La Stampa 22.12.17
L’Italia smarrisce il senso del sacro e si riduce il numero dei cattolici
I risultati della ricerca condotta da “Community Media Research” per “La Stampa” In 20 anni è aumentato soltanto il numero di coloro che non si riconoscono in nessuna fede
di Daniele Marini
Le festività natalizie fanno scattare, nel discorso mediatico, un meccanismo consolidato: come andranno le spese delle famiglie in regali, cibo e vacanze? Come andranno i consumi?
Non solo a causa delle difficoltà di quest’ultimo decennio il Natale è annoverato fra gli indicatori dell’andamento dell’economia. La dimensione religiosa della ricorrenza, e non sempre, si declina nell’intimità familiari, nel privato o confinato alle comunità dei credenti. Eppure, la religiosità, così come l’ideologia politica, costituiva un universo di valori per le persone. Un insieme di norme che contribuiva a guidare l’azione dei singoli. Permetteva la costruzione di un senso comune. Offriva un obiettivo condiviso per la costruzione della società e del suo futuro.
Religiosità e ideologie erano le narrazioni delle comunità che (e di come) si sarebbero dovute costruire. L’uso dei verbi al passato non è casuale. Perché tali pilastri hanno perso la loro valenza. La dimensione religiosa è attraversata da tensioni profonde. Già all’inizio degli Anni 60 il sociologo Sabino Acquaviva evidenziò un’«eclissi del sacro». All’orizzonte comune dei valori religiosi di riferimento si è sostituita una declinazione individuale che definiremmo «tailor made», dove ognuno ritaglia su di sé la morale religiosa in una sorta di «fai-da-te». Tant’è che siamo in presenza di «un singolare pluralismo» morale e religioso, così come definito da una ricerca curata da Garelli, Guizzardi e Pace (Mulino) nel 2000.
Un limbo collettivo
A distanza di quasi 20 anni da quell’indagine sono ancora mutate la religiosità e la spiritualità degli italiani? Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo per «La Stampa», ha ripercorso alcuni dei temi sugli orientamenti religiosi degli italiani. Pur con le cautele del caso, tuttavia il raffronto con quanto rilevato all’inizio del secolo evidenzia come i processi di trasformazione allora rilevati si siano approfonditi. E, in generale, la società italiana mostri evidenti segni di una progressiva erosione della dimensione del sacro. Le dichiarazioni di appartenenza religiosa raccontano che la maggioranza della popolazione si dichiara ancora oggi cattolica (60,1%). Largamente minoritari sono quanti appartengono ad altre famiglie religiose (dagli islamici ai buddisti, dagli ebrei alle altre cristiane o non cristiane: complessivamente il 6,5%). Per contro, un italiano su tre (33,4%) non sente di appartenere ad alcuna confessione religiosa.
Fin qui, dunque, l’Italia parrebbe un Paese popolato da cattolici. Se è così, tuttavia, tale quota decresce significativamente dal 2000 di 19,1 punti percentuali, quando allora era stimata al 79,2%. Tale travaso, però, più che andare a vantaggio di altri gruppi religiosi, va ad alimentare l’area della non-appartenenza: il 33,4%, contro il 18,8% del 2000. Quindi, la religiosità cattolica coinvolge ancora una larga fetta della società italiana, ma è in contrazione. Non a vantaggio di altre culture religiose, quanto di una sorta di limbo. Un ulteriore riflesso della minore tensione all’appartenenza religiosa è riscontrabile nella frequenza ai riti e alle funzioni religiose. Gli «assidui»” (partecipano tutte le domeniche o almeno più volte al mese) sono il 25,6%, in calo di 24 punti percentuali rispetto al 2000 (erano il 49,6%). Crescono sia i «saltuari» (partecipano solo ad alcune occasioni o ogni 4-5 mesi: 47,0%, dal 34,9% del 2000) sia chi non frequenta mai (27,4%, era il 15,5% nel 2000).
Così, a una diminuzione del senso di appartenenza, consegue un minor grado di partecipazione ai riti delle comunità religiose. È interessante poi osservare come anche all’interno delle famiglie religiose le due dimensioni (appartenenza e partecipazione) non siano così scontate. Fra i cattolici solo il 39,4% è presente in modo assiduo ai rituali, quota però più cospicua rispetto a quanti appartengono ad altri gruppi religiosi (26,2%). I cattolici, quindi, paiono più fedeli, ma è una (larga) minoranza a partecipare con costanza ai momenti comunitari.
Vita spirituale
I processi erosivi della trascendenza nella vita quotidiana si colgono analizzando quanti ritengono di avere una vita spirituale e di credere in un’entità soprannaturale. In entrambi i casi otteniamo che un’ampia minoranza si riconosce nelle due dimensioni: il 45,4% sente di avere propria una vita spirituale, il 40,4% è religioso. Sommando queste affermazioni, identifichiamo quattro profili di religiosità. Il gruppo prevalente è dei «materialisti» (46,3%), che dichiara di non avere né una vita spirituale né religiosa, particolarmente presenti fra i 40enni (64,5%), assai più che fra i giovani (44,5%). Le caratteristiche opposte le troviamo nei «credenti» (34,5%), che sono il secondo gruppo, più diffuso fra gli adulti (oltre 55 anni: 43,4%). Fra questi due insiemi incontriamo quanti hanno una «spiritualità soggettiva» (11,1%), ma non riconoscono alcuna entità superiore. E, viceversa, chi ha un’appartenenza religiosa ispirata dalle consuetudini: la «religiosità culturale» (8,1%). Va sottolineato come la metà fra i cattolici (51,1%) rientri nel gruppo dei «credenti» e il 29,0% alberghi fra i «materialisti».
I processi di secolarizzazione proseguono la loro marcia. La perdita di intensità della dimensione del sacro lascia spazio a una materialità individuale e nelle relazioni, come denunciato dallo stesso Papa Francesco. Eppure il fenomeno dell’eclissi (del sacro) adombra come il lato oscuro nasconda un’altra realtà, che fatichiamo a vedere. Il pluralismo religioso e spirituale emerso dalla rilevazione è anche indice di una ricerca a fronte della perdita del tradizionale orizzonte di valori. È una nuova domanda di senso per l’epoca di trasformazioni che stiamo attraversando. Che richiede una grande opera di discernimento.
Repubblica 22.12.17
Il biotestamento
Sul fine vita la ministra non obietti
di Chiara Saraceno
La ministra della Sanità Lorenzin è scesa in campo a difesa della possibilità dei singoli medici, e soprattutto degli ospedali di proprietà religiosa ma convenzionati con il sistema sanitario pubblico, di rifiutarsi di dar corso alle volontà del malato di interrompere le cure quando le ritenga inutili, se non causa di un prolungamento di sofferenze intollerabili e senza speranza.
Rispondendo all’appello di alcune associazioni di medici cattolici ha, infatti, dichiarato che il suo obiettivo è contemperare «la necessità di applicare fedelmente le nuove disposizioni con le altrettanto fondate esigenze di assicurare agli operatori sanitari il rispetto delle loro posizioni di coscienza». Come se la legge sul fine vita appena approvata richiedesse ai medici pratiche crudeli, a danno dei pazienti, o consentisse l’eutanasia, e non il rispetto della libertà e dignità delle persone. Non bastano le pressioni del presidente della conferenza episcopale e del segretario di stato Vaticano sul presidente della Repubblica perché non firmi la legge appena approvata dal Parlamento. Anche un ministro del governo in carica, colei che dovrebbe farsi garante innanzitutto dei diritti dei cittadini e della ottemperanza della legge, si propone di indebolirla prima ancora che entri in attuazione.
Lorenzin non è nuova a queste prese di posizione. Quando circa un anno fa il governo regionale del Lazio bandì un concorso per ginecologi non obiettori, si schierò a favore di chi voleva impugnare il concorso, in nome, di nuovo, del diritto all’obiezione: non del diritto, sancito da una legge, ad ottenere una interruzione di gravidanza entro l’arco di tempo consentito e senza dover migrare da una regione all’altra. Nessuno obbliga un medico a lavorare in un ospedale pubblico e nel sistema sanitario nazionale. Tanto meno nessuno obbliga un ospedale privato a convenzionarsi con questo sistema. Se decidono di farlo, devono accettare di applicare le leggi dello stato, tutte, non a propria scelta. Se per questo gli ospedali religiosi perderanno clienti e dovranno chiudere, come adombra in modo ricattatorio la Conferenza dei vescovi, è un problema che riguarda innanzitutto loro e non può diventare una ragione per limitare i diritti dei cittadini. È già complicato e faticoso, nel nostro variegato sistema sanitario, capire dove si può essere curati nel modo più appropriato e in tempi ragionevoli.
L’obiezione di coscienza obbliga anche ad una ricerca per verificare dove le leggi sono pienamente applicate e non affidate alla scelta idiosincrasica dei singoli o della dirigenza. Nelle disposizioni di fine vita bisognerà scrivere anche in quali ospedali e da quali medici non si vuole farsi curare, per evitare di trovarsi in trappola proprio nel momento di maggiore fragilità. Invece di cercare di introdurre l’obiezione di coscienza anche nel caso dell’accompagnamento al fine vita, un ministro della Repubblica dovrebbe impegnarsi a eliminarlo anche nel caso dell’aborto, per evitare lo scandalo dei tassi di obiezione e delle difficoltà ad ottenere una interruzione di gravidanza che hanno anche fatto condannare l’Italia dalla Corte Europea per lesione dei diritti delle sue cittadine. Se Lorenzin intende impegnarsi per aggirare o ridurre la portata di leggi dello stato, non può fare il ministro e dovrebbe dimettersi.
Francamente, mi sembra che il suo sia un conflitto di interessi e un atteggiamento dannoso per i cittadini maggiore di quello della sua collega Boschi per il caso Etruria.
il manifesto 22.12.17
Trump sconfitto all’Onu ma conferma Gerusalemme capitale d’Israele
Gerusalemme. Solo nove Paesi si sono schierati con lui. La risoluzione all'Assemblea Generale è stata approvata da 128 Paesi membri, tra i quali l'Italia. 35 le astensioni. Netanyahu: Onu casa delle bugie
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Con una maggioranza netta, l’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato ieri sera la risoluzione di condanna del riconoscimento unilaterale fatto lo scorso 6 novembre dal presidente americano Donald Trump di Gerusalemme capitale di Israele. Con 128 voti favorevoli (9 i contrari) è stato accolto il testo presentato da Turchia e Yemen – simile a quello bocciato giorni fa in Consiglio di Sicurezza a causa del veto Usa – in cui si afferma che tutti gli Stati devono rispettare le precedenti risoluzioni del CdS e che lo status finale di Gerusalemme può essere deciso solo nell’ambito di negoziati. Tuttavia le minacce rivolte nei giorni scorsi da Trump e dalla sua ambasciatrice dell’Onu Nikki Haley ai Paesi membri dell’Onu hanno prodotto qualche risultato. Oltre a Usa e Israele, altri sette Paesi hanno votato contro la risoluzione: Guatemala, Honduras, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau, Togo. Favorevoli invece i principali Paesi Ue, a partire da Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna. Tra i 35 astenuti si segnalano Australia, Canada, Argentina, Polonia, Romania, Filippine e Colombia.
Voto a parte, al Palazzo di vetro ieri è apparsa chiara la spaccatura tra un mondo che, sia pure con ambiguità e ipocrisie, continua a rispettare il diritto internazionale ed un altro mondo, incarnato dall’Amministrazione Trump e dal governo Netanyahu, che crede nella politica dei fatti compiuti, degli atti di forza, dei passi unilaterali. Nikki Haley ieri ha ribadito le minacce fatte nelle ore precedenti ai Paesi membri dell’Onu. «Gli Stati Uniti ricorderanno questo giorno, in cui sono stati attaccati per aver esercitato il loro diritto come nazione sovrana», ha affermato. Gli Stati Uniti – ha ricordato – «sono il principale contributore delle Nazioni Unite ma se i nostri investimenti non portano risultati allora abbiamo l’obbligo di destinare le nostre risorse ad altre cose più produttive». Haley infine ha ribadito che «L’America sposterà la sua ambasciata a Gerusalemme. Nessun voto alle Nazioni Unite farà la differenza. Ma questo voto farà la differenza su come gli americani guarderanno l’Onu».
Israele si sente vincitore nonostate il 128 a 9. Il governo Netanyahu ora si impegnerà con i Paesi che hanno votato contro la risoluzione o si sono astenuti per convincerli a trasferire le loro ambasciate da Tel Aviv a Gerusalemme e rendere meno isolata la scelta degli Stati Uniti. È probabile che, come era avvenuto dopo l’approvazione della “Jerusalem Law” nel 1980 (l’annessione unilaterale votata dalla Knesset di tutta Gerusalemme capitale di Israele), anche questa volta Israele trovi comprensione tra alcuni Paesi centroamericani. Non può non essere notata anche l’astensione di Polonia e Romania, andate contro la posizione dichiarata più volte dall’Unione europea. «Questo voto finirà nel secchio della spazzatura della storia» ha previsto l’ambasciatore israeliano Danni Danon che puntato l’indice contro l’Onu, definendo i Paesi membri «marionette nelle mani dei palestinesi». Prima di lui, il premier israeliano Netanyahu aveva descritto le Nazioni Unite come la «casa delle bugie».
La posizione palestinese resta ancorata al diritto internazionale, preso a picconate da Washington e Tel Aviv. «Lo status di Gerusalemme è la chiave per la pace o la guerra in Medioriente. La risoluzione sottolinea la necessità di tutelare lo status legale internazionale di Gerusalemme» aveva spiegato prima del voto il ministro degli esteri Riad al Malki. Allo stesso tempo i palestinesi sanno che la vittoria di ieri all’Onu non avrà effetti concreti sul terreno. Per questo il presidente dell’Anp Abu Mazen prosegue il suo tour diplomatico alla ricerca di sostegni. Oggi vedrà all’Eliseo Emmanuel Macron. In Sudafrica l’Anc, il partito di maggioranza legato al nome di Nelson Mandela, ha presentato una richiesta ufficiale al governo per abbassare il livello dell’ambasciata israeliana a semplice ufficio di rappresentanza.
Oggi si prevedono nuove manifestazioni contro Trump a Gerusalemme est e nel resto dei Territori palestinesi occupati al termine delle preghiere del venerdì islamico. L’esercito israeliano continua a compiere arresti in Cisgiordania. Secondo dati palestinesi dal 6 novembre le forze israeliane hanno detenuto circa 500 persone, durante le proteste e nei raid notturni in villaggi e città. Lunedì Ahed Tamimi, 16 anni, arrestata a Nabi Saleh con l’accusa di aver “aggredito” due soldati, sarà processata assieme alla madre Nariman, e alla cugina Nour, da una corte militare israeliana.
Il Fatto 22.12.17
Sberleffo a Trump: tutto il mondo vota contro gli Usa
L’Assemblea delle Nazioni Unite boccia la decisione americana di dichiarare la Città Santa capitale di Israele
Sberleffo a Trump: tutto il mondo vota contro gli Usa
di Giampiero Gramaglia
Non dimenticheremo”, dice Trump in tono minaccioso. E, in effetti, gli Stati Uniti faranno fatica a dimenticare lo schiaffo ricevuto ieri dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite: passa a larghissima maggioranza la risoluzione che condanna il riconoscimento, da parte dell’Amministrazione americana, di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento dell’ambasciata degli Usa da Tel Aviv nella Città Santa ai tre monoteismi. La condanna era stata bloccata in Consiglio di Sicurezza solo dal veto della rappresentante permanente americana Nikki Haley.
Il documento, presentato da Yemen e Turchia, ottiene 128 voti a favore, – se ne aspettavano 150, ma qualche diplomazia s’è lasciata impressionare dalle minacce di Trump di bloccare gli aiuti -, 9 contro e 35 astenuti. Una ventina di Paesi non rispondono all’appello: sono in tutto 193. Per contare gli amici, al magnate presidente bastano e avanzano le dita delle sue piccole mani. Per segnarsi i nemici, gli serviranno molte pagine della sua agenda 2018.
Fra i 10 Paesi più aiutati dagli Usa, solo uno, Israele, vota contro la risoluzione. Il Kenya dà forfait. Gli altri votano tutti a favore: Afghanistan, Egitto, Iraq, Giordania, Pakistan, Nigeria, Tanzania ed Etiopia. Nemici a parte, la sfida a Trump è corale da parte di amici e financo vassalli.
La mossa di Trump, gratuita e non necessaria, di incendiare il Medio Oriente e tutto il Mondo islamico trasferendo l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme ottiene il doppio effetto d’avvicinare nemici musulmani di vecchia data, come a esempio Arabia saudita e Iran, ora dalla stessa parte della barricata pro-palestinesi, e di stimolare la coesione dell’Ue, spesso divisa sul Medio Oriente. A favore della risoluzione, votano 26 dei 28, tra cui Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna.
Un altro corollario del teorema ‘trumpiano’ è che, senza colpo ferire, Russia e Cina vedono crescere la loro influenza nella Regione: Putin può permettersi di ‘portare a casa’ le truppe dalla Siria, avendo già centrato i suoi obiettivi.
Israele minimizza il significato del voto, che “finirà nel secchio della spazzatura della storia”: si può prevedere che il documento resti lettera morta, come già molti altri delle Nazioni Unite, specie sul Medio Oriente – proprio Israele ne ignora il maggior numero. Una risoluzione del Consiglio di Sicurezza sarebbe stata vincolante, quella dell’Assemblea generale non lo è.
Il testo sottoposto all’Assemblea generale è praticamente la fotocopia di quello presentato dall’Egitto e bloccato dal veto della Haley in Consiglio di Sicurezza. Si chiede che tutti gli Stati rispettino le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (ben 10 dal 1967), secondo cui lo statuto finale di Gerusalemme può esser deciso solo nell’ambito di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi. Ogni altra decisione – si sostiene – deve quindi essere considerata non valida. Subito dopo il voto, Israele ne ha respinto le indicazioni, mentre i palestinesi esultavano.
La Santa Sede rilancia uno statuto speciale per Gerusalemme ‘città aperta’, mentre Papa Francesco invoca “dialogo e pace” per una città “simbolo di convivenza”.
La posizione italiana è stata espressa dal ministri degli Esteri Angelino Alfano, a una conferenza per gli 800 anni di presenza francescana in Terra Santa: “Gerusalemme è una missione comune fra ebrei, musulmani, cristiani, come lo è lo status quo dei Luoghi Santi radicata nelle coscienza di chi la abita e di chi la governa e che dovrà rimanere tale quale che sarà lo statuto politico definitivo della città”.
Repubblica 22.12.17
L’era Trump
Usa, i veti assurdi sulla scienza
di Jared Diamond
L’amministrazione Trump ha recentemente ordinato a un organismo pubblico, il Centro per il controllo delle malattie, di rimuovere dai documenti una serie di parole che prima erano considerate virtuose, ma ora non sono più utilizzabili. L’elenco ha suscitato proteste e sorpresa, non solo perché il decreto del governo rappresenta un’antidemocratica censura del linguaggio, ma anche perché fra le parole vietate ce ne sono alcune che giocano un ruolo centrale nel controllo delle malattie, nella democrazia e nei valori della destra repubblicana.
Quali sono queste parole cattive? Una è “vulnerabile”: ma il lavoro del Centro per il controllo delle malattie consiste proprio nell’individuare le malattie a cui gli americani sono vulnerabili. Un’altra è “diversità”: ma per controllare le malattie è indispensabile riconoscere che non tutte le persone hanno le stesse vulnerabilità. Per esempio, le donne sono vulnerabili al tumore alle ovaie, gli uomini no. Un’altra è “diritto”. Ma la seconda frase della Dichiarazione di indipendenza del 1776 afferma: « Riteniamo che siano per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che sono dotati dal Creatore di inalienabili diritti; che per garantire tali diritti sono istituiti tra gli uomini governi». La nostra nazione è fondata sulla fede nei diritti e sull’idea consensuale che la funzione principale del governo sia proprio quella di garantirli.
Altre due espressioni vietate sono “ basato sui dati” e “ basato sulla scienza”. Ma i dati e la scienza sono la base della moderna medicina. La ragione per cui oggi l’aspettativa di vita media degli americani (compresi i repubblicani) è 80 anni, mentre era meno di 50 due secoli fa, è che l’evidenza scientifica ha dimostrato fatti ormai accettati. Paradossale è la messa al bando di “feto”. I repubblicani professano una particolare attenzione per i feti, la cui vita andrebbe preservata a prescindere dalla praticabilità, anche se perdono interesse per i feti dopo che sono nati.
Simili divieti sarebbero assurdi in qualsiasi Paese. Dal governo degli Stati Uniti ci si aspetterebbe il contrario. Gli Usa sono all’avanguardia in scienza, tecnologia e medicina. La produzione scientifica è superiore a quella del resto del mondo. Università prestigiose e industrie innovative sono americane. È grazie a scienza e tecnologia se l’America è il Paese più potente del pianeta. Insomma, gli Stati Uniti sono gli ultimi al mondo in cui ci si aspetterebbe atteggiamenti antiscientifici come quelli dell’amministrazione Trump. Come si spiega questo paradosso? Lascia perplessi molti americani, e attoniti i miei amici europei. In realtà, la sfiducia nella scienza e nella ragione è diffusa e di vecchia data, e coesiste, non senza attriti, con la preminenza scientifica. Gli esempi sono innumerevoli: uno dei più citati è il processo Scopes del 1925, quando un maestro nel Tennessee fu condannato per aver violato una legge che vietava l’insegnamento della teoria dell’evoluzione. Le restrizioni all’insegnamento dell’evoluzionismo sono ancora diffuse. Ma l’evoluzione è il fatto distintivo centrale della biologia: è impossibile insegnare biologia senza avere un’idea chiara dell’evoluzione.
Si discute sull’origine di questo paradosso. Cito due fattori, che negli Usa pesano più che in altre democrazie ricche. Ma ve ne sono altri. Uno dei due è il fatto che gli Stati Uniti sono stati fondati come una democrazia estrema. La Dichiarazione di indipendenza cominciava con un’asserzione di uguaglianza: l’uguaglianza di opportunità è un ideale fondamentale. La nobile fede nell’uguaglianza di opportunità cozza con la crudele realtà della disuguaglianza di capacità. Alcune persone sono più capaci di altre in ambiti specifici. Da qui nasce la sfiducia verso gli esperti e gli scienziati. Molti fatti della scienza contraddicono l’ingenua evidenza dei nostri sensi. Per esempio, gli occhi ci dicono che la Terra è piatta e il Sole gira intorno alla Terra: ma gli astronomi hanno dimostrato che la Terra è rotonda e gira intorno al Sole. Gli americani di destra dichiarano la loro sfiducia verso la scienza, ma l’ammirazione per l’uomo della strada è solo formale: la sua condizione è peggiorata e la riforma fiscale avvantaggia i super ricchi. La sfiducia del governo verso gli scienziati non è condivisa dalla Corea del Nord, lieta di supportare i suoi nel progettare missili e bombe.
L’altro fattore che contribuisce alla sfiducia nella scienza è il ruolo delle religioni fondamentaliste. Quando gli Usa furono fondati, i Paesi europei avevano religioni di Stato, sostenute dai governi e professate dai cittadini. Molti di quelli che emigravano dall’Europa lo facevano proprio per sfuggire alle religioni, e ne fondarono di nuove. Il sistema di credenze è in contrasto con un approccio scientifico. Le religioni sono professate da molti, che esercitano influenza politica. Sono un’altra forza che si oppone alla scienza, alla ragione e alla biologia evolutiva.
Queste, quindi, sono due delle ragioni per cui gli Stati Uniti, all’avanguardia nella scienza mondiale, paradossalmente hanno un governo che è all’avanguardia nell’opposizione alla scienza. Dove ci porterà tutto questo? Non lo so. Posso solo affermare che l’esito dipenderà dalle libere scelte degli elettori americani nelle prossime elezioni e dagli sforzi del governo per impedire agli elettori di esprimere le loro scelte. Mi viene in mente un detto degli antichi greci: “Gli dei accecano coloro che vogliono distruggere”. L’interrogativo irrisolto della politica americana è questo: verranno distrutti nelle prossime elezioni solo i conservatori che oggi dominano il Partito repubblicano, consentendo il ritorno della politica alla sanità mentale? O invece verranno distrutti i punti di forza degli Stati Uniti, fondati sulla scienza e sui dati? La risposta a questa domanda è attesa con interesse non solo dagli americani, ma anche dai leader della Cina, della Russia, della Corea del Nord e degli altri nostri rivali.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Il Fatto 22.12.17
Tutte le missioni finte della Boschi. Da Madonna di Campiglio al grande giro del Canada
Documenti, Sottosegretaria sempre in viaggio e non sempre per motivi di natura istituzionale
Boschi: a seguire, nella gallery, le tappe del viaggio della Boschi.
di Carlo Tecce
Maria Elena Boschi va su e giù per l’Italia, spesso in Toscana, di frequente a casa in provincia di Arezzo, fa conferenze internazionali, interviene ai seminari, inaugura ville di periferia, porta i saluti, gli omaggi, riflette sull’uomo e la donna, rappresenta un po’ il governo e un po’, a volte troppo, se stessa. Un paio di mesi dopo l’incarico da sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, cioè la prima settimana di febbraio, Boschi ha iniziato a viaggiare, a collezionare “trasferte istituzionali”. E non ha smesso più.
Il Fatto ha ottenuto l’elenco – compilato dagli uffici dell’ex ministra e trasmesso da un dipartimento di Palazzo Chigi nel rispetto della legge sull’accesso agli atti – delle missioni di governo di Meb. E non sempre, scartabellando il documento di 15 pagine, gli impegni di Boschi giustificano le ragioni istituzionali: da un fine settimana sulla neve di Madonna di Campiglio a un giro del Canada, passando per le numerose feste del Partito democratico. Allora conviene raccontare nel dettaglio i viaggi più controversi di Meb.
4-5 febbraio 2017 Sabato e domenica fra “Lucca e Arezzo”. Non c’è traccia di appuntamenti di Stato negli archivi delle agenzia di stampa.
17-19 febbraio A Madonna di Campiglio c’era il sole e parecchia neve. La sosta è lunga: venerdì, sabato e domenica. Anche qui la missione, se non strana, è almeno segreta.
24-25 marzo Il venerdì e il sabato, stavolta, li trascorre a Firenze. Il venerdì c’è un Consiglio dei ministri. Nel pomeriggio, però, la sottosegretaria è davvero a Firenze. Riportano le agenzie di quel giorno: “Un applauso, molti saluti affettuosi, ma anche premure quasi familiari da parte dei militanti al circolo Vie Nuove del Pd per Maria Elena Boschi che, di ritorno da Roma, stasera è andata a votare per il congresso. ‘Elena, ma hai mangiato…?’, ha chiesto un’iscritta. Boschi ha rinnovato la tessera lasciando 100 euro, stessa somma lasciata da Renzi”.
30 aprile Una domenica. Boschi è segnalata in missione in un punto imprecisato del territorio toscano, ma riesce a raggiungere in tempo la sede del Nazareno a Roma per celebrare la riconquista della segreteria dem di Renzi.
21-24 luglio dal venerdì al lunedì, trattasi di missione – in ordine cronologico – a Milano, Firenze e Arezzo. Il 21 è con Giuliano Pisapia alla festa dell’Unità di Milano. “I cronisti urlano: ‘Avete fatto pace?’. E lei risponde: ‘Non abbiamo mai litigato’”. Poi la sottosegretaria scompare, per l’appunto, fra Firenze e Arezzo.
28 luglio Viaggio in Toscana. E nient’altro da aggiungere.
10-11 settembre Domenica e lunedì, Emilia Romagna. Il 10 la sottosegretaria è attesa alle feste dell’Unità di Modena e Reggio Emilia. Temporali ovunque, annullati gli eventi. Boschi resta in zona. Il giorno dopo, di sera, è nel cartellone della festa di Bologna. All’improvviso, però, rientra a Roma per motivi di governo.
14-17 settembre Tappa in Canada fra Toronto e Montréal. Visite di circostanza (con ingresso vietato ai giornalisti) con ambasciatori, banchieri e comunità italiana per legittimare – come ha scritto il Fatto in ottobre – la presenza al Global Progress, un seminario di matrice riformista, organizzato da numerosi centri studi, Canada 2020, Center for American Progress, Policy Network e Volta. Quest’ultimo è una prodotto renziano: il presidente è Giuliano da Empoli, ideologo di Matteo. La missione ha provocato lo sconcerto di Palazzo Chigi e negli ambienti diplomatici per una fattura non prevista, lasciata in sospeso dalla sottosegretaria, di oltre 1.000 euro per un servizio fotografico mai diffuso sui media. Il conto dal Canada: per la sottosegretaria, una collaboratrice e un consigliere, Palazzo Chigi ha speso 15.000 euro.
22-24 settembre Missione a Imola e Bologna. Il 22 la sottosegretaria è alla festa nazionale del partito a Imola, tavola rotonda con Maria Teresa Grieco (Enel) e Monica Maggioni (Rai) sul tema “Le donne fanno la differenza”: “Non so se avrei avuto lo stesso tipo di critiche se fossi stata un uomo”.
14-15 ottobre Sabato e domenica, missione (generica) in Toscana. Il sabato è al Teatro Eliseo di Roma per i dieci anni del Pd.
Il Fatto ha chiesto spiegazioni alla sottosegretaria sulle missioni appena illustrate. E ha ricevuto una doppia risposta. La prima era un tentativo di eliminare alcune trasferte, fra cui la più imbarazzante, quella a Madonna di Campiglio. Con una scusa: si tratta di “errore materiale”. Quando Boschi è in viaggio con un agente di sicurezza (forse l’autista), oltre alla scorta – sostenevano da Palazzo Chigi – si muove da privato cittadino. Peccato che anche il 6 febbraio, per esempio, Boschi fosse alla Normale di Pisa – dove subisce pure una contestazione dagli studenti – solo con l’agente e la scorta. Così ritirano la bugia e cambiano versione: non ci sono “errori materiali” nell’elenco sulle missioni della Boschi, scritto dagli uffici della Boschi e inviato dall’efficiente e trasparente Dipartimento del personale.
Ecco la replica definitiva: “Nelle date del 4-5 febbraio, 17-19 febbraio, 24-25 marzo, 28 luglio e 14-15 ottobre, la sottosegretaria ha effettuato spostamenti principalmente per motivi non istituzionali. La sottosegretaria potrebbe aver partecipato anche in queste date ad alcuni eventi istituzionali, ciononostante non ha presentato alcuna richiesta di rimborso. Nelle date del 30 aprile, 21-24 luglio, 10-11 settembre e 22-24 settembre, la sottosegretaria ha avuto incontri istituzionali, in particolare con autorità di governo locale, in ragione delle deleghe attribuite”. Chissà se fra le “deleghe attribuite” è inclusa quella di svolgere missioni di governo per questioni private e politiche.
Repubblica 22.12.17
La questione politica
Il conflitto di Grasso
di Nadia Urbinati
È una banalità dire che il conflitto di interessi è la perenne questione della politica. Di quella moderna in modo particolare, che proprio perché radicata nel riconoscimento del ruolo centrale della sfera privata ed economica, deve dotarsi di scudi protettivi — istituzionali e giuridici — per difendere l’uguaglianza di fronte alla legge e la libertà dei cittadini. Nell’efficacia di questi scudi protettivi, che la divisione dei poteri consacra, sta quel che si chiama il governo della legge. L’opposto, ci è stato insegnato dalla tradizione repubblicana, è il governo degli uomini ovvero, oggi si direbbe, dei gruppi sociali o politici o famigliari o economici. Anche il governo di una maggioranza eletta può tracimare in governo fazioso quando occupa lo Stato in maniera quasi proprietaria. Assistiamo in questi giorni al braccio di ferro tra la Ue e il governo polacco proprio sui limiti del potere della maggioranza. Il problema del governo degli uomini contro il governo della legge non è estraneo nemmeno a noi.
Il conflitto di interessi, nella forma prepotente di cui siamo spettatori in questi giorni, è il segno di una ferita che accompagna la storia del nostro Paese dalla fine dei partiti tradizionali. Dalla discesa in campo dell’imprenditore Silvio Berlusconi, che ha cambiato ben più del modo di fare politica, preferendo l’audience all’organizzazione partitica. Ha cambiato l’ethos della politica e dei politici. Dopo due decenni, tutti sembrano oggi più assuefatti alla commistione tra affari e affarucci privati e ruoli istituzionali. Ma dalle ragioni che hanno determinato la discesa in campo di Berlusconi — da Tangentopoli — abbiamo anche appreso che gli affari sono privati anche quando sono di partito. Agire nel nome del partito invece che nel nome degli interessi di famiglia non nobilita l’azione di interferenza del privato e non è giustificabile.
Ci troviamo oggi di fronte a entrambe queste forme di commistione. Sono due i casi che richiedono una riflessione critica e imparziale, che impongono di interrogarci sulla labilità della linea che separa la persona (i suoi interessi o le sue idee politiche) e il ruolo istituzionale che essa ricopre: quello che coinvolge Maria Elena Boschi, ora sottosegretaria alla presidenza del Consiglio dei ministri, e quello che coinvolge Pietro Grasso, presidente del Senato della Repubblica. Diversissimi tra loro circa il contenuto delle ragioni del conflitto, la loro posizione è tuttavia segno di quella irrisolta questione di cui si parlava sopra: del fatto che, in relazione allo Stato e alle sue istituzioni, il diretto impegno partigiano è una forma di ragione privata, certo diversa dal più inquietante scenario dell’uso del proprio ruolo di ministro per “ chiedere” ( che è già interferire proprio per l’autorità che il richiedente ricopre) ragguagli sulla banca della quale il proprio padre è dirigente. Due privati: uno relativo a un partito; uno relativo agli affari di famiglia.
In entrambi i casi, le massime istituzioni dello Stato (il governo e il Senato) sono rappresentate a livelli alti o massimi da persone che hanno interessi esterni al loro ruolo. Questo inficia gravemente il senso dell’autonomia delle istituzioni, una condizione fondamentale del governo della legge. La richiesta di dimissioni che Mario Calabresi rivolgeva a Boschi dovrebbe essere rivolta anche al presidente Grasso, che non può essere insieme il capo di una lista elettorale che parteciperà alla prossime consultazioni e il rappresentante della seconda carica dello Stato. Non è mai successo prima d’ora nel nostro paese. Perseverare nell’accettazione della commistione di livelli confliggenti comporta screditare il senso (anche simbolico) delle istituzioni. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte a posizioni impossibili da sostenere. E ferisce il nostro senso civico la caparbietà con la quale ciascuno resta al proprio posto. Non è giustificabile.
Repubblica 22.12.17
Sfratto e lista contestata
Il divorzio radicale tra stanze contese e debiti rinfacciati
di Gianluca Luzi
Scontro micidiale tra gli eredi di Marco Pannella. In nome della fedeltà al verbo e all’azione politica del fondatore, Rita Bernardini, storica leader radicale, ha sdegnosamente rifiutato l’offerta inviata via email di una candidatura nella lista +Europa con Emma Bonino. Come se non bastasse, contro i radicali dell’ex ministro degli Esteri.
Dichiara guerra anche Maurizio Turco che in qualità di “Presidente dell’Associazione politica nazionale lista Marco Pannella-Notizie radicali” ha letteralmente sfrattato Bonino e tutti coloro che hanno a che fare con la sua lista dagli storici locali di Largo Argentina 76 a Roma. Secondo Turco devono «senza indugio» sgombrare le tre stanze che occupano «senza alcun titolo» nella sede. E visto che ci sono devono anche ridare 30 mila Euro per l’occupazione di un magazzino più le spese di telefono e luce elettrica. Se poi volessero acquisire il dominio internet “radicali.it”, dovranno sborsare la bella cifra di 70 mila Euro.
Evidentemente in una parte della galassia radicale la lista di Emma Bonino è vista come una eresia. Basta leggere la lettera piena di sdegno di Rita Bernardini per rendersene conto. «Il fatto che mi proponiate una candidatura nella vostra lista mi porta a pensare che il mio comportamento politico non sia stato chiaro». Le ragioni del gran rifiuto, spiega Bernardini, affondano nel passato «quando le vostre strade sono confluite in un’unica strada contraria a quella percorsa da Marco Pannella». Da quel momento la frattura è insanabile: da una parte, scrive Bernardini, quelli che hanno «condiviso la strada di Pannella e la portano avanti oggi nel Partito radicale non violento, transnazionale.
transpartito» (la terminologia è importante nel mondo radicale); dall’altra i «più acerrimi boicottatori, con atti, comportamenti e omissioni del raggiungimento dei tremila iscritti nel 2017». Insomma per Bernardini i voti alla lista Bonino sono voti contro Pannella. Un’accusa sanguinosa, che equivale a una scomunica, ma altrettanto dura è l’accusa alla lista +Europa di voler stare nel campo del centrosinistra, definito niente di meno che «un regime a-democratico e antipopolare che ha ridotto il Paese sul lastrico». Non importa che il segretario dei Radicali italiani abbia detto che «non è affatto scontato che +Europa con Emma Bonino si allei con il Pd», per i pannelliani duri e puri sono dei rinnegati. Ma la Lista di Emma Bonino è lanciata.
Secondo il segretario radicale Magi «è l’unica vera novità» nel panorama politico e mira a superare il 3 per cento. Magi non ha detto però dove si candiderà la Bonino, «si deciderà nelle prossime settimane».
Il Fatto 22.12.17
Sostiene Gillo “Il Galateo? Non c’è più. Il cattivo gusto invece sì”
Classe 1910 – Angelo Gillo Dorfles ha compiuto 107 anni: è medico, pittore, pianista, scultore, poeta e professore
Pubblichiamo un estratto del libro “Il galateo del Terzo millennio” di Filiberto Passananti (Autore), Matteo Minà (Autore), G. Biscalchin (Illustratore) con l’intervista ad Angelo Dorfles.
Sull’estetica ha basato grandissima parte della sua vita. Ha portato in Italia un termine diametralmente opposto alla filosofia del Galateo: il kitsch. Angelo Dorfles, detto Gillo, è medico, pittore, pianista, scultore, poeta e professore. Ma soprattutto critico d’arte ed esteta, uno tra i più famosi e riconosciuti del Paese. Ha già superato i cento anni (è nato a Trieste il 12 aprile 1910), ma continua a essere impegnato con mostre, recensioni e libri. L’incontro nella sua casa di Milano, in un quartiere dove si respira l’aria della borghesia d’altri tempi, è un dialogo con un interlocutore vestito in maniera impeccabile, lucido, attento, curioso, cordiale e disponibile (…).
Professor Dorfles, le regole di rispetto per gli altri dettate dal Galateo sono valide ancora oggi?
Direi che oggi non c’è più legge che valga. Le regole sono cambiate, sia quelle ufficiali, che quelle a livello familiare. Il valore di quanto sancito diversi secoli fa è completamente finito. Naturalmente, ci sono delle nuove regole che si sono organizzate spontaneamente; sono queste che valgono. Il tutto a prescindere dalle regole religiose che dovrebbero essere valide oggi come ieri, ma anche in questo caso non sono più le stesse.
Ritiene utile che i ragazzi leggano l’opera di monsignor Giovanni Della Casa?
Credo che i giovani vadano istruiti su quella che deve essere oggi la prassi giusta e non quello che veniva insegnato nei secoli scorsi. Sono cambiati i mezzi, le strutture, quindi inutile rifarsi a ciò che valeva allora. Oggi è necessaria una nuova edizione di un libro che insegna a vivere.
Attualizzare e diffondere il Galateo quali effetti può avere sulla convivenza tra le persone?
Un’efficacia notevolissima, perché il giorno che nelle scuole venissero usate delle regole generali, formulate in una decina o ventina di capoversi, queste dovrebbero essere una specie di fiducia sul comportamento dei giovani. Poi, tutto dipende da dove vive e dove viene educato il ragazzo e da quale sia il suo ambiente familiare, il rapporto con lo Stato e la religione.
Quali sono le tre regole cui fare riferimento nell’attualizzazione del
Galateo?
Prima di tutto non ferire il prossimo con le proprie azioni e parole. Rispettare l’età sia del bambino che del vegliardo. Credere nell’amicizia effettiva.
L’empatia professata da monsignor Della Casa è uno strumento che le è tornato utile nelle sue esperienze di vita e di lavoro?
Una volta esisteva un Galateo non dico universale, ma diffuso, perlomeno in un certo ambiente. Oggi non c’è più una regola che valga per tutti. Ci sono i Galatei familiari, etnici, politici, che variano molto da Paese a Paese, da classe sociale a classe sociale. Personalmente l’Opera mi è servita in quanto nella mia famiglia c’era un Galateo specifico al quale io ero sottomesso. Ma aveva poco a che fare con un Galateo nazionale o religioso, era una forma familiare di comportamento.
L’amore per il denaro è chiaramente maleducato; il rispetto e la comprensione verso gli altri sono alla base dell’educazione, ma non producono miglioramenti economici nella vita della persona. È d’accordo?
Il rapporto con il prossimo dovrebbe sempre ubbidire a certe regole di vita che sono più o meno universali. Sicuramente il rispetto per gli altri è fondamentale (…).
Quali sono le situazioni in cui il Galateo e i suoi principi sono indispensabili?
Dovrebbe essere sempre necessario, sia salendo su un tram che prendendo un taxi. Nella vita comunitaria della città, il Galateo dovrebbe dominare le azioni di tutti gli individui (…).
Che cosa è oggi la buona educazione?
Non c’è più quella regola che poteva valere nell’Ottocento, per cui valgono le regole familiari. Questo per dire che dipende se il nucleo in esame appartiene alla buona borghesia, al popolo minuto o alla classe dirigente. La buona educazione è diversa per tutti, nel senso che il comportamento del giovane operaio non è quello del magistrato. Il classismo vale ancora anche se le classi non sono più quelle di una volta. Poi è anche vero che il rapporto tra un dirigente e un operaio non è più quello di ieri (…) la dignità dei lavoratori oggi viene riconosciuta più che in passato.
Perché oggi il Galateo, nell’immaginario collettivo, è soprattutto abbinato alla cucina e alla tavola?
Il gusto per il cibo è una delle più importanti sensibilità affettive. Nelle azioni fondamentali come mangiare valgono alcune regole non ufficiali, ma assodate dalla consuetudine. Anche nel modo di cibarsi esistono regole ufficialmente riconosciute. (…)
Della Casa dice di vestirsi in modo appropriato anche per portare rispetto alla collettività. Come fare per evitare abiti di cattivo gusto?
Oggi più che ieri la moda in senso lato esiste ed è riconosciuta, quindi per un incontro formale si utilizzeranno i calzoni lunghi e non corti perché questa è la regola di vita. Tutto dipende ancora una volta dalle regole che si sono auto istituite. Per evitare il cattivo gusto bisogna uniformarsi a quello che è il gusto generalizzato. Certo non sempre ciò che è standardizzato è la perfezione, comunque sarà più o meno tollerabile per il fatto stesso di essere applicato così vastamente.
Esiste un cattivo gusto nel design?
Naturalmente! Sono cinquant’anni che mi occupo di cattivo gusto, quindi evidentemente esiste (…).
La Stampa 22.12.17
Per metà degli italiani l’ex ministra dovrebbe ritirarsi dalla politica
Sei elettori dem su 10 la difendono
di Nicola Piepoli
Mercoledì in una seduta della Commissione banche Federico Ghizzoni, ex ad di Unicredit, ha fatto una dichiarazione riguardante la sottosegretaria Maria Elena Boschi, che è stata interpretata in diversa maniera dall’opinione pubblica. Ghizzoni ha dichiarato che l’allora ministra si era rivolta a lui per avere informazioni sull’andamento di Banca Etruria, dove era vicepresidente suo padre, per sapere come andava ma senza fare pressioni perché Unicredit acquisisse Banca Etruria.
Questa dichiarazione di Ghizzoni è stata considerata attendibile da 6 elettori del Pd su 10 (il 59%) mentre l’opinione pubblica nel suo complesso ha considerato la stessa dichiarazione poco o per nulla attendibile (52%). Perché coloro che tendono a votare Pd hanno interpretato come attendibile questa dichiarazione di Ghizzoni? E perché tutti gli altri si sono schierati dalla parte della dichiarazione «non attendibile»? Forse la soluzione si trova nella domanda successiva, in cui abbiamo chiesto cosa dovrebbe fare Boschi in funzione della testimonianza di Ghizzoni. La maggioranza degli elettori Pd (sei su dieci, vedi grafico a lato), deducono che Boschi dovrebbe continuare a fare politica mentre la totalità degli italiani pensa in maggioranza che dovrebbe ritirarsi.
Ovviamente ciascuno ha proiettato sé stesso, le proprie opinioni in un discorso che ha interessato tutti. Per coloro che sono simpatizzanti Pd a Boschi le porte del futuro rimangono aperte, per coloro che appartengono ad altre aree politiche o a nessun’area il suo avvenire in politica è decisamente incerto. In un certo senso le parole di Ghizzoni hanno agito come una cartina di tornasole: ciascuno ha voluto vedere nella dichiarazione dell’ad di Unicredit quello che pensa in prima persona sull’avvenire della sottosegretaria alla presidenza.
In generale, la Commissione banche trova l’approvazione del 51% degli italiani con conseguente approvazione del suo operato che ha portato anche alla luce il caso Boschi.
Guardando alle intenzioni di voto in questi giorni il mondo politico si è piuttosto semplificato. A distanza da poco più di due mesi dalle elezioni gli schieramenti si sono confermati tre: un primo schieramento formato dai tre partiti di centrodestra, cioè Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia, che insieme risultano essere vincenti, anche se di un solo punto percentuale; un secondo schieramento composto da un solo partito, il Movimento 5 Stelle, che risulta essere il primo in numero di voti ma non certo il primo in numero di seggi; e un terzo schieramento formato dai due partiti di centrosinistra e di sinistra, cioè Pd e Liberi e uguali, che superano di poco il 30% e che in ogni caso sono lontani dal poter aspirare a governare il Paese.
Corriere 22.12.17
Il personaggio L’attrice a teatro con un monologo di Franca Rame: «Testo che sarà sempre attuale»
Lodovini: calunnie, sono soltanto una perfezionista
«Rompiscatole? Non io»
Ho detto tanti no, c’è bisogno di etica anche sui set
di Valerio Cappelli
ROMA Valentina Lodovini cerca le parole, e quando le trova parla in maniera diretta, senza fronzoli. «Dopo Benvenuti al Sud non volevo diventare la reginetta della commedia italiana. Non ho l’ansia di fare tutti i film che escono. Ci ho pensato, ripensato. E ho detto tanti no. In solitudine. È importante avere un’etica e un’idea di quello che si vuole essere in questo lavoro». Ha appena fatto la giurata a Roma ai Fabrique du Cinéma Awards, per le opere innovative e sperimentali («non sono andata a giudicare con la bacchetta, porto tutto l’amore che ho per il cinema»); a teatro, diretta da Sandro Mabellini, riprende (dal 26 gennaio a Ventimiglia, poi in Emilia Romagna e a seguire nelle maggiori piazze, da Roma a Milano), Tutta casa, letto e chiesa, il celebre monologo (ebbe oltre tremila repliche) che Dario Fo scrisse nel 1977 per Franca Rame; nell’autunno 2018 la vedremo su Raiuno nella fiction di Marco Risi L’Aquila, grandi speranze , sul dopo terremoto. Manca il cinema. «Il cinema italiano va male, io come spettatrice sono cresciuta con Monicelli e Germi. Sono venute meno le idee e l’immaginazione».
Sentite cosa disse Franca Rame su questo spettacolo: «La donna deve trovare il rispetto di se stessa». «Sono anni — dice Valentina — che ci battiamo per i pari diritti con l’uomo, parità sociali, parità di sesso. Anche se c’è il contesto dell’epoca, è uno sguardo lucido, puro, sofferente sulla condizione femminile, che non è cambiata molto. È un testo che sarà sempre attuale, non c’è stato bisogno di adattamento. Il protagonista di questo spettacolo sulla donna è l’uomo, o meglio il suo sesso, che nel testo è sempre presente, incombe e schiaccia le donne». Sono tre monologhi (più un quarto tratto da Alice nel paese senza meraviglie ): una donna oppressa dal senso di colpa che è stata libera sessualmente «e ora deve scontare questa cosa»; un’operaia abbrutita dalla catena di montaggio che perde il contatto con la vita; poi c’è il discorso sulla maternità e gli aborti clandestini.
Lei non ha figli. «La società ti dice che una donna si realizza solo se diventa madre. Io a questa cosa non ci credo per niente. Non è mai stata una priorità, poi si può cambiare idea, ma non ho mai avuto questo tipo di desiderio. Mai avuto l’istinto materno. Magari preferirei l’affido o l’adozione, perché ci sono bambini che soffrono e anche solo per dare un tetto… Non ho mai subito pregiudizi, nessuno mi ha fatto sentire irrisolta o insoddisfatta. Non ho un approccio aggressivo per chi ha figli».
Franca Rame diceva che la peggior nemica della donna è la donna. «Può esserlo, ma è anche vero che il peggior nemico della donna è l’uomo». Weinstein e le molestie sessuali. «La mancata libertà ha provocato questa rabbia atavica delle donne, ma non c’è solo quello, è un problema culturale sulla violenza che riguarda uomini e donne, spesso dipende da come ti poni. Non esistono buoni e cattivi. Bisognerebbe parlarne nelle aule di tribunale, invece sono prevalsi il gossip e la morbosità. Io sono stata fortunata, nessuno mi ha mai mancato di rispetto».
In che fase è della sua carriera? «Lavoro da dieci anni. Ho deciso di affrontare le paure, tutto ciò che mi spaventa. A volte gli altri credono che il mio motore sia la rabbia, mentre è timore di deludere. Ho deciso di non essere più vittima del giudizio altrui. Sono stata ferita, c’è chi dice che sono una rompiballe mentre è solo passione e entusiasmo, voglia di aspirare all’eccellenza. È una voce, una calunnia che si è fatta via via sempre più grossa, non c’è stato un momento specifico. Mi hanno danneggiata, fatto un po’ di terra bruciata intorno. Io credo che il cinema sia un orologio, tutti gli ingranaggi devono funzionare. Sui set a volte mi dicono: non sei una difficile come mi aspettavo che fossi. Io mi metto in discussione, ci rido anche su, quando sbaglio chiedo scusa. Sono fortunata, faccio il lavoro che ho sempre sognato. La mia stanza quando ero piccola era tappezzata di fotine: Carole Lombard era il garbo e l’indipendenza, Anouk Aimée è la bellezza, Buster Keaton rappresentava la macchina da presa. E poi Marilyn, naturalmente».
Repubblica 22.12.17
Intervista
Agnes Heller
“Nazionalismi senza ideologie: l’Europa è di nuovo in pericolo”
di Andrea Tarquini
BERLINO «In Europa crescono nuove tendenze autoritarie, autoritarismi non ideologici come i vecchi totalitarismi ma pericolosi per la società liberale e per la pace». È l’allarme di Agnes Heller.
No polacco alle richieste Ue, modello di “iliberale” in Ungheria, destre e populisti in crescita quasi ovunque: quanto sono in pericolo società liberale e valori costitutivi europei?
«Dipende da quanto sapremo difendere anche a livello istituzionale i diritti di ogni minoranza, elemento centrale dello Stato di diritto. Ogni democrazia senza la difesa garantita delle minoranze può far nascere ovunque autocrati di ogni sorta. Leader semitirannici come Orbán, o Kaczynski che ha mantenuto la promessa di “portare Budapest a Varsavia”, cioè la “democrazia illiberale” teorizzata da Orbán, o persino qualche Mugabe».
Insisto: Polonia, Ungheria, leggi antigiustizia in Romania, destre più forti all’Ovest: perché cade il tabù dell’antifascismo?
«La questione non è solo fascismo o nazismo. Orbán parla di “democrazia illiberale” e ha lanciato un modello, vediamo al potere altri autocrati che costruiscono governance di fatto dittatoriali non fasciste né comuniste. Allora dobbiamo creare un nuovo concetto: trend tirannici senza supporto di ideologie strutturate. Rafforzati dal nazionalismo sempre più attraente perché invita a “pensare a noi e basta” e offre un nuovo senso di identità in una comunità. Il nazionalismo è sempre presente, ecco il problema. Non punta su ideologie, istiga presunti interessi personali».
Che ne sarà della Ue?
«I sondaggi nei paesi europei continuano a registrare in molti paesi maggioranze pro-Europa, anche in Gb ora il no alla Brexit è più forte. Ma i populisti seducono la gente con slogan e promesse, non con ideologie».
Perché ciò accade anche nell’Ovest che non è passato da 50 anni di dominio sovietico?
«Guardiamo all’Austria, esempio col passaporto agli altoatesini. In Austria tradizioni e correnti di destra estrema sono sempre rimaste molto forti.
Storicamente è stato un paese anche molto antisemita, più di Ungheria e Germania. Dopo il ‘45, è stata molto riluttante a riconoscere responsabilità e complicità coi crimini del nazismo. La Germania per tornare nel consesso dei popoli civili ha fatto i conti col passato, altri no».
Quanto sono pericolosi antisemitismo, razzismo, xenofobia, all’Est come all’Ovest?
«L’antisemitismo assume nuove forme. Colpa anche delle sinistre per i loro attacchi di odio a Israele. Non è antisemitismo sociale ma torna l’odio antisemita storico. Poi c’è la propaganda, come quella ungherese contro Soros. Nelle menti e in piazza vive un nuovo antisemitismo, ricordiamo anche la marcia di Varsavia. La xenofobia è purtroppo un sentimento irrazionale naturale incoraggiato da certe forze politiche».
L’Austria ha offerto il passaporto agli altoatesini: è revisionismo storico?
«Sarebbe ingiusto da parte di Vienna dare la cittadinanza agli altoatesini cui l’Italia concede pieni diritti e un’autonomia speciale sognata dalle altre minoranze in Europa. Le frontiere nate dopo due guerre mondiali non possono essere toccate. In quei confini c’è garanzia di pace dopo secoli di conflitti. Vienna dovrebbe saperlo».
Repubblica 22.12.17
Dopo la denuncia Ue
Polonia e Visegrad non cedono May offre una sponda anti Ue
La premier britannica a Varsavia si smarca dalla battaglia sui diritti. Con un occhio a Brexit
di Enrico Franceschini
LONDRA L’Unione europea accusa la Polonia di compromettere l’indipendenza della magistratura. Il Regno Unito difende il diritto della Polonia a farsi gli affari propri. E la Polonia appoggia la richiesta britannica di un accordo “ su misura” nei negoziati con la Ue. “ Tre indizi sono una prova”, avvertiva Agatha Christie: non c’è bisogno del suo ispettore Poirot per scoprire che la visita di ieri di Theresa May a Varsavia aveva come obiettivo la Brexit. All’indomani delle misure disciplinari annunciate dall’Unione contro la Polonia, la premier conservatrice arriva alla testa di una delegazione di profilo insolitamente alto, comprendente i ministri del Tesoro, della Difesa, degli Interni e degli Esteri. Offre al primo ministro polacco Mateusz Morawiecki un patto di cooperazione militare quasi senza eguali: Londra ne ha soltanto un altro analogo in tutta Europa, con la Francia. Dichiara che la priorità del suo viaggio era «assicurare il milione di polacchi residenti in Gran Bretagna » che potranno restare dove sono. E a proposito delle pesanti critiche dell’Unione al governo di Varsavia, taglia corto: «Le questioni costituzionali sono affari del paese competente, non della Ue».
Abbastanza regali di Natale da meritare qualcosa in cambio. Criticando il « pericoloso protezionismo » di Bruxelles, il suo interlocutore Morawiecki si schiera prontamente per il raggiungimento di «una nuova intesa che ci permetta di mantenere la più stretta cooperazione economica possibile con Londra». Linguaggio in codice per dire che Varsavia sostiene l’idea di un accordo economico post-Brexit fatto appositamente per la Gran Bretagna: non un patto “ modello Canada”, come per ora propone il capo- negoziatore europeo Michel Barnier, che lascerebbe fuori i servizi, il 70 per cento dell’economia britannica. La sprezzante reazione polacca ai moniti di Bruxelles, con il presidente Andrzej Duda che definisce l’Unione «bugiarda», non inquieta la leader conservatrice. A cui preme una cosa sola: trovare alleati in vista della seconda fase della trattativa sulla Brexit. Pazienza se lo stato di diritto l’hanno inventato i suoi antenati con la Magna Carta, ora la precedenza va a “divide et impera”, vecchia tattica che forse vedremo rivolta anche ad altri dei 27 della Ue. Come se non bastasse già lo scontro tra le capitali della Vecchia Europa con il gruppo di Visegrad ( Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e, appunto, Polonia) sui migranti. « Nella fase due del negoziato emergeranno interessi differenti nelle varie capitali », predice il ministro per la Brexit David Davis a un party natalizio per la stampa europea, pur negando di voler condurre «27 trattative separate». Le divisioni fra paesi disposti a concedere di più e altri meno possono fare il gioco di Londra.
La visita a Varsavia aveva anche un altro scopo per la premier britannica: fare dimenticare il licenziamento del suo vice-premier Damian Green, il secondo ministro perso in un mese per lo scandalo degli abusi sessuali. L’uscita di scena di Green, a lei legato dai tempi dell’università e uno dei più eurofili nel governo, indebolisce Theresa May, commenta l’Economist: senza maggioranza in parlamento, senza alleati nell’esecutivo, la attendono mesi difficili. Ma tre mesi fa pochi avrebbero scommesso di vederla ancora a Downing Street a Natale.
CZAREK SOKOLOWSKI/ AP
Repubblica 22.12.17
Le parole che usiamo per mettere a posto la coscienza
di Giancarlo Bosetti
Il cognitivista Albert Bandura analizza il disimpegno morale, il meccanismo che si adotta per commettere il male invocando attenuanti
C’è una ragione se il kantiano “legno storto” non si raddrizza. Siamo circondati dal risentimento verso politici corrotti e ce n’è ben qualche ragione. Ecco che i tribuni che invocano purezza ideale e morale guadagnano punti, ma trovano presto un limite alla loro espansione elettorale, perché l’idea di un “popolo” puro contrapposto a un manipolo di cattivi non sta in piedi, dal momento che la politica inquinata affonda le radici (e svolge la sua attività) in quel medesimo popolo, con scambio di favori, dati e ricevuti. Al raddrizzamento totale tocca rinunciare a causa della “natura della natura umana”; quella è cosa da lasciare a orrende dittature, sempre fallimentari, ma la conoscenza sottile della “stortura” mostra che migliorare è possibile.
Dopo la filosofia politica sul tema ha qualcosa da dire un grande psicologo contemporaneo, il canadese Albert Bandura, noto per la sua teoria sociale cognitiva (impariamo dall’ambiente sociale). Tutti noi siamo agenti esposti alla caduta morale, che è sempre dietro l’angolo e si camuffa con un insieme di eufemismi, di trucchi e marchingegni retorici con i quali nascondiamo a noi stessi il “peccato”, diciamo pure “il crimine” e addolciamo il senso di colpa favorendo l’“autoassoluzione”.
Bandura ha raccolto decenni di ricerche sperimentali e di analisi sul campo nel volume Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene (Erickson), non per scoraggiare le ambizioni di riforma, ma per attrezzarle con strumenti più astuti e realistici. L’autore utilizza il concetto di agency (qualche volta tradotto come “agentività”) per descrivere la autoefficacia di ogni individuo o gruppo umano: si tratta della capacità, maggiore o minore, di agire in modo da far fronte alle difficoltà, superarle e produrre trasformazioni nel contesto che ci circonda: far succedere cose e insieme controllare con l’autoriflessione un corso di atti che si mantenga dentro un profilo di decenza.
Generalmente le società funzionano attraverso questa diffusa forma di autocontrollo. Il che significa che per lo più non si ruba nei negozi, anche se non c’è la guardia, ma è anche vero che dei malfattori con forte agency possono produrre danni enormi.
Anche la carriera dei criminali incalliti non è però facilissima, devono guardarsi allo specchio e hanno bisogno di giustificarsi: il repertorio del “disimpegno morale” è vasto: minimizzare o negare il fatto, dare la colpa ad altri, invocare attenuanti, sostenere che le vittime della mala impresa se la sono cercata. È la progressione che vediamo in atto nel gruppo di ragazzi protagonista di persecuzioni bulliste, oppure del ciclista Armstrong che viene scoperto dopato.
Il disimpegno morale può trovare a sostegno ragioni sociali ed economiche, ma è ancora più forte se è Dio stesso a ordinare l’impresa. Bin Laden ha rivendicato la nobiltà del suo terrorismo, che era al servizio di un imperativo sacro e ha dunque esibito tutta la serie degli artifici dell’esonero da una crudele responsabilità personale: Allah in persona aveva deciso per lui; e poi lo schema del “confronto vantaggioso”: l’11 settembre era niente rispetto alle bombe atomiche americane sul Giappone e rispetto alle sofferenze dei bambini in Medio Oriente. Ma anche Yigal Amir, l’assassino di Rabin, il leader israeliano degli accordi di Oslo, aveva agito per ordine divino: non il mio dito, diceva, ma quello di una intera nazione ha premuto il grilletto.
C’è un modo di rifiutarsi all’evidenza che ricorre in tanti ambiti della vita delle nostre società e che spiega come riusciamo a sottrarci a interventi correttivi: vale per il mercato delle armi negli Stati Uniti dove un dibattito edulcorante trasforma mezzi d’assalto come quelli del massacro nello stadio di Las Vegas in “fucili sportivi” o dove i leader della lobby NRA identificano il diritto di possedere armi con la libertà di espressione, come se fosse la stessa cosa. E vale per il “modellamento aggressivo” indotto dall’industria dell’intrattenimento, dove ha trionfato a lungo il prototipo maschile del ceffo rude e rabbioso che glorifica la violenza accanto alla ragazza sexy che ostenta una servizievole sessualità, un tema sul quale Bandura ha condotto una personale battaglia così come già John Condry e Karl Popper negli anni Novanta. Anche in questo caso la reazione delle lobby al comando è stata negazionista e ha cercato di spostare le responsabilità, anche se alla fine qualche miglioramento è avvenuto, qui a differenza che nel mercato delle armi. Rivelatrici del disimpegno le battaglie sul fronte dei danni del tabacco e della connessione tra il fumo e il cancro e altre patologie mortali e in generale nel campo delle produzioni industriali dannose per la salute, dove vasti interessi proprietari e non solo si saldano nel respingere la responsabilità: le strategie di autoassoluzione cominciano con il rifiuto di prendere atto di informazioni probanti, poi minimizzando e negando del tutto l’evidenza.
Inganno o autoinganno? Anche i fumatori, le vittime, imbrogliano se stessi. L’autoinganno non è sempre consapevole. Chi l’ha studiato, come Jon Elster o Elisabetta Galeotti, spiega che è un fenomeno che ti aggira, non che sia proprio invisibile, ma con minimo sforzo riesci a non vederlo: la bugia è solo a metà, ma abbastanza per sospendere la responsabilità. E tuttavia la frontiera della tolleranza nel tempo si sposta: proibire il fumo negli aerei o nei locali pubblici, che pareva impresa visionaria negli anni Settanta, diventa poi senso comune.
Oggi l’arena principale dove si dispiega il disimpegno morale più pericoloso è quello della sostenibilità ambientale: qui Bandura vede gli ostacoli principali nel tabù della sovrappopolazione, nella concezione della crescita basata su un calcolo del Pil insensibile all’ambiente, negli eufemismi che parlano di “impronta del consumo” invece che di degrado, di “cambiamento climatico” invece che di “riscaldamento globale”. Strategie negazioniste, in contrasto con i rapporti dell’IPCC, ai limiti dell’autoinganno. E con il bambino bugiardo che crede, solo un po’, di dire la verità devi usare l’astuzia. Negli studi di Bandura si vede come risultati eccezionali ha raggiunto in India e in Africa la fiction, non il cinema, ma le serie televisive che producono un coinvolgimento emotivo di personaggi capaci di modellare comportamenti responsabili. Sarà un serial a salvare il pianeta?
Repubblica 22.12.17
Terapie celebri
Sacks, cinquant’anni passati sul lettino
di Vittorio Lingiardi
Il neurologo autore di bestseller come “Risvegli” fu paziente per mezzo secolo dello psicoanalista Leonard Shengold Lo racconta un saggio che uscirà negli Stati Uniti la prossima primavera
Quando, nel 1966, iniziò il suo percorso, era a pezzi, bloccato nella sua vita affettiva e sessuale, ipocondriaco e dipendente dalle anfetamine
Il problema della durata di un’analisi dipende da molti fattori: esigenze, storia, personalità, ma anche condizioni economiche di chi la fa
Quanto dovrebbe durare una terapia psicoanalitica?
Nessuno può dirlo, troppe variabili in gioco e ancora pochi studi empirici. Ma se cercate una risposta non prendete esempio da quella di Oliver Sacks. Che è durata cinquant’anni. Davvero, mezzo secolo! A New York, due volte alla settimana, con Leonard Shengold, psicoanalista freudiano specializzato in traumi infantili.
L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello era dedicato a lui, ma pochi avevano fatto caso alla dedica. Di Sacks credevo di conoscere tutto o quasi: le felci, i metalli, i risvegli – ma che avesse trascorso più di metà della vita in analisi, continuativamente e senza mai cambiare analista, proprio non lo sapevo. L’ho appreso leggendo il manoscritto di un bel libro che uscirà negli Stati Uniti nel maggio 2018. L’ha scritto Elliot Jurist, professore alla City University of New York (CUNY), e s’intitola Minding Emotions (Guilford Press).
Un titolo che potremmo tradurre con “Tenere in mente le emozioni”. Un capitolo intero è dedicato all’analisi di Sacks con Shengold. Il quale, per iniziare, era il 1966, gli pose alcune condizioni, tra cui l’interruzione dell’uso di anfetamine («Il consumo di droghe la colloca fuori dalla portata dell’analisi»).
A quel tempo Sacks era a pezzi: traumatizzato dal ricordo dei bombardamenti e delle punizioni corporali in collegio; angosciato dalla schizofrenia del fratello; ancora sanguinante per le parole della madre quando le confidò la sua omosessualità («Sei abominevole. Vorrei che non fossi mai nato»); bloccato nella vita affettiva e sessuale; ipocondriaco, fobico e dipendente, oltre che dalle anfetamine, anche dal body bulding. L’analisi inizia con un dialogo bellissimo: «Pensando a Michael, il mio fratello schizofrenico, chiesi a Shengold se anch’io lo fossi. “No” rispose lui. Allora, domandai, ero “solo nevrotico?”. “No” rispose.
Lasciai cadere lì la cosa, la lasciammo cadere entrambi, e là è rimasta per gli ultimi 49 anni».
Sacks è stato uno di quei tipici scienziati in analisi (ne conosco alcuni) che, pur non apprezzandone scientificamente l’impianto teorico, sono felici dei risultati che porta. Era la relazione a curarlo, e lo sapeva. Per tutta l’analisi i due hanno mantenuto un rapporto formale, chiamandosi sempre Dr. Sacks e Dr. Shengold.
Jurist racconta che, in una corrispondenza privata, Shengold gli ha confessato che la prima volta che lo chiamò Oliver fu il giorno prima che morisse. «Soprattutto, il dottor Shengold mi ha insegnato a prestare attenzione, ascoltare ciò che sta al di là della coscienza o delle parole».
È questa una delle chiavi di lettura che Jurist applica alla sua indagine, dove mette a confronto i due libri autobiografici, così diversi tra loro, scritti da Sacks.
Nel primo, Zio Tungsteno, dall’infanzia all’adolescenza, appare più coartato e incerto. In movimento, dall’età adulta a quella anziana, procede invece, come dice il titolo, più spedito, sincero e pieno di passione. Il passato non era più un ostacolo. Diventa una storia, un racconto che, se lo racconti a qualcuno, ti cura. In Zio Tungsteno si presenta come uno science nerd traumatizzato, in In movimento come un emigrante dall’anima avventurosa e ferita, amante delle motociclette, preso dal suo futuro di medico e scrittore, capace, verso la fine, di fare coming out e trovare un amore ricambiato.
«Nel bene e nel male», scrive, «io sono un narratore di storie. Ho il sospetto che un’inclinazione per la narrazione sia una disposizione umana universale, che va di pari passo con le nostre facoltà di linguaggio, con la coscienza di sé e con la memoria autobiografica». Ed è proprio questo tipo di memoria, su cui insiste spesso anche Damasio, l’espressione che per Jurist dà significato al lavoro analitico. Lo definirei un viaggio che, mostrandoci il passato, ci trasporta verso il futuro senza toglierci dal presente.
Dunque, quanto deve durare un’analisi? Esiste una sua conclusione “naturale”?
È vero che quella analitica è l’unica relazione intima che quando nasce contiene non già il seme della sua conclusione (questa è la vita), ma la scelta della sua fine?
Il problema della durata, dicevamo, dipende da molte variabili: le esigenze; la storia, la personalità (e le condizioni economiche!) del paziente; la prevalenza della dimensione terapeutica (sintomo e cura, ma anche tenuta nel tempo della “guarigione”) o di quella esistenziale (conoscersi, fidarsi, raccontarsi); lo stato della mente con cui analista e persona in analisi si mettono al lavoro.
E naturalmente la decisione condivisa di smettere di incontrarsi.
Al tempo di Freud le analisi erano brevissime, ma il tema s’impose presto. Tanto che Freud, ormai ottantenne, intitola Analisi terminabile e interminabile uno dei suoi lavori più profondi. Forse Sacks e Shengold ci avevano preso gusto, ma certi percorsi analitici, se vogliamo leggerli nel paesaggio, assomigliano più a una lunga traversata che a una svelta crociera.