ogni passaggio, eccetto le primarie, la lenta erosione delle percentuali dei dem è stata consequenziale ai fatti.
Gli ultimi numeri, per le ambizioni di Renzi, sono i più pesanti di sempre. Arrivano dall’istituto Ixé, li ha pubblicati il sondaggista Roberto Weber sull’Huffington Post. Il partito a guida toscana tocca il suo nuovo minimo: 22,8%. La rilevazione precedente era datata 6 dicembre (23,1%), da allora sono andati perduti altri tre decimali.
A fare impressione, nella ricostruzione di Weber, è la serie storica: da luglio a oggi il Pd ha lasciato sul campo quasi 5 punti percentuali (27,5 – 22,8%), oltre un milione e mezzo di voti potenziali. Nello stesso periodo il Movimento 5 Stelle è cresciuto dal 27 al 29% e il centrodestra nel suo complesso dal 33,2 al 36,6% (con una flessione della Lega e una risalita di Forza Italia). Si arresta, per Ixé, la crescita di Liberi e Uguali, la nuova lista di sinistra guidata da Pietro Grasso (dal 7,5 del 6 dicembre all’attuale 7,3%).
In linea con queste cifre anche il sondaggio realizzato da Tecné per Tgcom24. Anche qui il Pd si allontana dalla “soglia Bersani” delle ultime Politiche: il partito di Renzi è al 23% e nell’ultimo mese avrebbe perso oltre un punto percentuale (a novembre era al 24,2). La coalizione di centrodestra (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e cespugli) sfiora il 40% (38,5) e sopperisce anche alla netta flessione del partito di Salvini (in un mese passa dal 15,8 al 14,1%). I Cinque Stelle perdono mezzo punto e scendono al 26,9. Balzo in avanti di Liberi e Uguali, la lista di Grasso, dal 5,4 al 7,9%. Tecné ha studiato anche “l’effetto Etruria”: per il 65,7% degli intervistati, le recenti rivelazioni su Maria Elena Boschi hanno dato un’immagine negativa dell’ex ministra; si tratta di “ingerenza politica” e “conflitto d’interessi” (un’idea condivisa anche da parte degli elettori del Pd, il 21% degli interpellati).
Per il presidente di Tecné Carlo Buttaroni (intervistato da ilsussidiario.net) il legame tra Renzi e gli ex elettori si è incrinato in modo irreversibile: “È facile costruire un rapporto quando non c’è un pregresso, perché si costruisce senza macerie. Ma quando si rompe la fiducia, come nei rapporti senimentali, danno fastidio anche i tentativi di riconciliazione”. E l’incidenza del caso Etruria è ancora più grave, “va oltre il caso specifico, quello delle banche coinvolte nei fallimenti”.
I riflessi dell’affaire Boschi sono stati rilevati anche dall’Istituto Piepoli in un sondaggio pubblicato su La Stampa il 22 dicembre: secondo il 47% del campione, la sottosegretaria “dovrebbe ritirarsi dalla vita politica” in seguito alle novità emerse dalla commissione d’inchiesta sulle banche. Solo per un intervistato su quattro (il 25%) Maria Elena Boschi dovrebbe andare avanti (questa percentuale ovviamente è molto più alta – 60% – tra gli elettori del Pd). Ma per Nicola Piepoli, presidente dell’istituto omonimo, l’effetto Etruria “è marginale”. Il vero problema di Renzi è la frattura a sinistra: “Ora che ha un leader riconoscibile e apprezzato come Grasso, il partito di chi ha fatto la scissione raccoglie percentuali importanti per un mercato sempre più esiguo come quello del centrosinistra”. “Bisogna allearsi con i propri simili, non combatterli”, conclude il sondaggista, “la guerra la vince chi non la fa”.

Il Fatto 27.12.17
E la (imbarazzante) Boschi dove la metto? Il giro d’Italia dei collegi per paracadutarla
Da noi no! - Da Arezzo a Ercolano, dalla Basilicata al Trentino: un incerto pacco elettorale
di Lorenzo Vendemiale


Da Arezzo a Firenze, passando per Lazio, Basilicata o Trentino Alto Adige, per approdare a Pompei o magari a Lucca: Maria Elena Boschi è diventata un “pacco elettorale” e la sua ricandidatura in Parlamento si sta trasformando in una specie di Giro d’Italia.
Dopo le ultime rivelazioni nella commissione d’inchiesta sulle banche, il Pd non sa più dove piazzare la sottosegretaria alle prossime elezioni. La collocazione naturale sarebbe la “sua” Toscana, che però si è fatta piuttosto inospitale per il caso Etruria. Così i vertici dem stanno pensando di spedirla altrove. Fedelissima di Renzi, paladina della riforma costituzionale bocciata dai cittadini e con l’immagine acciaccata dalle manovre bancarie (ma “senza pressioni”, per carità), Boschi in questo momento rappresenta un bel rompicato per il Partito democratico: impossibile scaricarla, ma difficile trovarle un posto.
Al Nazareno, sul suo conto, c’è quasi un alone di mistero: da Renzi a Gentiloni, i big hanno assicurato che “sarà ricandidata”. Nessuno, però, ha specificato dove, né tantomeno come: un paio di settimane fa la diretta interessata aveva detto in televisione, ospite di Otto e mezzo su La7: “Mi auguro che sia in Toscana”. Ma si trattava solo di un auspicio: in via ufficiale neanche un vago indizio su come succederà, se correrà sia nel maggioritario che nel proporzionale e in quale Regione o provincia. E così fioccano le indiscrezioni, si moltiplicano le ipotesi di listini e collegi più o meno blindati per l’ex ministra.
Già a inizio novembre, sulla stampa e a palazzo, era stato immaginato lo scenario di una Boschi candidata nel Lazio, magari proprio a Roma, comunque lontana dalla Toscana e dalle banche a cui tanto da vicino è stata associata di recente. E ancora non erano emersi tutti i dettagli sulla sua sollecitudine nel tentativo di salvare la banca del territorio (e cara al papà). Da allora è stato un continuo girovagare, in cerca della poltrona giusta. A dicembre sembrava quasi certa la sua corsa in Campania, nel collegio di Ercolano, sotto l’ala protettrice del sindaco Ciro Bonajuto, suo grande amico e campione del renzismo. Altri, invece, prevedevano una sfida diretta a Luigi Di Maio a Pomigliano, casa del leader del Movimento 5 Stelle.
Un azzardo forse troppo grosso. Per questo è saltata fuori la strada che porta nella Basilicata dei fratelli Pittella o addirittura in Trentino Alto-Adige: qui, tra Bolzano e la Bassa atesina, avrebbe potuto esserci un posto sicuro. Peccato che l’idea non sia piaciuta per nulla agli autonomisti di Svp, che rivendicano quei seggi per i parlamentari altoatesini: contro di lei è partita persino una raccolta firme tra gli attivisti locali per rispedire al mittente il “pacco Boschi”. Così negli ultimi giorni si è tornati a parlare di una candidatura in Toscana: la sua Arezzo, ovviamente, oppure Firenze, fortino di Matteo Renzi. L’ultima idea in ordine di tempo è Lucca, collegio abbastanza sguarnito dal centrodestra che, secondo La Verità, sarebbe stato suggerito da Denis Verdini; Forza Italia è pronta a rispondere schierando Deborah Bergamini, responsabile comunicazione degli azzurri.
La scelta del collegio, comunque, rappresenta solo metà del problema. Visto il crollo nei sondaggi e le proiezioni negative sulla conquista dei collegi maggioritari, il modo più facile per assicurare la rielezione della Boschi (come degli altri big del partito), è quello del listino proporzionale, che garantisce al Pd dei posti sicuri in ogni collegio plurinominale.
Insomma, a meno che non sia proprio lei a decidere di giocarsi tutto nella sfida in un collegio maggioritario, alla fine Boschi avrà il suo paracadute e resterà deputata. Anche per il proporzionale ci sono le ipotesi più disparate: dalla solita Toscana alla Lombardia, dalla Campania alla Sardegna. O forse tutte (il limite è 4).

Il Fatto 27.12.17
I Radicali spaventano Renzi: “Aiutateci o corriamo da soli”


È una delle poche liste rimaste a sostegno di Renzi, dopo la fuga della sinistra e il ritiro di Pisapia. Ora il Pd rischia di perdere anche i Radicali, stavolta per un problema meramente tecnico e non politico: per presentare la lista “+Europa con Emma Bonino”, il partito ha bisogno di raccogliere le firme, ma con le norme attuali avrebbe solo nove giorni di tempo per farlo. Troppo poco. Così il segretario Riccardo Magi minaccia di non far parte della coalizione: “Andare da soli è l’unica possibilità per essere presenti alle elezioni”, spiega. “Noi siamo tra i pochi a non avere esenzioni e dover raccogliere le firme. Tuttavia, la legge stabilisce che gli apparentamenti per i collegi uninominali vengano presentati il 20 gennaio, ma il termine della presentazione delle firme è fissato per il 29”. Per evitare questo scenario, Magi chiede un intervento sulle regole: “Crediamo che il solo modo di evitare tale disparità sia tutte le liste coalizzate indichino i candidati con le modalità previste per le liste esonerate dalla raccolta firme”. La deroga, però, non è ancora arrivata. E così i Radicali avvertono: “Purtroppo, dopo gli appelli a Mattarella e a Gentiloni, non avendo ricevuto chiarimenti, a oggi siamo costretti ad andare da soli”.

Republica 27.12.17
La coalizione dem
Bonino e il Pd vicini alla rottura “Non facciamo alleanze al buio”
La legge obbliga i Radicali a raccogliere le firme prima che siano ufficiali gli apparentamenti “Se non c’è un chiarimento correremo da soli”
di Silvio Buzzanca


Roma «Nella legge elettorale c’è un baco, una contraddizione interna che non ci permette di fare l’apparentamento con il Pd. Dal 3 gennaio, in assenza di un chiarimento, cominceremo a raccogliere le firme per correre da soli » . Riccardo Magi è il segretario di Radicali italiani che insieme a “+ Europa” di Benedetto Della Vedova hanno dato vita alla lista “+Europa con Emma Bonino”.
Lista che doveva essere uno dei petali delle alleanze del Pd, che rischia però di fare la fine di Campo progressista di Giuliano Pisapia, lasciando piuttosto solo Matteo Renzi alle elezioni.
La questione ha apparentemente un sapore molto tecnico, il “baco” di cui parla Magi. Ma nasconde più di un problema politico e sostanzialmente una mancanza di fiducia da parte radicale nei confronti del Pd.
Tutto parte dalla nuova legge elettorale dove sono previsti gli apparentamenti nella parte proporzionale. Il termine per dichiarare queste “alleanze”, in caso di voto il 4 marzo scadrebbe il 20 gennaio. Il termine per la presentazione delle firme nei collegi proporzionali scadrebbe invece il 29 gennaio. Dunque in caso di fallimento di un accordo fra Pd e radicali all’ultimo minuto questi avrebbero solo nove giorni per raccogliere le firme e correre da soli.
In pratica Bonino e Magi temono di restare in mezzo al guado, senza apparentamento e senza liste. E siccome le firme le devono raccogliere ugualmente pensano di farlo per andare da soli. Bonino e gli altri parlano così di « legge elettorale anticostituzionale, discriminatoria».
Ma indicano anche una via di uscita, il “ chiarimento”, invocato da Magi: «Stabilire che l’indicazione dei candidati nei collegi uninominali di una coalizione avvenga, per tutte le liste coalizzate, secondo i tempi e con le modalità previste per le liste esonerate dalla raccolta firme » . Così tutti correrebbero alla pari.
Che è quello che poi Bonino, Magi e Della Vedova sono andati a chiedere nei giorni scorsi a Sergio Mattarella e Paolo Gentiloni. Il presidente della Repubblica ha capito il problema e ha anche convenuto sul fatto che questa parte della legge crea una discriminazione fra le liste.
Così nei giorni convulsi dell’approvazione della legge di Stabilità erano venuto fuori anche un ordine del giorno e un emendamento che sanava la situazione. Ma è saltato perché il forzista Renato Brunetta e la Lega hanno fatto il diavolo a quattro, per evidenti problemi di cassetta elettorale, e alla fine sono riusciti ad affossare tutto. Dunque problemi tecnici e problemi politici si mischiano. Qualcosa che può essere catalogato sotto la voce “ mancanza di fiducia”. Soprattutto da parte della Bonino e dei suoi radicali che, magari, attendono una mano da parte di un Pd ricco di potenziali autenticatori per la raccolta delle firme.
Ma soprattutto manca la fiducia su una raccolta di firme al “buio”, senza una trattativa vera sui collegi uninominali e i listini del proporzionale. Dunque “+Europa con Emma Bonino” dovrebbe attendere che il Pd assegni i collegi e i posti sicuri al suo nterno. Una scelta che, secondo voci, dovrebbe avvenire in Direzione fra il 15 e il 20 gennaio. Troppo tardi e rischioso per la Bonino che dice ai suoi: « Non posso ballare il tango con qualcuno che vuole ballare il twist e aspettare pure fino al 20 gennaio».

il manifesto 27.12.17
Da una guerra «umanitaria» all’altra
Italia in Africa. No allo ius soli, sì a una nuova avventura militare. L'annuncio della nuova missione militare in Niger.
di Tommaso Di Francesco


Da una guerra «umanitaria» all’altra. La scia nefasta non si ferma. Nemmeno a Natale, nemmeno per le feste. Così il presidente del Consiglio Gentiloni, ex pacifista – insieme all’altra ex pacifista, la ministra della difesa Pinotti – proprio dal ponte di una nave militare ha annunciato l’ennesimo intervento militare mascherato da soccorso umanitario. Dove? Siccome abbiamo sconfitto il jihadismo dell’Isis a Mosul, sposteremo quelle truppe nell’Africa sub-sahariana, per fermare «i flussi dei migranti e il terrorismo». A Mosul i bersaglieri ufficialmente proteggevano la diga di Mosul e gli investimenti lì dell’impresa italiana del gruppo Trevi (famosa per i rcenti crolli in borsa). A Mosul l’estremismo jihadista, la cui origine deriva dalla distruzione dello Stato iracheno per effetto di tre guerre occidentali – del terrore provocato da queste guerre si preferisce tacere -, lascia sul campo il corpo dilaniato dell’Iraq in un conflitto intestino che ancora brucia.
La frontiera del sud-Sahara è lunga più di 5mila chilometri, più che impossibili da controllare, più che permeabili alle fughe dei disperati dall’Africa in generale e dal Sahel in particolare; da quell’Africa dove divampano 35 guerre e dove il nostro modello di rapina depreda le risorse e per farlo unge le corrotte leadership locali (dalla Nigeria al Niger, dal Mali al Ciad al Burkina Faso, ecc.).
In questa situazione il governo che si avvia a chiudere i battenti, dentro una legislatura finita, annuncia l’invio di centinaia di soldati italiani, facendo perfino trapelare la possibilità – e sarebbe la vergogna delle vergogne – che sulla missione, della quale non sappiamo nemmeno il costo e chi la pagherà, si voti subito. Insomma, no allo ius soli ma sì ad una nuova avventura militare africana.
Come se quella in Libia del 2011 non si fosse dimostrata insieme fallimentare e generatrice del disastro che ne è seguito e del quale vediamo le conseguenze ogni giorno, nelle morti a mare e nelle guerre mediorientali che non finiscono. Dobbiamo però stare tranquilli dicono i generali che già prendono armi e parole: sarà una missione «no combat». Ma che senso hanno regole d’ingaggio affidate alla televisione e che presentano i militari italiani come «addestratori», quando in loco – in Niger – invece già si combatte duramente e da tempo, come dimostra la recente uccisione proprio in Niger – con tanto di polemica tra le famiglie delle vittime e uno sprezzante Donald Trump – di quattro marines delle forze speciali Usa?
Naturalmente «addestrarli» – facendo un favore al neocolonialismo francese di Macron che in Niger è di casa – vuol dire «aiutarli a casa loro», aiutarli a rinfocolare la guerra che alimenta il circolo vizioso delle stragi, delle fughe e dei profughi. Per le quali c’è una svolta: una sorta di Concordato sulle migrazioni.
È stato in questi giorni l’altro campione governativo, il coloniale Minniti che ha ricevuto, insieme al benedicente cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) l’arrivo di 162 migranti salvati con un corridoio umanitario «legale» dai centri di detenzione in Libia, indicando anche che potrebbero essere 10mila i migranti che potranno arrivare in Europa regolarmente dai campi e dalle carceri libiche, con la garanzia dell’Unhcr, che verificherà in Libia chi ha diritto alla condizione di rifugiato e chi no, e della Conferenza episcopale italiana; e poi, secondo gli obiettivi attribuiti all’Organizzazione mondiale dei migranti (Oim), dovrebbero essere invece 30mila i migranti giudicati senza diritto d’asilo, che dovranno tornare a casa con rimpatri «volontari».
Onestamente, siamo davvero contenti per i primi arrivati, i 162 liberati dalle condizioni di detenzione in Libia, e davvero felici per l’annuncio dei, forse, 10mila nel 2018 – meno invece per i 30mila già previsti come «ricacciati» a casa. Ma perché intanto il governo italiano ha contribuito a chiudere la rotta del Mediterraneo intrappolando in Libia da 700mila a un milione di persone – dalle stime della stessa Onu?
Perché, per un esodo che è epocale, abbiamo criminalizzato le Ong che soccorrono sulle coste libiche i migranti? Perché li abbiamo consegnati al controllo delle cosiddette autorità libiche, le stesse che dovrebbero garantire la svolta natalizia-concordataria di Minniti, e che invece continuano a non controllare alcunché, in un Paese in guerra e in mano a centinaia di milizie che volta a volta si chiamano esercito governativo o guardia costiera, ognuna delle quali gestisce centri di detenzione e di tortura fin qui per conto nostro?
Di quell’Italia ormai capofila, con il Codice Minniti, dell’Unione europea sui migranti, mentre i Paesi europei a ovest si aprono a parole e a Est si chiudono minacciosi e razzisti con i muri, rifiutando perfino la misera ripartizione di un’accoglienza che invece dovrebbe essere epocale. Mentre scriviamo è stato salvato nella notte un barcone con 250 migranti, ma si teme per la sorte di altre due imbarcazioni di fortuna per ora pericolosamente disperse tra Libia e Canale di Sicilia.
Francamente, gli annunci del trio Gentiloni-Minniti-Pinotti risultano angusti e oscuri anche da un punto di vista elettorale. Così accontentiamoci del solo principio che avanza, anche quello fortunato per chi capita. È il principio della lotteria. Come per il migrante numero centomila sbarcato a Lampedusa prima dell’estate: grazie alla nascita miracolosa della piccola Miracle, avrà l’atto di nascita della figlia e quindi forse la possibilità di ottenere il diritto d’asilo.

il manifesto 27.12.17
L’«utilità», non marginale, di Donald Trump
Stati uniti. L’annuncio continuo del caos prepara il ritorno al neo-keynesismo militarista
di Enzo Modugno


Ma gli Stati Uniti sono in buone mani? C’è motivo di ritenere che il presidente Donald Trump, nonostante la cattiva stampa, stia invece realizzando le aspettative del mondo degli affari. Le sue decisioni, deplorate perché producono tensioni, sarebbero invece funzionali al buon andamento dell’economia. Potrebbe suggerirci questa conclusione un saggio di Paul M. Sweezy del 1960, Teoria della politica estera americana, che individuava le ragioni profonde della politica estera statunitense nella tendenza permanente dell’economia capitalistica alla depressione, che può essere superata da adeguati «stimoli esterni»: ma non eliminata in quanto tendenza perché la depressione riaffiora se diminuiscono questi stimoli. Tra questi è sempre disponibile una vasta spesa pubblica, preferibilmente militare perché quella civile lede molti interessi (il keynesismo militare è poi definitivamente prevalso col neoliberismo).
La pressione degli interessi di un capitalismo sempre sull’orlo di crisi devastanti reclama la corsa al riarmo – scrive Paul M. Sweezy – e il compito principale della politica estera diventa quello di offrirne le necessarie giustificazioni.
IL PRESIDENTE TRUMP sta eseguendo meglio di alcuni suoi predecessori questo importante compito. Infatti «tener viva la tensione internazionale» significa giustificare la spesa per le armi e ogni dollaro dato al Pentagono fa aumentare il Pil di circa tre dollari entro un anno e con effetto duraturo, come hanno concordemente dimostrato molti studi (tra gli altri anche quelli di Francesco Giavazzi e di Perotti e Blanchard, Working Paper n.7269). Una prospettiva irresistibile per un capitalismo sempre a un passo dalla crisi economica, che è il vero inconfessabile nemico che rode dall’interno l’impero.
KEYNESISMO MILITARE dunque, sul quale c’è, ma sembra che si stia perdendo, un patrimonio teorico che ha avuto inizio ben prima che lord Keynes gli concedesse questo nome, da Rosa Luxemburg ad Antonio Gramsci, e che poi è continuato da Kalecki a Sweezy a Joan Robinson, fino a riparare in Vaticano.
Può essere utile perciò un breve promemoria.
BERGOGLIO E ROSA LUXEMBURG. Il papa che va al fondo dei problemi, condannando la guerra ha parlato, unico leader al mondo, dei profitti derivanti dagli armamenti «che spiegano molti conflitti, compreso quello in Siria», rinnovando l’attenzione su quell’importante aspetto del militarismo che è la sua funzione economica. La cui prima analisi appunto si deve a Rosa Luxemburg, in un saggio del 1898 e in articoli e discorsi, 1913-1915, sul militarismo tedesco.
Bergoglio infatti è un gesuita e conosce i sacri testi suoi e i sacri testi del movimento operaio. Dunque Rosa Luxemburg, in polemica con Bernstein, con preveggente chiarezza, descriveva la funzione economica del militarismo come «una forza impulsiva, propria, meccanica, destinata a rapida crescita» perché le spese militari erano indispensabili al capitalismo: costituivano un mercato addizionale per assicurare alla produzione una nuova domanda più regolare, con un ritmo di sviluppo costante. «Il militarismo quindi rappresenta il più proficuo e imprescindibile tipo di investimento, promosso dagli stessi capitalisti tramite l’apparato parlamentare e la manipolazione operata dalla stampa». Rosa Luxemburg, che fu uccisa perché militante di un partito operaio, oggi sarebbe stata accusata di «complottismo»: si trattava invece di una lucida analisi di ciò che si sarebbe chiamato keynesismo militare, «il più proficuo investimento» che ha dominato il Novecento.
GRAMSCI. Un tema ripreso da Antonio Gramsci che nel 1917 denunciava «le trame dei seminatori di panico stipendiati dall’industria bellica che dalla guerra ci guadagna». Gramsci fu vittima del fascismo, ma oggi quegli «stipendiati» avrebbero accusato anche lui di «complottismo».
DIALETTICA DEL MILITARISMO. Se, da un lato, la funzione aggressiva del militarismo – che serve al dominio su mercati, risorse e campi di investimento e al dominio di classe interno – tende rapidamente alla vittoria e all’annientamento del nemico, d’altro lato invece la funzione economica del militarismo tende a prolungare lo scontro, evoca il nemico, lo sceglie, lo provoca, lo enfatizza, lo produce se non c’è: e questo, come ha scritto Paul M. Sweezy, è uno dei compiti principali della politica estera del governo Usa. Anche Alain Joxe, lo studioso francese di studi strategici, ha scritto: «La Corea del Nord è un caso raro, quindi diventa necessario, per rilanciare l’economia con la corsa agli armamenti e la guerra, produrre continuamente zone di intervento, e gli Usa procedono in tal senso». Col presidente Trump procedono sia la Guerra al Terrore – che ha sostituito la Guerra Fredda perché «qualcuno doveva pur fare il nemico» (Henry Kissinger) – sia la tradizionale tensione con la Corea del Nord che ha raggiunto livelli mai toccati prima.
LA FUNZIONE ECONOMICA del militarismo però si presenta come militare ma è militarmente priva di senso, produce un apparato bellico abnorme che oltrepassa ogni possibile esigenza strategica.
LA FUNZIONE MILITARE invece, nonostante l’esibizione del massacro, diventa inessenziale perché ha la sua verità nell’altra, è solo mimata, non tende alla soluzione ma alla continuazione del conflitto, come le interminabili guerre asimmetriche seguite alle guerre mondiali. Sulla guerra in Iraq ha scritto John Keegan, massimo storico militare inglese: «non poteva neanche chiamarsi guerra».
È IL CAPOVOLGERSI dell’economico e del militare, dell’essenziale e dell’apparente che si rivelano come le figure ricorrenti di un oscuro processo dialettico. È necessario rovesciarlo per scoprire il nocciolo economico entro il guscio militare. Troveranno la sintesi non nella vittoria ma nella guerra infinita, nell’esibizione di morte, insomma nella gestione militare del ciclo economico.
La versione ufficiale invece scompone di continuo questa totalità complessa, ne spezza artificialmente il divenire, esibendo ossessivamente la minaccia esterna, mostrando cioè un solo momento separato, estrapolato dal procedere della società capitalistica. Sono queste le fake news che governano il mondo, indispensabili alla sopravvivenza di questo modo di produzione.
JOAN ROBINSON. Come stanno le cose infine lo ha mostrato con chiarezza sulla New Left Review, anche Joan Robinson, economista tra i maggiori del ‘900: «Le recessioni non si possono evitare se non con le spese militari, e poiché per giustificare gli armamenti si deve tenere viva la tensione internazionale, risulta che la cura è peggiore del male»

La Stampa 27.12.17
Trump taglia i fondi all’Onu
dopo il voto su Gerusalemme
Mantenuta la promessa di Nikki Haley: 285 milioni di dollari in meno La mossa del presidente compatta i repubblicani verso il voto di Midterm
di Paolo Mastrolilli

L’amministrazione Trump ha tenuto fede alla minaccia di tagliare i finanziamenti all’Onu, dopo la risoluzione approvata dall’Assemblea Generale che bocciava il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele.

Lunedì l’ambasciatrice Haley ha annunciato che gli Usa ridurranno di 285 milioni di dollari il loro contributo al bilancio regolare del Palazzo di Vetro. Così però Washington punirà l’organizzazione, invece dei 128 Paesi che le hanno votato contro, esercitando lo stesso diritto alla difesa della loro sovranità nazionale, che Trump ha invocato per la sua decisione di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv.
Per il biennio 2018-2019, l’Onu ha approvato un bilancio da 5,4 miliardi di dollari. Secondo la regola che distribuisce i contributi in base al pil dei Paesi, gli Usa dovrebbero pagare il 22% di questa cifra, che nello scorso biennio era ammontato a 1,2 miliardi. Da qui verranno tolti 285 milioni, incidendo in particolare su viaggi, consulenze, e altre spese operative. Il taglio è stato negoziato domenica, e la Haley lo ha annunciato così: «Non consentiremo più che la generosità del popolo americano venga abusata o rimanga senza controllo. In futuro, potete essere certi che continueremo a cercare maniere per migliorare l’efficienza dell’Onu, proteggendo i nostri interessi».
Il taglio è una rappresaglia politica, peraltro minacciata apertamente durante il dibattito su Gerusalemme, che ha poco a che vedere con le questioni economiche. L’amministrazione Trump, come quella di Bush figlio, ha un’avversione ideologica nei confronti dell’Onu per almeno tre ragioni: primo, la sua dottrina sovranista non accetta l’idea di organizzazioni multilaterali che possano imporre la loro volontà sul governo americano, anche se questo nel caso del Palazzo di Vetro è impossibile, perché avendo il potere di veto gli Usa possono bloccare qualunque risoluzione legalmente vincolante del Consiglio di Sicurezza che non condividono; secondo, le Nazioni Unite sono percepite come nemiche di Israele; terzo, l’organizzazione è fondamentalmente progressista e liberal, promuove principi come la salute riproduttiva o la lotta ai cambiamenti climatici, e quindi ha un’agenda generalmente avversa, se non opposta, a quella del governo Usa in carica. Quindi ogni occasione per attaccare l’Onu è apprezzata dalla base di Trump e può quindi giovare al partito repubblicano in vista delle elezioni del novembre 2018 per il rinnovo parziale del Congresso di Washington.
I difetti di questa visione sono principalmente due. Il primo sta nella natura dell’organizzazione. Il Palazzo di Vetro è solo una struttura dove i 193 Paesi del mondo si incontrano e discutono. Anche se venisse abbattuto, le posizioni globali resterebbero quelle. Su Gerusalemme, ad esempio, 128 Paesi sarebbero contrari al riconoscimento. Senza l’Onu non avrebbero una piattaforma per farlo sapere, ma sul piano politico concreto il problema resterebbe invariato. Il secondo difetto sta nel fatto che le Nazioni Unite le avevano volute proprio gli Usa, per difendere i loro interessi. È vero, ad esempio, che Washington paga il 22% del bilancio, ma ciò significa che il resto del mondo paga il 78% rimanente. Con questi soldi, ad esempio, si finanzia l’assistenza ai rifugiati che scappano dalla Siria in Giordania, stretto alleato degli Usa nella lotta al terrorismo, che senza gli aiuti Onu sarebbe già esploso.

Il Fatto 27.12.17
Bye bye Navalny Putin si blinda. Opposizione zero
di Leonardo Coen


I tre giorni del Condor Navalny. Tutto comincia domenica 24 dicembre, quando, da un palchetto improvvisato sul lungo fiume della Moscova (nessuno gli ha concesso l’uso di una sala), l’avvocato-blogger Alexei Navalny, il più credibile degli oppositori di Putin, annuncia che è “fiero” di presentarsi come “candidato di tutta la Russia” alle prossime elezioni presidenziali del 18 marzo 2018, nonostante lo scorso ottobre la Commissione Elettorale Centrale russa (Cec) lo abbia dichiarato “inelegibile” sino al 2028 in virtù di una condanna (5 anni) per presunte mazzette ai danni della filiale russa di Yves Rocher. Poi si reca alla sede della Commissione e deposita il dossier di candidatura, con le 300mila firme necessarie.
Lunedì 25 dicembre – il Natale ortodosso si celebra il 7 gennaio – la Commissione elettorale presieduta da Ella Pamfilova convoca Navalny per ufficializzare il responso. Una decisione lampo, fin troppo sospetta. Navalny si rivolge ai 12 membri della Cec: “Non vi chiedo un atto d’eroismo, non avete una pistola puntata contro la tempia. Vi chiedo solo di fare il vostro lavoro di funzionari dello Stato e di applicare la legge, ossia ciò per cui siete pagati dai vostri concittadini”. Appello inutile. Undici membri della Cec (uno si è astenuto) hanno rigettato la candidatura, motivando il no con la condanna a 5 anni per corruzione: “Sarebbe occorso un miracolo”, aveva detto giorni fa la 64enne Pamfilova, anticipando in un certo senso l’imbarazzante verdetto.
Navalny commenta: “È evidente che i processi contro di me sono stati una montatura: vi ricordo che la Russia è stata condannata dalla Corte Suprema dei Diritti dell’Uomo”.
Appena la sessione della Cec si conclude, sul web russo è immesso un video in cui Navalny invita gli elettori a scioperare: “Chiediamo a tutti di bloccare queste elezioni. Non riconosceremo il risultato del voto. Putin è terribilmente spaventato e ha paura di rivaleggiare con me”. La “controcampagna” si avvale pure di un nuova inchiesta sulle fortune di Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino e fedelissimo di zar Vladimir.
Ieri l’Unione europea ha espresso seri dubbi sul pluralismo politico in Russia. Peskov ha replicato: “Che la candidatura di Navalny sia stata respinta non pone in alcun modo risvolti negativi sulla legittimità delle elezioni”.
Insomma, tutto normale. Le regole sono state rispettate. Anzi, la Pamfilova annuncia che saranno accolti centinaia di osservatori, a monitorare il voto. Ilia Iashin, uno dei più stretti collaboratori di Navalny, ironizza: “Putin può recitare bene in tv il ruolo di macho, ma se hai paura d’affrontare il tuo solo vero oppositore, il tuo machismo non vale un soldo”.
Peskov mette in guardia Navalny: “L’appello al boicottaggio deve essere attentamente studiato per vedere se infrange la legge”. Parole come un tintinnìo di manette. Navalny ci è abituato: quest’anno, in galera, ci è finito 3 volte. Oggi, però, incassa una vittoria morale. Lo zelo della Cec dimostra quanto Putin tema il dissenso. Vuole evitare l’effetto indignazione, l’ondata anti-corruzione. Così si è disfatto del popolare e pericoloso antagonista. Farà un boccone della candidata Xsenia Sobchak: utile a dimostrare che il voto è “pluralista”, la divetta tv si batte “contro tutti” che, nel politichese russo, vuol dire contro nessuno.

Il Fatto 27.12.17
Per gli scritti anti-semiti di Céline ebrei contro l’editore Gallimard
Annunciate nuove pubblicazioni nel 2018


Più è proibito e più desta curiosità. Era già successo con il Mein Kampf, diventato un best-seller da 85.000 copie vendute. Tornato in vendita, un paio di anni fa, nelle librerie a opera dell’Istituto di storia contemporanea di Monaco dopo 70 anni di divieto. Il testo aveva decretato un successo inaspettato. Ora, invece, la casa editrice parigina Gallimard ha intenzione di ristampare i libri antisemiti di Louis-Ferdinand Céline, in accordo con la vedova dell’autore, per la primavera del 2018. Francis Kalifat, presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, ha chiesto all’editore di non procedere alla ripubblicazione perché si potrebbe “fomentare” l’ondata “razzista, xenofoba e antisemita” che sta montando in Europa. Presa di posizione anche da parte del governo francese: Frédéric Potier, delegato interministeriale alla lotta contro il razzismo e l’antisemitismo, ha scritto a Gallimard per chiedere “garanzie” a proposito della ristampa.
Céline, nei suoi scritti, denunciava la rovina della Francia per mano degli ebrei e dei capitalisti, invocando un nuova alleanza con la Germania di Hitler con lo scopo di predisporre uno scontro tra Stati ariani e Stati giudeizzati. Con la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, Céline fu accusato di antisemitismo e collaborazionismo, guadagnandosi, così, l’esilio dalla Francia.