giovedì 28 dicembre 2017

Corriere 28.12.17
Libri, 6 italiani su dieci non leggono
I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero
Tra i ragazzi di 11-14 anni, legge il 72,3% di chi ha madre e padre lettori e solo il 33,1% di coloro che hanno entrambi i genitori non lettori
di Cristina Taglietti

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Ansa 21.4.17
4 milioni di lettori in meno, il 57% non ha mai letto

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Il Fatto 28.12.17
Un popolo che ha bisogno di eroi ma che legge Vespa e Fabio Volo
Da Milano a Palermo, il dominio di Mondadori. Si salvano gli indipendenti
di Fra. Mus.


Letterati di tutta Italia, mettetevi l’animo in pace. Questo Natale, dati ufficiali alla mano, segna il grande ritorno su scala nazionale di Fabio Volo (Quando tutto inizia) seguito dall’intramontabile Bruno Vespa (Soli al comando), tallonato da Ken Follett con La colonna di fuoco, Isabel Allende (Oltre l’inverno) e Dan Brown con Origin. Insomma un vero e proprio trionfo per la casa editrice Mondadori che, da Segrate, ha imposto il suo diktat sulle librerie, occupando quattro dei cinque primi posti delle classifiche di vendita nella settimana natalizia (come confermano i dati forniti dal gruppo Ubik). Posizioni confermate dalle librerie Feltrinelli, con eccezione proprio della vetta, con la Allende che scalza Volo dal podio. Un Natale 2017 all’insegna dei bestseller eppure non mancano i colpi a sorpresa, a partire dall’exploit di Zerocalcare con Macerie prime (Bao Publishing), ormai sdoganato al grande pubblico, Wonder di R. J. Palacio (Giunti) e Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie, entrambi trainati dai film in sala e infine, Lenticchie alla julienne di Antonio Albanese (Feltrinelli), prendendo in giro tutti gli chef e il loro linguaggio improbo alla tv. Ma non è tutto, visto che probabilmente sbaragliando ogni pronostico ha venduto molto bene anche la biografia di Michelle Hunziker, Una vita apparentemente perfetta (Mondadori).
Benone gli italiani, guidati da Gianrico Carofiglio (Tre del mattino) e Alessandro D’Avenia (Tutte le storie sono storie d’amore), l’instancabile De Giovanni, Di Pietrantonio e Cognetti, con le trionfali fascette dei premi Campiello e Strega in bella vista e Donato Carrisi con L’uomo del labirinto (Longanesi). Ma dappertutto è andata così?
Le librerie indipendenti di tutta Italia, invece, hanno preso tutta un’altra strada. Alla Modus Vivendi di Palermo, Fabrizio ha consigliato da vicino i suoi clienti, “orientandoli su un acquisto locale”. Hanno vinto la raccolta Un anno in giallo e Borgo Vecchio di Giosuè Calaciura (Sellerio), Simonetta Agnello Hornby (Nessuno può volare) e il giovane Carlo Loforti (Malùra, Baldini&Castoldi). E “dopo la scelta di rompere con Amazon, è cresciuto l’acquisto di E/O e i lettori hanno premiato Il club dei bugiardi di Mary Karr”. Un titolo azzeccato vista la querelle. Alla libreria IoCiSto nel quartiere del Vomero, Alberto ci conferma che sulla piazza napoletana stravince Maurizio De Giovanni con Souvenir (Einaudi), seguito da Wanda Marasco (La compagnia delle anime finte, Neri Pozza, finalista allo Strega), Lorenzo Marone, Roberto Saviano (Un bacio feroce, Feltrinelli) e Jeffery Deaver, “che si è affezionato ai nostri lettori”. Da Libri&Bar Pallotta, a Roma, sul piazzale di Ponte Milvio, Carla dichiara con un certo orgoglio: “Qui non hanno vinto né Volo né Vespa” e alla fine trionfano Augias, Follett, Cazzullo e poi il giallo Brighton (Michael Harvey, Nutrimenti) e Con molta cura dello scomparso Severino Cesari, “perché ci riguarda un po’”. Ancora più particolari le scelte dei lettori alla libreria Marco Polo di Venezia in cui trionfa, fatalmente, Marco Polo di Viktor Šklovskij (Quodlibet) seguito da Zerocalcare, Cromorama di Falcinelli (Einaudi) e una selezione di titoli Iperborea “ormai felicemente fidelizzati ai lettori lagunari”, come afferma Claudio al telefono.
Infine, direttamente da La Scatola Lilla a Milano, la libraia Cristina Di Canio, fra un cliente e l’altro, comunica la sua top five che inizia con L’estate che sciolse ogni cosa (Tiffany McDaniel, Edizioni Atlantide), passando per Tre Piani di Eshkol Nievo (Neri Pozza), Il mare dove non si tocca (Fabio Genovesi, Mondadori), Il caso David Rossi del giornalista del Fatto Davide Vecchi (Chiarelettere) e, infine, La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, edito da Sur.

Repubblica 28.12.17
Vaticano
Ior, spionaggio e trame segrete dietro la cacciata del numero due
di Paolo Rodari


L’ufficio di Giulio Mattietti, ex direttore aggiunto dello Ior, per anni capo dell’Information Technology (It) dell’Istituto, silurato il 29 novembre scorso senza motivazioni ufficiali, è chiuso sprovvisto degli appositi sigilli. A conferma che con la sua fuoriuscita non ha avuto nulla a che fare le gendarmeria.
Tutto è stato gestito dai vertici della banca vaticana, il presidente Jean- Baptiste de Franssu e il direttore Gianfranco Mammì in primis. Si voleva che Mattietti non portasse nulla via con sé dall’ufficio. I timori, tutti da verificare, erano che potesse alimentare una nuova fuga di documenti sia fuori sia dentro le sacre mura.
Ancora oggi, quattro giorni dopo la clamorosa intemerata del Papa contro i « traditori » della curia che una volta allontanati si dichiarano « martiri del sistema», in molti si domandano cosa celi questo licenziamento. Si tratta del colpo di coda della vecchia gestione oppure di un passo falso di un mondo in rivoluzione? Di certo la vicenda s’inserisce in un quadro di incomprensioni fra Segreteria di Stato, Segreteria per l’Economia e vertici dello Ior, punti di vista differenti in merito a chi ascrivere la gestione delle finanze in attesa che nel 2018 Francesco riformi la curia.
Il motivo del licenziamento di Mattietti, secondo quanto apprende Repubblica, è che era in grado di disporre, e quindi potenzialmente di offrire internamente, informazioni sensibili sul lavoro dell’Istituto stesso. L’ufficio dell’It non si trova nello Ior, ma dall’altra parte della cittadella vaticana, vicino a palazzo San Carlo. Una distanza che ha aumentato la diffidenza nei suoi confronti da parte dei vertici dello Ior, l’ex presidente Ernst Von Freyberg, prima, De Franssu e Mammì oggi, che lo hanno considerato in questi anni un corpo estraneo. Fu Von Freyberg a vagliare per primo la possibilità del suo licenziamento ma senza successo. Soffriva, il banchiere tedesco, la stima e la fiducia che potenti monsignori della Segreteria di Stato riponevano in Mattietti tanto che, sostanzialmente, si sentiva controllato. Un sentimento nutrito nei suoi confronti anche da De Franssu e Mammì i quali, forti di un legame con Francesco, sono invece riusciti a cacciarlo. Mattietti il 27 novembre scorso ha scritto ai superiori dello Ior chiedendo di conoscere i motivi del licenziamento. Una mossa che sembra poter sortire qualche effetto se è vero che per evitare ulteriori voci il Vaticano gli concederà presto il pensionamento.
Segreteria di Stato e Ior, Commissione cardinalizia che sovrintende l’Istituto e segreteria per l’Economia. È sull’asse di questi dualismi che ancora oggi le finanze vaticane non riescono a trovare un compromesso per far terminare gli scandali e l’accusa di non volere la trasparenza. La Commissione da tempo si è mantenuta un passo indietro rispetto al lavoro del board laico presieduto da De Franssu il quale, insieme al prefetto della Segreteria per l’Economia George Pell, oggi di fatto non più facente funzioni essendosi trasferito in Australia per difendersi dalle accuse di pedofilia, nel 2014 spinse per la creazione del Vatican asset management ( Vam), che sarebbe dovuto divenire il perno dell’architettura economica della Chiesa. Contro l’operazione De Franssu-Pell si oppose la Segreteria di Stato che convinse il Papa a stare dalla propria parte. Decisioni che pesano ancora oggi all’interno di equilibri sempre labili.
Francesco, all’inizio del suo pontificato, sembrava propenso a chiudere lo Ior: «San Pietro non aveva una banca » , disse. Poi ha deciso di mantenere in piedi un Istituto votato a gestire i risparmi delle missioni sparse nel mondo.
Ma gestire le finanze senza scandali non è facile. Recentemente, per controllare meglio l’Apsa, Francesco ha creato un nuovo incarico, quello di amministratore, affidandolo a Gustavo Óscar Zanchetta, fino a luglio vescovo di Orán, in Argentina. Una nomina arrivata nelle stesse ore in cui il Procuratore generale Francesco Mollace ha chiesto di ripristinare l’imputazione di corruzione, oltre a quella di calunnia, con conseguente condanna a quattro anni e mezzo di reclusione

il manifesto 28.12.17
La Costituzione non è mai al sicuro, occhio ai programmi elettorali
1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto
di Anna Falcone


Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta – per chi voglia raccoglierla seriamente – la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto alle inaccettabili diseguaglianze del nostro tempo. Un passaggio necessario, se non indispensabile, per rafforzare la credibilità dei programmi politici e, auspicabilmente, ricucire quel rapporto di fiducia fra politica e cittadini mai così in crisi. Un vulnus democratico tradotto in un astensionismo che sfiora ormai il 55% dell’elettorato: dato più che allarmante a cui non ci si può e non ci si deve rassegnare.
Rilanciare il messaggio della necessaria difesa e attuazione della Costituzione – in particolare delle norme che garantiscono il pieno e trasparente esercizio della democrazia e attribuiscono alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che alimentano e aggravano le condizioni di diseguaglianza fra cittadini – diventa, allora, cruciale, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale le cui regole saranno scandite dall’ennesima legge elettorale ad alto rischio di incostituzionalità.
Pur nella piena consapevolezza che la Costituzione non delinea un programma univoco, capace di blindare le scelte dei diversi governi – è necessario riconoscere, infatti, e una volta per tutte, che esiste un nucleo duro di principi e diritti fondamentali inderogabili che ogni forza politica deve impegnarsi ad attuare, nelle forme e nei modi che ritiene più opportuni, per rispettare quella fedeltà alla Costituzione che li lega indissolubilmente alla Repubblica e ai suoi compiti costituzionali. Un patto democratico di diritti e obiettivi programmatici, inequivocabilmente vincolanti, che deve tornare ad essere il cuore di ogni programma elettorale. Soprattutto a Sinistra.
Sia chiaro: non è un’indicazione di voto, ma il suggerimento a una riflessione suppletiva sul voto e su chi auspicabilmente si impegnerà in maniera chiara e credibile a difendere e attuare la Costituzione. Nella piena consapevolezza che un tale ambizioso obiettivo, per essere concreto, deve essere condiviso da tanti, e non è monopolizzabile da pochi o da forze marginali. Perché la Costituzione non è perfetta, né intoccabile, ma è l’unico punto certo che abbiamo, il primo “bene comune” in cui si riconoscono gli italiani in questa difficile fase di transizione democratica. Se questa virerà verso il restringimento progressivo degli spazi di partecipazione e di democrazia o verso modelli più avanzati dipenderà anche dal se e come eserciteremo il nostro diritto di voto.
In tal senso, l’astensionismo, anche come forma estrema di protesta, più che sortire un ‘ravvedimento’, rischia di favorire le destre nel prossimo Parlamento, e con esse la formazione di uno schieramento largo e più ampio della compagine del futuro governo che, se non arginato, potrebbe trovare i numeri per unire le forze di quanti – avendo fallito le riforme del 2006 e del 2016 – potrebbero convergere su un progetto analogo, se non peggiore. Un’operazione che, (ipotesi remota, ma non impossibile) qualora dovesse raccogliere il sostegno dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera potrebbe non dare spazio neppure alla raccolta delle firme per chiedere il referendum costituzionale e, con esso, il pronunciamento popolare.
Per questo è necessario sollecitare le forze politiche in campo affinché si pronuncino, tutte, sul loro programma costituzionale: sul se e come intendano intervenire sulla Costituzione; sul se e come intendano dare attuazione al suo nucleo duro di principi e diritti inderogabili; sul se e come intendano metterla “in sicurezza” da possibili incursioni di future maggioranze gonfiate. Perché non ci si debba più trovare in futuro a contrastare una riforma o, peggio, una riscrittura della Carta, di parte e neppure menzionata nei programmi elettorali e adeguatamente dibattuta nel Paese. Ai tanti italiani che si sono recati al voto il 4 dicembre, almeno questo, è dovuto.

Il Fatto 28.12.17
Gli eletti illegittimi non cambino la Carta
di Tomaso Montanari


Tra le pochissime stelle polari capaci di orientare i cittadini in occasione delle elezioni di marzo brilla, luminosa, quella della Costituzione promulgata settanta anni fa e ancora assai più giovane e vitale di qualunque forza politica oggi all’orizzonte. È questo il sentimento di quella cospicua parte del ‘popolo del 4 dicembre’ che oggi si chiede se andare a votare alle politiche, e – se sì – a chi dare il proprio voto.
Cittadini che, prima ancora, si domandano se nella prossima legislatura, breve o lunga che sia, dovranno trovarsi di nuovo a difendere la Costituzione.
Fantapolitica? All’ultima Leopolda Matteo Renzi ha parlato del referendum in questi termini: “Abbiamo perso quella sfida, ma la rifarei domani mattina perché era giusta”. E solo ieri l’astro nascente di Carlo Calenda ha sentenziato sulla necessità di affidare ad una Assemblea Costituente (!) il compito di fare ciò che Boschi e Renzi non sono riusciti a portare a compimento.
Un’iperbole, un modo di dire: o qualcosa di più? Sappiamo bene che l’idea di cambiare la Costituzione in senso ‘esecutivista’ e tendenzialmente autoritario è vecchia quanto la Costituzione stessa. E se nel prossimo Parlamento non riuscirà a formarsi una maggioranza, si creeranno le condizioni ideali per chi vorrà riprovare ad inalberare la bandiera equivoca della ‘governabilità’, additando nel parlamentarismo della Costituzione la causa di tutti i mali. Se aggiungiamo a questo dato di lunga durata l’intramontabile funzione delle riforme costituzionali come arma di distrazione di massa (utilissima a distogliere l’attenzione collettiva da povertà, disoccupazione, erosione dei diritti, corruzione politica…) non si può escludere che un nuovo Nazareno nasca proprio su un nuovo accordo per l’ennesimo stravolgimento della Carta. Cosa possono fare, oggi, quei cittadini del No, per provare a scongiurare una simile eventualità? E cosa possono fare le associazioni come Libertà e Giustizia, che non intendono dare indicazioni di voto, ma vogliono almeno provare a costruire una bussola che serva ad orientarsi?
Possiamo e dobbiamo chiedere ora a tutti i partiti un solenne ed esplicito impegno a non cambiare la Costituzione, nella prossima legislatura. Mi pare già di sentire i motteggi sulla intangibilità della ‘Costituzione più bella del mondo’ (un epiteto stucchevole, coniato da chi, all’ultimo momento, saltò sul carro del Sì). Ebbene, non è così: nessuno pensa che la Costituzione sia immutabile, e una grandissima parte di coloro che (da sinistra) hanno votato No, concorda, per esempio, sull’urgenza di togliere dall’articolo 81 l’aberrazione del pareggio di bilancio imposto dal governo Monti e votato dal Pd di Bersani (2012).
Ma anche una de-riforma urgente come questa (senza la quale non solo la prima parte, ma anche gli stessi principi fondamentali della Carta, diventano solo una enunciazione poetica) non potrà avvenire nella prossima legislatura: per la stessa ragione per cui si deve chiedere un impegno preventivo a non mettere le mani sul testo costituzionale. Quella ragione è che il prossimo Parlamento sarà eletto con una legge incostituzionale.
Naturalmente, dovrà essere la Corte Costituzionale a dire se il fatto che il Rosatellum renda i voti non liberi e non eguali basti o no a renderlo formalmente incostituzionale. Tuttavia, molti insigni costituzionalisti si sono già pronunciati in questo senso (tra loro Gustavo Zagrebelsky, su questo giornale): e l’immoralità e la truffaldinità di questa legge elettorale sono incontestabili. Il fatto che l’attuale Parlamento, illegittimo, abbia approvato una riforma costituzionale è stato definito, dallo stesso Zagrebelsky, un “furto di democrazia”. Ecco, noi chiediamo ai futuri parlamentari di impegnarsi a tenere giù le mani dalla democrazia.
Certo, se anche la Corte dichiarerà il Rosatellum incostituzionale, lo farà scrivendo che il principio di continuità dello Stato impone che il Parlamento illegittimamente eletto rimanga in carica: e “qui soltanto – scriveva Carlo Levi nell’Orologio, 1947-49 – poteva saltare fuori la bella teoria della continuità dello Stato. Un continuità che vuol dire immobilità, o peggio ritorno indietro … Che vuol poi dire semplicemente poter restare sempre seduti sulla medesima seggiola”. Ecco, ai partiti che chiedono il nostro voto noi chiediamo, a nostra volta, questo impegno: l’impegno formale a ricordarsi della propria illegittima elezione attraverso una legge elettorale indegna, e dunque l’impegno – che è poi davvero il minimo – a non votare, e anzi a combattere, qualsiasi tentativo di cambiare la Costituzione.
Ci aspettiamo una risposta chiara, esplicita, pubblica: in primo luogo dal Movimento 5 Stelle e da Liberi e uguali, che hanno manifestato vigorosamente contro il Rosatellum. Ma anche i silenzi saranno assai utili: per capire chi votare, a marzo. Anzi: chi non votare.

Il Fatto 28.12.17
Sogno o son desto: Calenda propone una Costituente
di Silvia Truzzi


Momenti complicati: mezza Italia è a letto con l’influenza, l’altra mezza sta cercando di riaversi dagli eccessi culinari. In molti però ieri mattina devono aver fatto un salto sulla sedia, chi pentendosi di aver esagerato con gli alcolici, chi pensando a effetti collaterali particolarmente violenti degli antipiretici: allucinazioni da tachipirina (o “tacaipirinha”, a seconda). Tanto diffuso sgomento, dopo due giorni di astinenza dai quotidiani, è stato causato da un’intervista del ministro Carlo Calenda al Corriere della Sera. Come è noto, in questo periodo assistiamo (non senza una certa pena), agli sgoccioli della legislatura dei voltagabbana; contemporaneamente ricorre il settantesimo della Costituzione. Da settimane sui giornali si celebra la povera vecchia signora, così saggia eppure vittima di attacchi seriali negli ultimi decenni. L’ultimo, un anno fa, con la riforma Renzi-Boschi che, su mandato di Giorgio Napolitano, stravolgeva un terzo della Carta. Tentativo fallito grazie alla provvidenziale presenza di spirito di circa 20 milioni di italiani che hanno inequivocabilmente detto no. Eppure il ministro dello Sviluppo economico non si capacita. Sentite con che toni: “Abbiamo perso la sfida della costruzione di un sistema più forte ed efficiente. Ritengo questo nodo fondamentale in uno scenario internazionale pieno di incertezze. La sicurezza nazionale viene messa a rischio da un sistema che rallenta l’implementazione delle decisioni (ma come parlano? ndr), favorisce il prosperare di particolarismi e ci trasforma nella Repubblica dei ricorsi al Tar e dei feudi locali. La prossima legislatura dovrà avere al centro questo tema, diventato tabù dopo il referendum. Forse la strada giusta, per aumentare il coinvolgimento dei cittadini, potrebbe essere quella di un’assemblea costituente”.
Oibò, qualcosa di grosso ci deve essere sfuggito. Sarà il Senato – che una volta portata a casa la pelle ha giustamente pensato di mettere mano al proprio Regolamento, ottenendo molti di quei risultati promessi dalla riforma – a mettere a rischio la sicurezza nazionale? O sarà forse il non abolito Cnel? Anche l’intervistatore è un po’ scosso dai toni ultimativi, (tipo report di Confindustria per intenderci). E domanda al ministro ragione della necessità di una Costituente. “È l’unico modo per aprire in maniera ordinata la terza Repubblica invece di subire la dissoluzione caotica della seconda. Serve un luogo per affrontare le pulsioni diverse emerse dal referendum costituzionale e da quelli di Lombardia e Veneto. Un luogo per porre fine alla kermesse delle leggi elettorali estemporanee, ridisegnare il rapporto tra esecutivo e legislativo, affrontare il tema di una democrazia efficace, che peraltro affiora in tutti i Paesi occidentali”. I costituenti si stanno certamente rivoltando nelle tombe a sentir parlare di “coinvolgimento dei cittadini” come fosse un’elargizione del sovrano, loro che hanno discusso per giorni su quale verbo accostare alla parola sovranità, decidendo per “appartenere” perché se una cosa ti appartiene nessuno te la può portare via. Molti passaggi qui riportati hanno un che di inquietante, perché, oltre a evocare inesistenti scenari catastrofici, suggeriscono l’idea che la sovranità del popolo non sia sufficiente. Che esista qualcosa di sovraordinato, che sa meglio di noi qual è il nostro bene. Cosa sono poi “le pulsioni emerse dal referendum costituzionale”, se non la chiara volontà del popolo di proteggere la Costituzione? Cioè il contrario di quel che Calenda propone? Il trucchetto di sfigurare la Carta per ridurre vieppiù il Parlamento a una larva, in favore dell’esecutivo, è una stregoneria che non incanta più. Eh già, ministro: è dura da spiegare agli amici brussellesi, ma è meglio che non si facciano illusioni.

La Stampa 28.12.17
Il ritorno
D’Alema inizia in Puglia il tour elettorale
“Legislatura costituente”
Prima tappa nel suo Salento, dove partì anche Prodi “Non credete a Renzi, il nostro vero leader è Grasso”
di Fabio Martini


C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico negli umori dell’opinione pubblica alla vigilia della campagna elettorale e se ne sta accorgendo Massimo D’Alema ogni volta che pronuncia questa battuta: «Vedete, io me ne sono andato per fare largo alle nuove leve, ma visti i risultati ho fatto male…». Puntualmente scatta l’applauso. Un battimani non solo politico: accanto ad un diffuso rancore, in giro sta cominciando ad affiorare anche una certa nostalgia per quelli di prima. Massimo D’Alema, tornando in campo, non immaginava di ritrovarsi in favore di vento. Per ora solo un venticello, ma vai a sapere. Ma è altrettanto vero che per D’Alema ci voleva un certo coraggio nel riproporsi una volta ancora, lui che nella vita ha fatto tutto: dal presidente del Consiglio al segretario del Pds, dal ministro degli Esteri al presidente della Bicamerale. E tornando, trent’anni dopo la prima volta, D’Alema ha deciso di ricominciare esattamente dove, nel 1987, tutto era cominciato: in Puglia. Eccolo a Tricase, nel tacco salentino: «Un tempo questo era un comune cattolico-democristiano: il Pci aveva due consiglieri comunali, la Dc 22…. Ricordo la prima volta che venni qui, negli anni Ottanta: mettemmo il palco fuori quella bellissima chiesa e quando i cittadini uscirono alla fine della messa, appena videro la falce e martello, scapparono. Sul sagrato della chiesa, l’unico che mi rimase ad ascoltare, era il parroco. Si chiamava don Tonino Bello. Stavolta mi ha invitato un gruppo cattolico e parlerò nel teatro parrocchiale».
Dalla bianchissima Tricase è partita la campagna elettorale del “candidato” D’Alema e proprio qui, ricorda lui, «iniziò il viaggio del pullman dell’Ulivo di Prodi» e dunque «si tratta di un luogo ad altissimo contenuto simbolico». Un mese prima della formazione delle liste, con grande anticipo su tutti gli altri, è partita la campagna dalemiana. Con un programma di appuntamenti che sembra tirato fuori dall’album dei ricordi: ore 11, Nardò, sala Cream&Caramel, incontro col mondo agricolo salentino; ore 14,30, Ruffano, Calzaturificio Mariapia, visita azienda e incontro con i lavoratori; ore 15, Patù, riunione con i volontari della campagna elettorale; ore 18,30 Teatro Tricase, apertura campagna elettorale; ore 21, Marina di San Gregorio, cena con gli elettori.
Un porta a porta all’antica, che prelude ad un ritrarsi del D’Alema “nazionale”? Un suo auto-confinamento nel Salento, per lasciare spazio a Pietro Grasso? «Non presterò il fianco ai giochetti di Renzi, che continua a ripetere che il “vero capo” è D’Alema. Questo gioco se lo era inventato Berlusconi nel 2001, quando il candidato del centrosinistra era Rutelli. Renzi ripete stancamente, ma anche in questo è un imitatore. No, il leader è Grasso e presto si affiancheranno altre personalità importanti». Nella campagna di D’Alema sembra ben celata anche un’ambizione al momento inconfessabile: quella di riuscire a conquistare un collegio sulla carta impossibile per un piccolo partito come il suo. E magari di risultare l’unico, tra i Liberi ed eguali, capace di questo exploit in tutta Italia? «È molto difficile fare queste valutazioni, soprattutto con questa legge elettorale, sgangherata ed inefficace, che si presenta come uninominale maggioritaria, anche se poi gran parte degli eletti saranno votati di “risulta”. Certo, potrebbe contare il fatto che quando sono stato deputato del Salento, ho fatto tante cose per questa terra; che nel collegio di Gallipoli il centrosinistra perdeva e io vincevo. Però l’ultima volta che si è votato con i collegi era il 2001 e ora qui la squadra da battere è il centrodestra, che può mettere in campo uno squadrone».
E sul dopo-elezioni? Lo scenario proposto da D’Alema non segue la corrente di chi dà per scontata l’ingovernabilità: «Nessuno sarà in grado di disporre di una maggioranza per governare. Per questo penso che si aprirà una legislatura inevitabilmente costituente e si dovrà mettere mano ad alcune regole istituzionali e ad una legge elettorale, con un metodo – spero – meno arrogante e fallimentare di quello sinora dispiegato da Renzi». Un contesto – ecco la novità – dentro il quale Massimo D’Alema pensa che la sua lista farà la sua partita: «Si era sbagliato chi ci aveva immaginato come un gruppetto di vecchi comunisti. Noi avremo molte carte da giocare, non saremo una forza marginale». Anche se i Cinque stelle, dopo le elezioni, proponessero un governo col Pd («purché Renzi sia out», fanno sapere) e con Liberi ed eguali? «Per noi le discriminanti programmatiche e dei valori sono fondamentali e quindi molto dipenderà dagli orientamenti che preverranno nei Cinque Stelle…», dice un D’Alema che non scarta scenari. E già pregusta il ritorno in “serie A”.

La Stampa 28.12.17
Tutti in corsa per i voti dei moderati
di Lucia Annunziata


Il convitato di pietra della prossima campagna elettorale non è un’idea, ma uno stato d’animo: il malcontento. Chi più riuscirà a rappresentarlo, o a sanarlo, sarà il vincitore, si dice. Come mai allora ovunque si guardi, a destra come a sinistra, tutte le forze politiche lanciano messaggi mirati soprattutto ad ottenere i consensi dell’area moderata?
In primissima fila ai blocchi di partenza, non a caso spicca la figura di Silvio Berlusconi, l’unico leader che ha attraversato (quasi) intatto il ventennio. E’ nella sua versione proporzionale, ma fa da perno all’unica coalizione che può raggiungere una maggioranza. Silvio e il partito che guida da sempre sono entrambi ridotti nelle forze: Silvio ha venti anni in più, ha varcato gli ottanta, e Forza Italia quasi venti punti in meno rispetto ai fasti del passato. Ma entrambi sono, in questa loro semplice resistenza all’usura, diventati la prova materiale (e psicologica) che non tutto cade, o si deteriora. Questo atto di sopravvivenza , in tempi che hanno consumato ideologie, idee, partiti e reputazioni, vale da solo un programma politico. Curiosamente, infatti, il Silvio che oggi torna a raccogliere consensi indossa abiti totalmente diversi da quelli del primo Silvio.
La discesa in campo nel 1994 fu un atto di sfida, la promessa/minaccia di un Prometeo che voleva riscrivere il panorama della politica italiana – e ci riuscì, rompendo il panorama tardopost-guerra-fredda che durava in Italia da troppo tempo. Il sistema dell’epoca non lo amò molto – come poi si è visto. Ma non è stato alla fine cancellato. E oggi torna come la nemesi di sé stesso: Silvio oggi è leader rassicurante (per la sua stessa durata). Promette tranquillità, continuità, non si è fatto attrarre da sovranismi, da guerre contro l’Europa, ma nemmeno dalla favola del populismo che accontenta tutti gli altri leader a destra. Il re dei moderati, insomma.
E qui incontriamo Matteo Salvini, erede ma solo per via formale, di quella Lega con cui Silvio ha costruito in passato le sue fortune. Passato il tempo in cui la sua attività politica sconfinava nel goliardismo, con provocazioni più atte ad attirare l’attenzione mediatica che a costruire un partito, Salvini guida una Lega che del passato ha perso persino il nome Nord con cui si identificava. La Lega è sempre forte lì dove è nata e governa, il Veneto e la Lombardia, ma a Salvini è sempre stata stretta questa regionalissima identità – le patrie locali un po’ lo fanno soffocare, si ha l’impressione. Da quando ha mosso i suoi primi passi, molti di questi passi hanno calcato suolo e suggestioni estere: la Russia di Putin, l’identitarismo dei francesi lepenisti, l’ironia separatista inglese di Farage, e l’America di Trump. Salvini ama i grandi temi, e ne ha trovato uno perfetto alla fine: il rifiuto dell’immigrazione come grande collettore di ogni suggestione identitaria, bianca, e indipendentista. Ovviamente a Salvini è rimasto il gusto di scuotere, e dunque di spararle grosse – ma alla fin fine in questa vigilia elettorale le parole più gravi le ha già messe nell’armadio – di rompere con l’Europa non si parla molto, e di campagne contro i migranti non si sente tanto. Del resto Salvini ha davanti una partita ben più grande: quella di declinare il malcontento in chiave tale da attirare anche una parte dei moderati di destra che sta oggi con Berlusconi. E questo sì che sarebbe un colpo: come va ripetendo da un po’, «se batto Silvio anche di un solo voto faccio il premier».
Il Principe dello «scontento» è per ora, comunque, il più giovane dei politici che calcherà la scena elettorale. Luigi Di Maio è il candidato premier del movimento che ha per primo intercettato e aiutato a coagulare lo scontento in forza politica. Sono stati i pentastellati il maglio che ha spaccato la struttura (già esanime) della Seconda Repubblica. Il loro programma appare dunque, fin da questo inizio, quello destinato al maggior successo. Le cifre dei poll gli danno numeri da primo partito. Alla lettura dei quali sorge tuttavia una domanda: ma perché un movimento dedito ad aprire il sistema «come una scatoletta da tonno», presenta come proprio candidato a Palazzo Chigi Luigi Di Maio, giovane con abiti ed abitudini, nonché idee molto istituzionali, o magari meglio ancora dire moderate?
Il punto di caduta per i pentastellati nella campagna elettorale è dunque, un po’ come per la Lega, il giusto equilibrio che saprà trovare fra scontento e moderazione: dopotutto, una cosa è aizzare con i «vaffa», altro è governare.
L’area moderata, chiamata riformista e moderna, è dichiaratamente anche il bersaglio di Matteo Renzi in questa che sarà la sua prima campagna elettorale nazionale: come ricorderete l’ex premier è riuscito ad arrivare a Palazzo Chigi prima che in Parlamento. L’idea con cui si è presentato in politica è quintessenzialmente moderata – rompere con il passato ideologico della sinistra tradizionale. A questa idea ha sacrificato molto. Ha subito la sconfitta del referendum, ha perso Palazzo Chigi ed ha rotto (o ha subito la rottura, come preferite) un partito forte e di lunga tradizione quale il Pd. Ora che c’è un nuovo Pd renziano, è l’ora per Matteo Renzi di mettere alla prova davvero la sua capacità di attrazione nonché la sua capacità di formare il destino della nazione. Sullo stesso banco di prova anche per lui: l’area moderata. Direttamente, prendendone i voti. O indirettamente, magari, come tutto lascia pensare dalle scelte del Pd, in una grande coalizione fra le forze di Berlusconi e quelle di Renzi. Che sarebbe poi la creazione di un grande fronte moderato al centro.
Le forze radicali sono invece quasi tutte raccolte intorno a nuclei minori. Liberi e Uguali, movimento dei fuoriusciti dal Pd non pare goda al momento di grandi favori elettorali. In ogni caso, la nuova formazione ha scelto come guida un ex magistrato, una figura superistituzionale come l’ex presidente del Senato Grasso. Cos’è questa scelta se non una forma di rassicurazione contro gli strappi per chi vota a sinistra?
Moderati ovunque, insomma. Sotto la coltre pesante di scontento, appare la richiesta di non portare il Paese a sbattere.
Ma se questa è la domanda segreta delle urne, va a finire che vero vantaggio nella campagna elettorale lo godrà il governo Gentiloni che ha chiuso le Camere ma non si è dimesso, e che, secondo molti auspici, potrebbe essere pronto a continuare anche dopo il voto. Dopotutto, è il governo che finora, poll alla mano, pare abbia più rassicurato il Paese.

il manifesto 28.12.17
Ius soli, ultimo scontro nel Pd. Appello della sinistra al Colle
Diritti. "Servono almeno altre due settimane", Cuperlo e Manconi si rivolgono al capo dello stato. Ma i renziani: non cambia la politica, non facciamolo bocciare per riaffrontarlo nella prossima legislatura
di Daniela Preziosi


La vicenda dello ius soli è politicamente chiusa da mesi ma l’avvicinarsi dello scioglimento delle Camere (fra stasera e domani Mattarella, sentiti i presidenti di Camera e Senato, darà la comunicazione ufficiale) ha fatto impennare, per l’ultima volta, lo scontro fra senatori. Luigi Manconi, icona di battaglie civili, scrive al capo dello Stato per chiedergli di consentire di tentare un voto. «Il tempo c’è e va ricordato che, il 23 dicembre, mancato il numero legale, il Senato ha deciso di riconvocarsi per il 9 gennaio, dopo una pausa di ben 16 giorni. Basterebbe prolungare la legislatura di un paio di settimane e prevedere il voto – che so? – per il 18 marzo: e si avrebbe così la possibilità e l’agio di discutere una legge tanto essenziale e lungimirante».
Gianni Cuperlo, ex capo della minoranza Pd ora battitore solitario (e forse per questo ricandidato da Renzi senza storie) aggiunge un po’ di poesia pop: sullo ius soli «non può e non deve finire così». «Quegli scranni vuoti nell’ultimo giorno utile – dice – , la fuga dei senatori 5 Stelle, quel brindisi leghista, il dispiacere profondo per quelle assenze del Pd (29, ndr), sono un’immagine da cancellare». Mdp attacca invece il premier: «Dopo voucher e legge elettorale, per la terza volta Gentiloni si appresta a venir meno alla parola data» attacca Alfredo D’Attorre. C’è chi tenta la distrazione di massa: il quotidiano «la Repubblica» sferra un attacco micidiale (nelle intenzioni, almeno) al presidente Grasso e chiede di ricalendarizzare lo ius soli al Senato. L’inquilino di Palazzo Madama, ieri tutto il giorno occupato a celebrare i 70 anni dalla firma della Costituzione, resta in silenzio «Gli assenti il 23 dicembre non sono frutto di una casualità ma di una scelta politica», spiega però chi lavora a stretto contatto con lui. Il presidente dunque nel rispetto del suo ruolo super partes non può che prendere atto di quello che è successo. Se avesse fatto diversamente, peraltro, si sarebbe aperto il cielo contro la sua conduzione d’aula.
Il presidente Mattarella legge tutto. Ma non risponde . Legge anche l’appello straziante dei ragazzi di «Italiani senza cittadinanza» e quello dei Radicali italiani a loro volta promotori della legge di iniziativa popolare «Ero straniero» per la cancellazione della Bossi-Fini, altro fallimento della legislatura. Il ragionamento di Manconi non farebbe un plissé dal punto di vista logico. Ma finge di non considerare quello che appare invece un macigno politico al Colle: il rischio di esporre Gentiloni a una sconfitta. Che di fatto equivarrebbe a una sfiducia. Mattarella è convinto che l’attuale premier, se preservato da rovesci finali – ma anche dai confronti battenti della campagna elettorale – potrebbe essere l’uomo chiave della stabilità del Paese nei primi passi della prossima legislatura, quando con ogni probabilità ci vorrà del tempo per comporre una nuova maggioranza.
Ma c’è una cosa in più che al Colle non può sfuggire. A non essere convinto dello ius soli è proprio il Pd. E il suo leader Renzi. Che dopo averne promesso l’approvazione nel programma del suo governo (e averlo mantenuto in quello del successore) ai tempi in cui la legge godeva dei favori popolari, si è poi reso conto che un provvedimento pro-stranieri in campagna elettorale si sarebbe trasformato in un assist alle destre. La sostanziale contrarietà dei 5 stelle ha dato lo stop finale. «La proposta così com’è non va bene. Ci sono errori tecnici. Quali? Ora non ho tempo di spiegarli», ha ammesso il senatore Maurizio Buccarella al «Corriere della sera»: un’autodenuncia involontaria.
Per questo ieri mentre nel Pd le lacrime di coccodrillo inondavano le agenzie, i renziani di polso hanno raffreddato gli spiriti flebili del proprio partito.
Come Rosa Maria De Giorgi: «Non basta desiderare una iniziativa sacrosanta perché essa si traduca in legge, perché in una democrazia servono condizioni politiche e parlamentari. Ciò che è successo sabato scorso, con la mancanza del numero legale, è un episodio fine a se stesso. La verità, ripetuta in ogni modo possibile, è che nonostante appelli e mobilitazioni in questo parlamento e in Senato in particolare i numeri per approvare la legge non ci sono. E peggio che non votare lo ius soli sarebbe farlo bocciare in aula, creando anche un precedente pericoloso per riproporre la legge nella prossima legislatura e creando un ulteriore sfregio alle centinaia di migliaia di ragazzi, italiani di fatto, che attendono con ansia e speranza di veder riconosciuta loro la cittadinanza. Gli unici ad essere stati contenti, in caso di arrivo del provvedimento in aula, sarebbero stati M5S e la Lega di Calderoli, che vogliono solo la bocciatura della legge». Ergo: votate il Pd per fare lo ius soli, ma al prossimo giro. Dove le condizioni «politiche e parlamentari» saranno in realtà assai più sfavorevoli di questa legislatura. Che pure non ha avuto i numeri per approvarlo.

Repubblica 28.14.17
Missioni militari 2018 meno uomini schierati ma sui fronti più caldi
L’Italia si troverà in prima linea nelle coalizioni Nato, Onu e Ue Dal Niger ad Afghanistan e Libano: rischio jihadisti e nodo migranti
di Gianluca Di Feo


ROMA Si prepara un anno difficile per i militari in missione all’estero. Tra la nuova spedizione in Niger e il mantenimento delle operazioni in Libano, Afghanistan e Libia, ci ritroveremo in prima linea nelle zone più calde del pianeta sotto tre diverse coalizioni — Nato, Onu ed Ue — spesso, come accade nel Mediterraneo, sovrapposte tra loro. Oggi il Consiglio dei ministri discuterà il piano elaborato dai vertici della Difesa che prevede la riduzione delle truppe in alcune aree, come il dimezzamento del contingente in Iraq dopo la sconfitta dell’Isis e il prossimo ritiro dei missili anti-aerei dislocati in Turchia per conto dell’Alleanza Atlantica. Alla fine del 2018, quindi, ci saranno meno soldati in azione ma le nostre forze armate si troveranno impegnate in situazioni ancora più rischiose.
NIGER. Un primo nucleo di parà è già nella capitale Niamey per preparare lo schieramento della task force, richiesta dal governo nigerino nel quadro dell’accordo tra 5 nazioni del Sahel e dell’intesa europea disegnata da Roma con Parigi e Berlino. Una parte dei 470 militari della Folgore si occuperà di formare i battaglioni locali nella capitale; il resto prenderà posizione dalla fine della primavera nel caposaldo di Madama, da dove contribuirà a pattugliare le rotte dei trafficanti di uomini e dei jihadisti diretti verso la Libia. Le nostre truppe saranno autonome rispetto al dispositivo francese presente da anni nell’area e probabilmente verranno affiancate da unità tedesche e spagnole. Due le minacce. La natura del Niger, con distanze sterminate e deserti attraversati solo da piste carovaniere, dove la sabbia logora qualunque mezzo terrestre ed aereo. Inoltre in tutto il Paese si registra un aumento delle incursioni dei gruppi fondamentalisti, attivi soprattutto ai confini con il Mali e con la Nigeria.
AFGHANISTAN. Come ha annunciato il ministro Roberta Pinotti a
Repubblica, l’Italia chiederà di ridurre le dimensioni del nostro contingente ma non la sostanza della missione. Circa 250 persone impiegate in ruoli di supporto dovrebbero venire rimpiazzati da altri alleati della Nato. Rimarrà però invariato il numero dei militari — poco meno di 700, attualmente fanti della Sassari — che si occupano di addestrare i reparti afgani, coordinandone anche le attività sul campo contro i Taliban. Nella regione affidata alla supervisione italiana c’è il distretto di Farah, a ridosso del confine iraniano, dove l’offensiva fondamentalista è particolarmente virulenta. A novembre più di cento alpini della Taurinense sono stati trasferiti nei fortini intorno a Shindand minacciati dall’assalto delle milizie islamiche: si sono schierati “spalla a spalla” con i soldati locali per riorganizzarli e permettergli di riconquistare il territorio perso. L’ultimo contrattacco condotto dai battaglioni afgani sotto “regia italiana” si è concluso alla vigilia di Natale.
LIBANO. Dopo un decennio di calma, la missione dei caschi blu che ha permesso la fine dell’ostilità tra Libano e Israele torna a essere sotto pressione. Le brigate di Hezbollah stanno cominciando a ritirarsi vittoriose dalla Siria, più agguerrite e meglio equipaggiate di prima. La tensione con Israele sta crescendo di giorno e in giorno. E tra i villaggi sciiti e il territorio israeliano c’è solo la Blu Line presidiata da oltre mille italiani sotto bandiera Onu. Per questo da ottobre il contingente è composto dalla Brigata Folgore, con i parà del Nembo e i blindati del Savoia Cavalleria, la più operativa delle nostre unità, che dovrà mantenere il cessate il fuoco sul confine: un compito in cui peserà soprattutto il rispetto di tutte le comunità della zona conquistato in questo decennio dagli italiani.
IRAQ. La disfatta del Califfato permette di ridefinire lo schieramento italiano, arrivato a sfiorare le 1500 persone. Anzitutto alla diga di Mosul, dove il cantiere del consolidamento è stato protetto da 500 soldati: oggi non c’è più il pericolo di attacchi in grande stile dell’Isis e quindi ne rimarranno circa 200. Nel corso del 2018 rientrerà in patria lo squadrone di otto elicotteri e 130 uomini che da Erbil è pronto a intervenire per recuperare feriti e personale isolato. Programmata anche una graduale diminuzione degli aerei da ricognizione schierati in Kuwait. Resteranno invece attive le unità di carabinieri e forze speciali che addestrano i nuclei antiterrorismo e la polizia federale di Bagdad. Sarà mantenuta pure una consistente aliquota di istruttori in Kurdistan, meno però dei 350 attuali. Il problema anche in questo caso è la logistica, perché i reparti italiani sono sparsi in diverse località.
LIBIA. Oggi ci sono due distaccamenti. Uno nell’aeroporto di Misurata gestisce l’ospedale da campo allestito durante i combattimenti contro l’Isis a Sirte, conclusi da oltre un anno: impegna quasi 300 persone con un centinaia di veicoli. L’altro a Tripoli si occupa di formare la guardia costiera libica e contribuisce alla manutenzione delle motovedette. Per entrambi è allo studio una riorganizzazione, che però dipenderà dal quadro politico e militare del paese, sempre molto incerto. A largo delle coste libiche invece sono attive tre missioni navali: quella italiana “Mare sicuro”, quella europea “Sophia” per il contrasto ai trafficanti di migranti, quella Nato “ Sea Guardian” per la prevenzione dei movimenti di terroristi e del contrabbando di armi. Il contributo a queste operazioni non cambierà, nella convinzione che la nostra sicurezza dipenda proprio dal controllo del Mediterraneo.

La Stampa 28.14.17
Scuola, sanità ed enti locali
Contratto atteso da 2,7 milioni
Corsa contro il tempo per estendere a questi lavoratori gli aumenti concessi agli statali Il governo spera di farcela entro oggi. Per gli arretrati “una tantum” di 570 euro a testa
di Roberto Giovannini


I 247mila «statali» (dipendenti dei ministeri, oltre che di Inps, Inail e agenzie fiscali) hanno il loro contratto. Ma in realtà il grosso dei dipendenti pubblici, dagli enti locali, alla scuola, alla sanità, ovvero oltre 2,7 milioni di lavoratori, ancora attendono la firma dei rinnovi contrattuali. Come è sempre successo in passato in realtà le regole fissate per gli «statali» in senso stretto poi vengono copiate per gli altri rinnovi. Serviranno tuttavia una serie di passaggi per completare l’intera procedura, che il governo e i partiti di maggioranza hanno intenzione di accelerare per evidenti ragioni elettorali, per conquistare consensi a suon di aumenti salariali ed arretrati (stimati in una «una tantum» di 570 euro).
Il primo di questi passaggi è la consegna da parte dell’Aran - l’agenzia contrattuale del governo per il settore pubblico - della relazione tecnica del contratto che verrà trasmessa, si presume entro la giornata di oggi, al governo. Il testo sarà poi trasmesso alla Corte dei conti che dovrà certificare la congruità delle cifre con gli stanziamenti in legge di bilancio e agli organi di controllo, per poi tornare all’Aran per la firma definitiva di governo e sindacati. Secondo le previsioni, in tutto serviranno un’altra decina di giorni; poi toccherà agli altri comparti, ovvero scuola, sanità e personale degli enti locali. Non si sa in quale ordine.
Non sarà una passeggiata, però. Sicuramente il settore più caldo e problematico sarà quello della scuola, che per la prima volta aggrega nello stesso contratto anche università e personale della ricerca. Si tratta di un comparto molto «popoloso»; e c’è tanta attesa perché il rinnovo arriva dopo ben otto anni di blocco contrattuale. E in più in particolare la Cgil ha intenzione di approfittare dell’occasione per modificare la riforma della scuola varata da Matteo Renzi. «Vorremmo rimettere mano a tante cose della “Buona scuola” che non ci sono piaciute», avverte il segretario confederale Cgil Franco Martini.
A breve saranno pronte le piattaforme con le richieste dei sindacati - che ovviamente dovranno stare all’interno del quadro economico stabilito per gli statali - e intanto già oggi i sindacati sono convocati all’Aran per i rinnovi delle Rsu, in particolare per definire il calendario delle elezioni a tre anni dalle ultime.
Superata questa fase emergenziale, nel giro di un mese poi entrerà in funzione la «Commissione paritetica sui sistemi di classificazione professionale». Questo organismo, introdotto dal contratto, entro il mese di maggio avrà il compito non facile di definire un profondo restyling dei «mestieri» della pubblica amministrazione. Non un semplice lavoro tecnico di riclassificazione del personale, ma il tentativo, spiegano al governo, di far fare un salto di qualità culturale e mappare i mestieri venuti fuori con l’innovazione tecnologica, ma anche con le moderne filosofie dell’organizzazione. Spunteranno quindi «nuove figure», ad esempio in campo informatico; si definiranno «figure polivalenti», in grado di ricoprire più funzioni, trasversali a più uffici. E si dovranno prevedere anche opportunità di progressione economica, con una revisione degli schemi tradizionali di remunerazione. Insomma gli effetti si faranno sentire su carriera e busta paga.

La Stampa 28.14.17
“Volti nuovi e impopolarità di Trump. Così parte la riscossa dei democratici”
L’ex ambasciatore Thorne: finito un ciclo storico, il presidente è una zavorra per i repubblicani
Nel voto di Midterm di novembre i liberal possono riconquistare un ramo del Congresso
di David Thorne


Negli ultimi anni la politica americana ha visto una perfetta oscillazione tra i due principali partiti: otto anni di amministrazione Clinton seguiti dagli otto di George W. Bush e quindi dagli otto dell’amministrazione Obama. Ma, mentre le presidenze vanno e vengono, la direzione della politica americana, fin dal 1974, è stata punteggiata da «ondate» elettorali – grandi capovolgimenti con cui l’elettorato esprime con forza, spesso con rabbia – il proprio scontento per lanciare un messaggio a chi governa.
Ho vissuto la prima di queste «ondate», nel 1974 - da consulente politico. Quell’anno ero in prima linea nella campagna del Congresso e con i miei soci mi occupavo di un’elezione speciale nel Michigan – in un distretto marcatamente repubblicano – che finì a sorpresa con un’inaspettata vittoria dei democratici. Era il preavviso di un cambiamento di rotta - e nel novembre del 1974 i democratici presero 49 seggi parlamentari ai repubblicani – un netto ripudio di Nixon e del suo partito nell’era post-Watergate – aprendo le porte a una classe storica di futuri leader democratici. Nel corso degli anni abbiamo visto altre inversioni di rotta di questo genere: nel 1980 per il Gop (Grand Old Party, il Partito repubblicano), nel 1982 e nel 1986 per i democratici, nel 1994 per i repubblicani con la rivoluzione di Gingrich, poi nel 2006 e nel 2008 i democratici hanno conquistato una maggioranza congressuale di proporzioni quasi storiche e nel 2010 c’è stata la rivoluzione del Tea Party.
Ricorsi storici
La storia è destinata a ripetersi nel 2018? Mi sa proprio di sì. Negli ultimi sessanta giorni, i democratici hanno ottenuto una serie impressionante di vittorie contro i candidati sostenuti da Trump. Un democratico ha vinto il governatorato della Virginia contro il repubblicano Ed Gillespie appoggiato da Trump innescando così un drastico cambiamento nella Camera dei Delegati. Il democratico Philip Murphy (il nostro ambasciatore in Germania mentre ero a Roma) ha vinto in New Jersey dopo otto anni di Chris Christie. Ma queste vittorie non sono nulla rispetto all’euforia che ha salutato il trionfo di Doug Jones in Alabama nell’elezione speciale per un seggio al senato contro il candidato di Trump, Roy Moore, accusato di molestie sessuali. L’Alabama non mandava un democratico al Senato dal 1990.
Cosa significa tutto questo? Si sta preparando uno tsunami democratico, o questa ondata si spegnerà e morirà prima di colpire le coste politiche nel novembre 2018? Oltre ai recenti risultati elettorali, ci sono una serie di segnali che indicano una significativa riscossa democratica.
Durante il mio incarico a Roma per conto del presidente Obama nel 2009, ricordo molti segnali d’allarme lanciati dai miei amici al Comitato nazionale democratico. I repubblicani non solo stavano raccogliendo molti più soldi, ma c’erano molti altri candidati repubblicani a incarichi locali e nazionali pronti a scendere in campo. Obamacare era diventato una parolaccia, il Tea Party stava ribaltando la politica, e persino le elezioni speciali del Massachusetts, indette per il seggio lasciato vacante dal defunto Ted Kennedy, erano state vinte da un repubblicano. Fu questo il primo segnale dell’ascesa dei conservatori del «Tea Party» alle elezioni del 2010 che destabilizzarono l’agenda di Obama per il resto della sua presidenza.
I democratici non sono riusciti a contrastare la rimonta conservatrice in modo efficace perché erano divisi, mentre i repubblicani facevano sempre più presa sull’elettorato.
Ma ora, a fine 2017, in un momento analogo del ciclo elettorale, dopo un anno di costante opera di disgregazione da parte del presidente, è in corso la dinamica opposta. I democratici hanno vinto le elezioni speciali in posti chiave con un margine considerevole e, cosa forse ancora più minacciosa per i repubblicani, stanno schierando molti nuovi candidati. Nel 2009, ad esempio, in questo momento i repubblicani avevano 56 nuovi candidati contro i 28 dei democratici: un rapporto di due a uno. Oggi i democratici hanno oltre 291 nuovi candidati contro i 71 dei repubblicani, un rapporto di quattro a uno, e il loro numero sta ancora crescendo. I miei amici democratici ricordano come nel 2009 assistettero impotenti all’ascesa degli avversari.
Il vantaggio
Le elezioni di metà mandato si terranno tra 10 mesi e nei sondaggi i democratici hanno tra i 10 e i 18 punti di vantaggio: è un livello di guardia. Per i repubblicani, Trump è ormai una pietra al collo, che li spinge a fondo. Basti considerare che 11 mesi prima che il loro partito fosse battuto alle elezioni di Midterm del 1994 e del 2010, Clinton e Obama avevano il 54% di consensi, Trump è al minimo storico con il 35%.
In base alla mia esperienza politica è difficile rovesciare una tendenza di questo genere. Certo, la politica si gioca sulle emozioni, ma anche sui numeri e ora i numeri sembrano decisamente a favore dei democratici.
L’intensità è un fattore sempre difficile da valutare in termini elettorali in un anno intermedio. I democratici sono galvanizzati. Ma la mappa delle elezioni al Senato favorisce il Partito repubblicano, anche dopo l’Alabama. I democratici devono difendere i seggi negli Stati «rossi» in cui Trump rimane relativamente forte.
La base populista
La base politica populista e conservatrice di Trump è rimasta salda e tutte le sue decisioni politiche e diplomatiche sembrano dirette solo a volersene conservare il favore. Questa lealtà è un dato che non dovrebbe essere sottovalutato. Il jolly, in questo caso, è la nuova legge fiscale. Trump otterrà credito per la vittoria, con un beneficio economico a breve termine, o la riforma diventerà un nuovo Obamacare - un impopolare fardello? Forse, come dicono i repubblicani, l’alta marea fa galleggiare tutte le barche e tutti ne beneficeranno. Questo risultato contribuirebbe inevitabilmente a salvare in parte i repubblicani nelle elezioni di Medio termine.
Ma nel 2010 la ripresa economica ha aiutato ben poco i democratici. Inoltre, la nuova legge fiscale fa poco per la classe media e per i poveri, elettori di Trump in posti come il Michigan, il Wisconsin e l’Ohio. Se la delusione in campo economico inizia a infiltrarsi in quella base - che ha già mostrato segni di sfilacciamento nei sobborghi bianchi - questo insieme al crescente vantaggio numerico dei democratici, mi porta a prevedere per il prossimo novembre un significativo riallineamento politico in America.
Potrebbe davvero arrivare un’onda - un’onda blu per i democratici, che potrebbero riconquistare un ramo del Congresso e rovinare per sempre il corso della presidenza Trump.

La Stampa 28.12.17
Usa, la violenza degli Antifa per combattere i suprematisti
I movimenti di sinistra usano i metodi dell’ultradestra per fermare l’odio
di Paolo Mastrolilli


Il movimento del nazionalismo bianco, rilanciato con forza sulla scena politica americana in corrispondenza con la campagna presidenziale di Donald Trump, ha generato la sua nemesi. Un movimento Antifa, cioè antifascista, pronto ad usare gli stessi metodi violenti degli avversari della destra alternativa, Alt-right, contro cui sta conducendo la sua «resistenza». Il risultato, qualunque sia l’opinione che ognuno ha su queste due forze opposte e drammaticamente uguali, è che l’America rischia di scivolare sempre di più verso una spaccatura che sconfina nel tribalismo, e davvero minaccia di esporla alla decadenza.
Durante le presidenziali la destra estrema, razzista e suprematista, non aveva fatto mistero di sostenere Trump. E lui aveva fatto il possibile per non perdere i suoi voti, ad esempio quando aveva detto di non poter prendere le distanze dal neonazi David Duke perché non conosceva bene le sue posizioni, salvo poi ravvedersi. La Alt-right, corteggiata dal consigliere Bannon, si era sentita incoraggiata dalla sua vittoria. E a Charlottesville aveva ucciso un avversario, durante un fine settimana di proteste in cui aveva acceso le torce dei linciaggi del Ku Klux Klan, e contestando la rimozione della statua del generale sudista Lee aveva gridato che «gli ebrei non ci rimuoveranno».
Sull’altro fronte, questa offensiva ha generato un movimento opposto e uguale, che M. Scott Mahaskey ha documentato con un fotoreportage pubblicato dal sito Politico. Mahaskey è andato alle proteste degli Antifa, dimostrando che ormai usano gli stessi metodi dei nazionalisti bianchi: «Vogliono reprimere con la forza ogni forma di promozione dell’odio», gli ha detto il professore di Dartmouth Mark ray che li studia. E pazienza per il Primo emendamento della Costituzione, che in teoria garantirebbe anche ai neonazi il diritto di esprimersi. Scott lo ha provato scattando foto a Berkeley, mentre gli Antifa colpivano un sostenitore di Trump con un cartello dove c’era scritto «No Hate», no all’odio. Solo l’intervento del giornalista radio Al Letson, che si era gettato sul corpo della vittima per fargli scudo, aveva evitato il peggio. L’Fbi, secondo Mahaskey, è molto preoccupata da questa dinamica, e si aspetta un’esplosione di scontri violenti durante il 2018, perché i nazionalisti bianchi hanno in programma una serie di manifestazioni, e gli Antifa hanno promesso di andare a tutti questi eventi per contrastarli.
Ci sarebbe da discutere se neonazi e antifascisti possono essere messi sullo stesso piano morale, ma il problema è più grande della loro rivalità, e riguarda la spaccatura culturale che ormai affligge l’America da trent’anni. L’inizio di questa dinamica si può far risalire all’elezione di Bill Clinton nel 1992, che fu rifiutata dai repubblicani. In passato c’erano stati scontri politici duri, ma una volta eletto un presidente si accettava, e si faceva almeno il tentativo di trovare punti di contatto bipartisan, tipo Reagan con lo speaker democratico della Camera O’Neill. Con Clinton questo è cambiato, forse perché dietro c’era una spaccatura culturale su temi considerati non negoziabili, come quelli della vita o della fede religiosa. La situazione era peggiorata con Bush, mentre dopo l’elezione di Obama l’attuale leader repubblicano al Senato, McConnell, aveva detto che la sua missione era farlo fallire a ogni costo.
Trump non ha nemmeno provato a diventare il presidente di tutti gli americani, perché non pensa di poter attirare voti fuori dalla sua base. Questa strategia ha funzionato bene nelle elezioni del 2016, e lui si prepara a ripeterla nel 2020. È un leader «consequential», cioè sta cambiando il Paese, ma solo realizzando i desideri dei propri sostenitori. Se i tagli alle tasse o la crescita economica gli consentiranno di allargare il numero dei suoi elettori, bene; sennò punterà a rivincere con la stessa coalizione del 2016. Il problema è che governando in maniera così partisan accentua la spaccatura tribale dell’America, che sta diventando la vera emergenza e l’ombra sul suo futuro.

La Stampa 28.12.17
Ritornare da Auschwitz
La tragedia degli ebrei italiani
Elisa Guida racconta le peregrinazioni dei superstiti che rientrarono dai campi, tra solidarietà e indifferenza
di Mario Toscano


Al termine della Seconda guerra mondiale, circa un milione di cittadini italiani attendeva con ansia di rientrare in patria. Erano prigionieri di guerra catturati dagli eserciti alleati tra il 1940 e il 1943, militari fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre, lavoratori coatti, deportati politici e razziali. Un Paese devastato dalla guerra e dalla sconfitta e una società alle prese con la propria ricostruzione politica, materiale e morale, dovevano impegnarsi nel favorire il ritorno e il reinserimento di una massa di persone provata da esperienze drammatiche e da terribili sofferenze.
Alla scarsezza delle risorse disponibili, si aggiungevano le conseguenze della condizione di Paese sconfitto: l’Italia, infatti, non poteva organizzare direttamente missioni di soccorso, in particolare per i deportati, ma limitarsi all’assistenza dei reduci nel momento in cui rientravano nei confini nazionali. In questo drammatico contesto, particolarmente difficile era la situazione dei pochi ebrei sopravvissuti alla deportazione (meno di 700 su oltre 8.000 deportati). Perseguitati e deportati in quanto ebrei, non tornavano né in quanto italiani - formalmente non rientravano nella categoria dei reduci - né in quanto ebrei - non essendo prevista per essi nessuna iniziativa specifica. Le delicate e complesse problematiche di questa vicenda sono affrontate con rigore e sensibilità in un volume di Elisa Guida (La strada di casa. Il ritorno in Italia dei sopravvissuti alla Shoah, Viella, 2017), che integra i dati forniti dalla documentazione archivistica con le testimonianze individuali, illuminando gli aspetti istituzionali della questione con le suggestioni, le immagini e gli stimoli offerti dalle esperienze degli scampati allo sterminio.
Ampia attenzione è dedicata alla lunga marcia verso casa dei sopravvissuti al lager di Auschwitz, segnata da storie drammatiche, tra cui spicca la dettagliata ricostruzione di quella del sedicenne Piero Terracina, che offre una vivace testimonianza sul ruolo potenziale delle istituzioni e dei loro rappresentanti nel contribuire a lenire le ferite inferte dalla deportazione. Ricoverato nel sanatorio di Soci, sul mar Nero, appresa casualmente la notizia della presenza di un rappresentante diplomatico italiano a Mosca, il giovane avviò una corrispondenza - rinvenuta nell’archivio del ministero degli Esteri - alla quale l’ambasciatore Pietro Quaroni rispose con parole di conforto ed esortazione, utili a mitigare il clima incerto e difficile che dominava l’attesa del ritorno.
Attraverso lo studio delle vicende individuali, Guida illustra con cura le condizioni (la salute, l’età, la solidarietà) che potevano favorire il difficile ritorno a casa, e soprattutto indaga sul suo significato di viaggio interiore, di parentesi tra due fasi drammatiche dell’esistenza, nel richiamo frequente al racconto paradigmatico di Primo Levi.
Una tregua tra la guerra da cui si usciva e quella che si profilava per continuare a vivere, in cui esplodeva il contrasto tra il mondo esterno e il mondo interiore dei sopravvissuti; affioravano il timore e le angosce di fronte alla prospettiva di rientrare in case vuote di persone e di affetti e il divario incolmabile tra il sogno e la realtà del rimpatrio, esplicitato da tanti episodi che testimoniavano il disinteresse diffuso per i tormenti patiti, come documenta la delusione di un sopravvissuto al momento del rientro in patria: «che c’eravamo messi in testa?». Una domanda drammatica che non può essere lenita, alla quale questo volume fornisce un inquadramento storicamente adeguato e umanamente partecipe.
Il famigerato cancello del lager di Auschwitz, oggi nel sud della Polonia, con la scritta «Arbeit Macht Frei» (Il lavoro rende liberi)

La Stampa 28.12.17
L’anno del traffico tra stelle e pianeti
Al via le nuove missioni su Marte e Mercurio La Cina vuole la Luna e il Giappone punta agli asteroidi
di Antonio Lo Campo


Il 2018 sarà un grande anno per l’esplorazione del cosmo. Soprattutto per l’esplorazione del nostro Sistema Solare. Si torna su Marte con una sonda Nasa e Cina e India sono pronti per la Luna, mentre l’Europa punta a Mercurio. «Scusate il ritardo» è lo slogan della missione «InSight».
Doveva decollare qualche giorno prima di «ExoMars», nel marzo 2016, ma vari problemi tecnici ne hanno fatto slittare il lancio al prossimo 5 maggio, in cima ad un razzo Atlas V. Dovrà raggiungere Marte in otto mesi e tentare una discesa sulla Elysium Planitia. In questa regione la sonda americana studierà ciò che avviene al di sotto della superficie, dalle caratteristiche geologiche fino all’attività sismica.
La riscossa dell’Asia. Il prossimo marzo toccherà all’agenzia spaziale indiana tentare un secondo lancio verso la Luna. La sonda «Chandrayaan 2» è più grande e complessa della precedente, la numero 1: consiste in una parte orbitante e in un modulo di atterraggio che dovrà «allunare» assieme a un rover di realizzazione russa.
Sulla Luna, però, puntano a tornare anche i cinesi. Rimandata al 2019 la missione di recupero e rientro a Terra dei campioni selenici, per l’autunno 2018 è in programma il lancio di «Chang’e 4»: il robot sarà il primo a far discendere sulla faccia nascosta del satellite un modulo di atterraggio e un rover, che la esplorerà per 90 giorni. È questa la seconda missione lunare consecutiva dell’agenzia spaziale cinese, dopo che «Yutu» (portato da «Chang’e 3») compì un’esplorazione nel 2013.
Un po’ prima, in giugno, è previsto invece l’arrivo sull’asteroide Ryugu della sonda giapponese «Hayabusa 2»: deve recuperare un campione roccioso grazie a un paio di «lander», mentre la cugina della Nasa «Osiris-Rex» raggiungerà un altro asteroide. Si tratta di Bennu, che può contenere indizi preziosi sulla storia del Sistema Solare.
A caccia di altri pianeti. Un’altra data-chiave è il 20 marzo, quando un razzo «Falcon 9» porterà in orbita da Cape Canaveral il satellite Usa «Tess» (acronimo di «Transiting Exoplanet Survey Satellite»). Una volta collocato in una posizione molto ellittica attorno alla Terra, dovrà identificare nuovi esopianeti: da quelli di dimensioni e caratteristiche terrestri fino ai giganti gassosi. In particolare dovrà rivelarne le caratteristiche, a cominciare da quelle - fondamentali - dell’atmosfera.
In una finestra tra luglio e agosto 2018 a partire sarà un’altra missione della Nasa, la «Parker Solar Probe». Obiettivo è il Sole e lo raggiungerà con una serie di «flyby», vale a dire di giganteschi rimbalzi, sfruttando la gravità di Venere: arriverà alla minima distanza dalla nostra stella nel dicembre 2024, ad «appena» 5,9 milioni di chilometri, otto volte inferiore all’attuale record.
Show di «Bepi Colombo». Con una finestra di lancio che si aprirà il 5 ottobre sarà il momento della sonda europea dell’Esa «Bepi Colombo»: è molto italiana non solo nel nome, ma per la tecnologia e la scienza «made in Italy» a bordo. Realizzata con il contributo della Thales Alenia Space, verrà inviata verso Mercurio da un vettore «Ariane 5». È stata dedicata allo scienziato italiano Giuseppe «Bepi» Colombo: fu lui, nel 1974, grazie a una serie di calcoli interplanetari, a convincere la Nasa a modificare il programma della «Mariner 10». Inizialmente ideata solo per l’esplorazione di Venere, eseguì diversi «flyby» con Mercurio, fino ad allora mai visitato. Ma stavolta «Bepi Colombo» sarà la prima sonda inviata appositamente per compiere una dettagliata esplorazione del misterioso pianeta più vicino al Sole.

Corriere 28.12.17
Oltre a re, poeti e filosofi ecco i Greci comuni
Bongustai maschilisti e cittadini impegnati
di Eva Cantarella


Un giorno ad Atene. Perché Atene, di tutta la Grecia? Per due ragioni: perché è la città sulla quale abbiamo più informazioni e perché è quella alla quale pensiamo quando torniamo con la mente a quel mondo che abbiamo per tanto tempo e troppo a lungo mitizzato, arrivando a parlarne come del «miracolo greco». E anche se oggi sappiamo che alle spalle del presunto miracolo stavano millenni di contatti e reciproci influssi con le più antiche civiltà orientali, verso le quali i Greci (e l’Europa) hanno non pochi debiti culturali, questo non impedisce che Atene continui a essere un punto di riferimento imprescindibile della nostra storia. Ed è per questo e in quest’ottica che cercheremo di individuarne le ragioni ripensando, soprattutto, alla vita quotidiana della massa eterogenea di persone che in età classica vi conviveva. Ma come, in quali condizioni?
Dal punto di vista urbanistico, la città era divisa in due parti: quella alta, sull’Acropoli, dove abitavano gli dèi, nei loro splendidi templi, oggetto di orgoglio degli Ateniesi e di ammirazione dei visitatori; e quella bassa, il centro cittadino dove si trovava l’Agorà, una larga piazza aperta circondata da edifici pubblici, e dove gli Ateniesi trascorrevano praticamente la giornata. Nelle loro abitazioni, infatti, essi passavano ben poco tempo. D’altronde le case non erano molto confortevoli: collocate, tranne che nei quartieri più eleganti, ai lati di strade prevalentemente strette, umide e tortuose, garantivano un benessere molto limitato. A causa della scarsità d’acqua molte non avevano servizi igienici: quel che andava eliminato veniva depositato in strada, o più spesso gettato dalle finestre. Inoltre stare in casa non era molto stimolante. Unica compagnia i bambini e le donne (la cui sola funzione era quella riproduttiva) che, non partecipando alla vita sociale, passavano gran parte della giornata in una zona a loro riservata, lontana dall’ingresso, così da non essere esposte a sguardi estranei: anche se non è vero che vivevano chiuse nei ginecei (in Grecia non esistevano), le donne elleniche erano pesantemente discriminate.
Detta la qual cosa, peraltro, va anche detto che vi erano persone trattate molto peggio di loro: gli schiavi (per Aristotele «strumenti animati»), considerati oggetto di proprietà e non soggetto di diritto, a dare un’idea dei cui rapporti umani con il padrone (e quindi delle loro condizioni di vita) soccorre la regola per cui, se chiamati dal padrone a testimoniare in giudizio in suo favore, data la loro presunta natura menzognera prima di farlo dovevano essere sottoposti a tortura. Ma poiché la schiavitù, oggi inconcepibile, nell’antichità era considerata naturale, passiamo a un’altra crudelissima ingiustizia, più tipicamente greca: la sorte dei pharmakoi , veri e propri capri espiatori mantenuti a spese pubbliche al fine di essere bruciati vivi per placare l’ira degli dèi quando questi mandavano una pestilenza o altro segnale che comunicava la loro indignazione.
E che dire dell’avarizia degli ateniesi di fronte alla concessione agli stranieri della cittadinanza? A darne un’idea basterà ricordare che non la riconobbero neppure ai meteci, gli stranieri residenti ad Atene la cui attività era fondamentale per l’economia cittadina (e che comunque pagavano alla città una apposita tassa). Per non parlare, sul piano della politica internazionale, del loro imperialismo e di quel che accadde agli abitanti dell’isola di Melo, spietatamente e freddamente sterminati per essere rimasti neutrali nella guerra contro Sparta.
Atene insomma aveva i suoi difetti, e la vita in città non pochi lati negativi. Ma questo non impedisce che, per altri aspetti, essa riserbi inaspettate e piacevoli sorprese. Se torniamo sull’Agorà, nella zona del mercato, scopriamo ad esempio che il commercio era sottoposto all’attento controllo di una serie di funzionari specializzati, ad alcuni dei quali spettava il compito di controllare che pesi e misure corrispondessero ai dettami di legge e a quanto dichiarato dalle parti; ad altri quello di fissare il prezzo del grano, e ad altri ancora di controllare che i prodotti venduti fossero genuini e non adulterati. E a proposito di alimenti è doveroso ricordare che la Grecia è il Paese dove è nata la gastronomia e gli chef erano personaggi così conosciuti e celebrati da indurre persino Platone nel Gorgia a citare un tal Mithaeus, definendolo come «il Fidia delle cucina».
E veniamo infine all’aspetto più interessante della vita dell’uomo greco, l’impegno quotidiano che occupava il suo tempo e i suoi pensieri: il mestiere di cittadino. Il sistema politico era una democrazia radicale e diretta, tutti i cittadini avevano il diritto di partecipare alle pubbliche assemblee in cui si decidevano a maggioranza le questioni di pubblico interesse, sia ordinarie sia straordinarie, e i voti dei partecipanti avevano tutti lo stesso valore. Come negare ai Greci il merito e la grandezza di aver inventato il concetto di democrazia? Troppo facile oggi mettere in evidenza i limiti dell’applicazione di quel concetto. Come dimenticare che le cariche pubbliche venivano assegnate per sorteggio, e che a evitare i possibili rischi il sorteggiato per accedere alla carica doveva superare un esame ( dokimasia ), durante il quale gli si chiedeva tra l’altro se aveva pagato le tasse e fatto il servizio militare? E ancora: a chi aveva dilapidato il patrimonio Solone aveva vietato di partecipare alle assemblee perché, scrive Eschine, «credeva impossibile che uno stesso uomo fosse cattivo nelle questioni private e buono in quelle pubbliche, e che non si dovesse concedere la parola a chi era capace nei discorsi, ma non nella vita». Come non essere colpiti dal fatto che millenni or sono i Greci pensavano che le cariche pubbliche dovessero essere esercitate da persone degne, e cercassero di assicurarsi che questo accadesse? Per continuare a esser loro grati dell’eredità che ci hanno lasciato non c’è bisogno di mitizzarli: basta pensare che neppure loro erano perfetti.

Corriere 28.12.17
Condanna e conquista. Il lavoro rende uomini
L’opera creativa per trasformare l’ambiente
Fattore di produzione e fonte d’identità sociale
di Antonio Carioti


Tra le componenti essenziali della vita quotidiana, in ogni epoca, c’è il lavoro, anche se le sue forme e declinazioni variano molto con il tempo, dal punto di vista materiale come da quello culturale: «Fino all’affermazione dell’etica protestante — ricorda a tal proposito lo storico Stefano Musso — il lavoro è visto come una sorta di dannazione divina, una punizione inflitta all’uomo per fargli scontare il peccato originale. Poi al contrario diventa partecipazione dell’uomo stesso all’opera creativa di Dio, assumendo quindi una dimensione ideologica di grande valore. Sotto un altro profilo, il lavoro in epoca preindustriale occupa tutta la vita e tutto il giorno, dall’alba al tramonto, ma ha ritmi piuttosto blandi e prevede interruzioni di vario genere legate alla socialità. Con la produzione di massa il lavoro diventa oggetto di un contratto, con cui il dipendente mette le sue energie e capacità a disposizione di un imprenditore. E comincia il conflitto per la riduzione degli orari, inizialmente lunghissimi, che diventa uno degli impegni primari delle organizzazioni sindacali. Ormai è netta la distinzione netta tra tempo di lavoro e tempo libero».
Musso ha curato la parte relativa al XX secolo dell’opera in più volumi Storia del lavoro in Italia , in corso di pubblicazione presso l’editore Castelvecchi. Il direttore del progetto, Fabio Fabbri, sottolinea che sarebbe sbagliato considerare questo fenomeno da un’angusta prospettiva economicista: «Bisogna guardare alla figura del lavoratore come elemento centrale della struttura sociale, analizzando le analogie e le differenze tra le diverse epoche. Sotto il profilo giuridico il contratto di lavoro salariato nasce in Italia a fine Ottocento, ma è chiaro che forme di dipendenza nella prestazione d’opera risalgono molto indietro nel tempo. In epoca romana c’è l’istituto della schiavitù, che copre un caleidoscopio molto ampio di attività. E bisogna vedere dove collochiamo, per esempio, gli artigiani che lavoravano nelle prime officine tessili del Medioevo».
Un tema di grande interesse è quello dell’occupazione femminile, che ha conosciuto, osserva Musso, diverse trasformazioni nel corso del tempo: «Non si tratta di un fenomeno recente. A parte le incombenze domestiche, le donne hanno sempre lavorato nelle diverse attività a conduzione famigliare e hanno sempre dato un contributo notevole all’agricoltura e all’allevamento del bestiame. Anche alla prima industrializzazione hanno partecipato in modo massiccio nell’industria tessile, che fu all’epoca il settore trainante della manifattura. È anche vero però che le operaie tendevano a lasciare il lavoro quando si sposavano e avevano figli. Comunque anche da mamme non si limitavano a fare le casalinghe, quasi sempre integravano il bilancio famigliare, spesso assai magro, con attività a domicilio, soprattutto di sartoria, o a tempo parziale: svolgevano compiti di lavandaie, stiratrici, collaboratrici domestiche. Sparivano dalle statistiche ufficiali sull’occupazione, ma operavano in una sorta di economia grigia. Solo in tempi piuttosto recenti, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, le donne italiane sono entrate stabilmente nel circuito del lavoro regolare, per conquistarsi un’autonomia o per portare a casa un altro stipendio oltre a quello del marito».
Insomma, se esaminato in una prospettiva ampia, spingendosi oltre i dati forniti dalle fonti istituzionali, il campo del lavoro si rivela una chiave di lettura preziosa delle trasformazioni sociali: «A mio parere — sostiene Fabbri — si tratta dell’asse portante e unificante della storia umana, uno strumento eccezionale di lettura sincronica delle diverse civiltà. Ovviamente bisogna esaminarlo in tutti i suoi aspetti: il lavoro non è mai stato solo un fattore di produzione, si è sempre incrociato con fattori culturali e religiosi. Ecco perché, se per esempio ci riferiamo all’età romana, non basta occuparsi degli agricoltori o degli schiavi domestici: bisogna considerare i commercianti, i medici, gli attori, i militari, gli artisti, la prostituzione. Tutto ciò ha anche ricadute attuali, perché accendere i riflettori sulla figura del lavoratore a tutto tondo vuol dire anche porre l’esigenza di rivalutarne il ruolo per contrastare la disgregazione sociale della nostra epoca».

Repubblica 28.12.17
Blitz
Barbareschi in manovra 4 milioni in più all’Eliseo
E Franceschini si arrabbia
Luca Barbareschi, 61 anni, ha preso la gestione e la direzione artistica del Teatro Eliseo di Roma nel 2015. Ha dichiarato ad aprile 2017 la crisi del teatro di via Nazionale. A maggio la manovrina gli ha garantito 8 milioni di euro (in due anni) extra Fus. 4 milioni sono stati cancellati dal Codice dello Spettacolo e ora gli vengono ridati con l’emendamento alla legge di bilancio
di Anna Bandettini Valentina Conte


I nuovi fondi grazie all’emendamento Prestigiacomo approvato in sordina con il sì del governo. Il ministro: “Una forzatura, io informato solo dopo”
RomaSembra quasi un appuntamento fisso: “ l’emendamento Barbareschi” di fine anno. Era successo nel 2016 con la richiesta del senatore pd Astorre - poi ritirata - nel Milleproroghe. È successo di nuovo la notte del 20 dicembre, durante le ultime battute per l’approvazione della manovra, quando in commissione Bilancio della Camera, presieduta da Francesco Boccia ( Pd), viene approvato un emendamento presentato da Stefania Prestigiacomo (Forza Italia) per assegnare 4 milioni di euro nel 2018 al teatro Eliseo di Luca Barbareschi. L’emendamento passa all’unanimità, grazie anche a una furbata: un ritocco alle tabelle del bilancio dello Stato, senza mai citare né il regista produttore, né la sala romana di via Nazionale, teatro da tempo in difficoltà.
« Barbareschi si è rivolto a Forza Italia per recuperare i 4 milioni che prima gli erano stati assegnati e poi tolti » , ammette l’ex ministro Prestigiacomo. «Si danno soldi a tutti i teatri, se c’è necessità. Non vedo perché non si debba aiutare anche l’Eliseo, uno dei più importanti d’Italia. E poi il mio emendamento, approvato con il parere positivo di Boccia e anche del governo nella persona del sottosegretario Baretta, prevede solo un generico aumento del Fondo unico per lo spettacolo di 4 milioni. Sarà il ministro Franceschini, se riterrà, a destinarli a Barbareschi, come da loro precedente accordo. Così almeno mi ha detto Barbareschi».
Reagisce subito il ministro della Cultura Dario Franceschini, da mesi impegnato a contrastare i finanziamenti “ ad personam” all’Eliseo: « Trovo quell’emendamento un errore e una forzatura. Ovviamente io devo rispettare tutte le decisioni del Parlamento, ma si deve sapere che sono stato informato ad approvazione già avvenuta, nel caos dell’ultima notte della legge di Bilancio. Una cosa è aiutare un teatro privato in difficoltà, come il Parlamento aveva già deliberato di fare, un’altra cosa aggiungere ulteriori 4 milioni. Tutto ciò contrasta con lo spirito della nuova legge sullo spettacolo dal vivo che abbiamo approvato proprio per introdurre migliori criteri di distribuzione delle risorse pubbliche legati a principi di equità e a parametri oggettivi».
A ben vedere, i fatti sono diversi da come li racconta Prestigiacomo. Lo rivela il resoconto parlamentare. La deputata di Forza Italia «precisa che l’emendamento è volto ad integrare il finanziamento di cui all’articolo 22, comma 8 del decreto legge 50 del 2017». Il riferimento è alla manovra correttiva della scorsa primavera. In quel decreto legge è lo stesso governo a stanziare 2 milioni per il 2017 «in favore del teatro di rilevante interesse culturale “ Teatro Eliseo”, per spese ordinarie e straordinarie, al fine di garantire la continuità delle sue attività in occasione del centenario della sua fondazione».
Denari che però in Parlamento si moltiplicano per quattro, grazie a due emendamenti dei deputati Giorgetti (Fi) e Boccadutri ( Pd) approvati all’unanimità: 8 milioni, metà per il 2017 e il resto sul 2018. Si scatena la bufera in tutto il mondo del teatro. Critiche, accuse, polemiche fortissime. È così che nel Codice dello Spettacolo, approvato in novembre, almeno i 4 milioni del 2018 ( impossibile toccare quelli del 2017) vengono dirottati sui teatri delle quattro Regioni terremotate. Barbareschi non ci sta. E chiede alla Prestigiacomo di ripianare la cifra in manovra, « perché, mi ha detto, aveva già impegnato progetti e poi il ministro è d’accordo » , racconta lei. In commissione Bilancio dunque Prestigiacomo non nasconde la finalità dell’emendamento. E i deputati sanno cosa stanno votando.
E ora cosa succede? Il ministero della Cultura ritiene di avere le mani legate. I 4 milioni sarebbero vincolati all’Eliseo. Alla faccia delle fondazioni liriche, ad esempio. Per le più virtuose tra loro il “premio” si riduce da 20 a 15 milioni. Per l’Eliseo sale.

Repubblica 28.12.17
L’Est europeo
Depenalizzate le tangenti Bucarest torna in piazza
Dopo la Polonia, anche la Romania va in battaglia contro i giudici. E prepara lo scontro con l’Ue
di Andrea Tarquini


Ormai in Romania la maggioranza eletta al potere punta al tutto per tutto, alla vittoria finale contro società civile e magistratura anticorruzione. Poco dopo il passaggio definitivo a Varsavia delle leggi che secondo la Ue abrogano l’indipendenza del potere giudiziario (e anni dopo simili passi in Ungheria), i deputati del Partito socialdemocratico di governo hanno approntato una legge per depenalizzare la corruzione per ogni reato contestato sotto i 200mila euro. Giorni fa, avevano fatto passare leggi che limitano l’autonomia dei giudici sottoponendoli agli ordini del ministero della Giustizia e minacciandoli di sequestro dell’abitazione.
Invano il capo dello Stato, il liberalconservatore europeista Klaus Iohannis, ha lanciato l’allarme. «Se continuano cosí, toccherà alla nostra Patria, dopo la Polonia, incorrere in procedure punitive del’Unione europea accusati di violazione di valori costitutivi e principi dello Stato di diritto; chi non lo vede o fa finta di non capirlo vive sulla luna», ha detto il presidente. Sa che la società civile è migliore dei governanti, vuole difendere l’appartenenza alla Ue grazie a cui la Romania ha la piú alta crescita in Europa. Ma il Partito socialdemocratico al potere vuole salvare i suoi molti politici di rango da sospetti, indagini e condanne. A cominciare dal leader storico Liviu Dragnea, il personaggio piú influente del maggiore paese balcanico. Già condannato con la condizionale, non può ricoprire incarichi esecutivi, ma è presidente della Camera e i suoi lo seguono senza condizioni. Dice la sua su ogni nomina. Anche ora, notano fonti diplomatiche e della Giustizia, che è nuovamente indagato per malversazione di fondi europei nella ristrutturazione di un centro sportivo.
La proposta di legge di un gruppo di deputati del Partito socialdemocratico ( che fa parte nella Ue del Partito socialista europeo) prevede di depenalizzare i presunti reati di corruzione per somme inferiori all’equivalente di duecentomila euro. E poi: derubricare condanne non oltre i tre anni. Pene piú leggere per chi accetta tangenti. Depenalizzare tentativi di ottenere favori sessuali in cambio di aiuti sul lavoro o simili. E incassare tangenti per conto di altri non sarebbe piú reato.
È la seconda volta in un anno che la maggioranza ci prova. Alla fine dell’anno scorso fu costretta alla marcia indietro dopo l’ondata di proteste della società civile. Le proteste ora sono tornate, appaiono endemiche. Il primo ministro Mihai Tudose ieri ha voluto tendere la mano ai dimostranti. Ricevendo rappresentanti della società civile e promettendo loro che dialogherà con l’Unione europea. «Ma l’esito di questo incontro non ci ha soddisfatti», hanno detto in serata i dirigenti delle Ong, « non ci resta che tornare a chiamare i cittadini in piazza».

Repubblica 28.12.17
Intervista a Laura Codruta Kovesi (Dna)
di A. Tar.


“La lotta alla corruzione è la difesa dei valori europei”
Diffamata e minacciata, Laura Codruta Kovesi non ha paura.
Guida la Directia Nationala Anticoruptiei (Dna), è l’eroina della società civile.
Quale futuro ha la lotta alla corruzione in Romania?
«Mi sento molto legata al dovere e motivata, con tutto il team.
Lavoriamo con professionalità e responsabilità. Per contribuire all’obiettivo dei cittadini: costruire una società più pulita dove la corruzione sia eccezione e non regola. Le nostre indagini hanno svelato metodi per drenare risorse pubbliche a beneficio di privilegiati e a spese della maggioranza».
E la società civile vi capisce?
«Anno dopo anno, sempre più cittadini hanno capito quanto sia pericolosa la corruzione e importante colpirla. Per loro è priorità».
Perché tanti cosiddetti vip sfidano la legge?
«Identificarli e punirli è importante, ma non basta, servono misure preventive nel diritto penale. Abbiamo individuato le aree vulnerabili: nomine pubbliche, Sanità, infrastrutture, appalti, pubblica istruzione».
Quali sono le sue priorità nella battaglia?
«Le priorità le decidiamo ogni anno secondo l’evoluzione del fenomeno criminale. Negli ultimi anni: corruzione in servizio sanitario, appalti, uso dei fondi europei, con effetti a catena. E la corruzione blocca lo sviluppo, la qualità della vita degenera. Un profondo effetto-domino nelle strutture costitutive di una società.
Cattive strade a caro prezzo, anche con fondi europei, pazienti costretti a pagare per servizi medici, edifici privati costruiti in una notte su suolo pubblico.
Dobbiamo combattere».
Ha ricevuto minacce o intimidazioni?
«Negli ultimi anni il metodo d’intimidazione più usato erano attacchi pubblici dei politici indagati. Ora sono passati a leggi e proposte di legge contro la nostra indipendenza ed efficienza. La diffamazione contro la DNA e la giustizia ha raggiunto livelli incredibili, da calunnie fino a contratti con aziende specializzate in intimidazione o disinformazione. Ora vogliono cambiare le leggi per toglierci indipendenza e depenalizzare per salvare indagati condannati in nove casi su dieci. La sfida più critica è garantire l’indipendenza della DNA e la stabilità della legislazione anticorruzione».
I politici indagati la accusano di essere di parte, lei che cosa risponde?
«Non produciamo dossier politici. Ci basiamo su prove. Ci attaccano per esautorarci e intimidire. Ma siamo nella Ue, ci battiamo per valori europei».