martedì 19 dicembre 2017

Corriere 19.12.17
Il retroscena
L’incontro e gli ispettori
di Fiorenza Sarzanini


Mentre gli ispettori indagavano su Arezzo, l’allora ministro Maria Elena Boschi era a colloquio in Banca d’Italia.
ROMA Sono almeno due gli incontri che la ministra Maria Elena Boschi ha avuto con il vice direttore di Bankitalia Fabio Panetta. E uno è avvenuto mentre gli ispettori di Palazzo Koch indagavano sul dissesto di Banca Etruria. Una verifica che pochi giorni dopo — esattamente l’11 febbraio 2015 — avrebbe portato al commissariamento dell’istituto di credito aretino. Filtrano nuovi dettagli sui colloqui — finora inediti — dell’attuale sottosegretaria alla presidenza del Consiglio con interlocutori istituzionali. Ma oggi, durante l’audizione di fronte alla commissione parlamentare, dovrà essere il governatore Ignazio Visco a ricostruire esattamente che cosa accadde a partire dal febbraio 2014, subito dopo l’insediamento del governo guidato da Matteo Renzi. E non si esclude che possa essere accompagnato proprio da Panetta.
La «preoccupazione» per la fusione
Poco dopo essere stata nominata responsabile delle Riforme, la ministra si attiva e organizza — per sua stessa ammissione — «svariati incontri istituzionali». Uno proprio con Panetta. In quei primi mesi del 2014 sono in corso le trattative per la fusione di Etruria con Popolare di Vicenza. Ma Boschi è contraria, e chiaramente si attiva per scongiurare questa eventualità. Ne parla ad aprile con il presidente di Consob Giuseppe Vegas che invita a pranzo a Milano, grazie alla mediazione di Denis Verdini. Ma prima vede Panetta. Un faccia a faccia organizzato evidentemente a titolo personale, visto che non aveva alcuna delega da parte del governo e tenendo conto che suo padre era consigliere di amministrazione di Etruria ed entro qualche settimana sarebbe diventato vicepresidente.
Proprio in quei giorni ci fu una riunione tra i vertici di Etruria e quelli di Veneto Banca nella villa di Laterina dei Boschi, in provincia di Arezzo, e la ministra — come ha confermato di fronte alla commissione l’ex amministratore delegato di Veneto Banca Vincenzo Consoli — «rimase con noi per un quarto d’ora, ma senza dire nulla». Entrambi gli istituti erano stati infatti sollecitati ad aggregarsi con PopVicenza «e quindi volevamo sapere se anche gli amministratori di Etruria avevano intenzione di dimettersi come avevamo ipotizzato noi».
Gli ispettori e il commissariamento
In realtà l’ipotesi di un’aggregazione fu scongiurata, ma il dissesto patrimoniale di Etruria continuò in maniera irreversibile. Amministratori e manager furono sottoposti a ben tre ispezioni e sanzionati da Bankitalia proprio per non aver governato in maniera adeguata la banca. In particolare furono accusati di aver gestito il settore dei finanziamenti e delle consulenze agevolando gli amici e in alcuni casi agendo addirittura in conflitto di interessi, erogando fondi a società in cui avevano interessi o partecipazioni. L’inizio della fine comincia nel febbraio del 2015, poco dopo il decreto del governo che privatizza le Popolari. In quei giorni gli ispettori sono per la terza volta negli uffici di Etruria, acquisiscono la documentazione, esaminano i bilanci.
Proprio in quel periodo la ministra Boschi vede nuovamente Panetta. L’incontro, secondo alcune indiscrezioni, avviene negli uffici di via Nazionale. Neanche dieci giorni dopo Etruria sarà commissariata nella convinzione del vertice di Bankitalia che gli amministratori non siano in grado di governarla. Qual è stata la natura del colloquio? Vegas ha raccontato che Maria Elena Boschi gli aveva anticipato la nomina di suo padre a vicepresidente. Che cosa disse invece al vicedirettore di Palazzo Koch? sono gli interrogativi principali che oggi saranno rivolti a Visco.
Le richieste ai protagonisti chiave
Una lettera inviata tre giorni fa dalla Commissione al governatore lo avvisava dell’intenzione dei parlamentari — in particolare Andrea Augello di Idea — di conoscere «date e contenuti di tutti i colloqui avuti con i ministri». Appare scontato che Visco sia stato tenuto costantemente informato di quanto accadeva. Ma non è escluso che all’audizione possa partecipare Panetta, anche perché si tratta di una commissione d’inchiesta e dunque si potrebbe rendere indispensabile avere informazioni su quanto accaduto ascoltando direttamente la versione dei protagonisti.

Repubblica 19.12.17
Banche e politica
Padoan non aiuta Boschi l’ira dei renziani spiazzati
La linea del ministro in commissione scontenta i democratici. Bankitalia furente per la frase, poi corretta, sulle “inefficienze” della Vigilanza. E oggi tocca a Visco
di Tommaso Ciriaco


Roma Il pomeriggio è movimentato, come questa coda di legislatura. Matteo Renzi esige una precisazione da Pier Carlo Padoan: « Lo so che non voleva prendere le distanze, lo so che è amico di Maria Elena, lo so che lavora alla grande con lei. Ma così rischia di esporla agli attacchi strumentali di chi ci fa la guerra » . Il ministro dell’Economia resiste, resiste fino a sera. Gli ambasciatori renziani lo pressano. Qualcuno riferisce anche di una telefonata tra i due. Alla fine arriva una correzione di rotta, che rettifica fino a un certo punto. Perché una cosa è chiara, come spiega il ministro agli interlocutori dem: sul caso Boschi il responsabile dell’Economia non può farsi risucchiare dalla polemica politica. Certo, ammette, « potevo dirla meglio » . Ma la frase che ha permesso alle opposizioni di cavalcare ancora il pasticcio Etruria andava comunque pronunciata: «Io non ho autorizzato nessuno – la dichiarazione, testuale - e nessuno mi ha chiesto un’autorizzazione. La responsabilità del settore bancario è in capo al ministro delle Finanze che d’abitudine ne parla con il premier » .
È utile riavvolgere il nastro. Da qualche settimana, Renzi si sente al centro di una manovra a tenaglia. « Mi hanno lasciato solo – ha spiegato qualche giorno fa a un collega incrociato per caso – tutti mi fanno la guerra. Il palazzo si muove per ammazzare il Pd e il suo segretario » . E però la commissione banche, se non altro per le polemiche su Etruria che continua a rinnovare, sembra dare una mano a chi persegue questo obiettivo.
Quella di ieri doveva essere una giornata tranquilla, in attesa del gran finale dell’inchiesta parlamentare. Nessuno temeva sgambetti dal ministro dell’Economia. E invece, è bastata una dichiarazione. « Pier Carlo poteva spiegarsi meglio – sono i ragionamenti del segretario – per bilanciare quella frase e non farsi strumentalizzare » . Nessun dolo, la linea, ma comunque una grana.
Il responsabile dell’Economia, da tempo, ha rallentato la frequentazione con il Giglio magico. Agli amici spiega di non voler certo essere ricordato come « un renziano » , piuttosto come un tecnico prestato con profitto alla politica. E la politica ha le sue regole. La rettifica sollecitata da Renzi, però, arriva soltanto a sera, quando i fuochi d’artificio delle opposizioni risuonano da troppe ore. Molto più reattivo il ministro si mostra invece su Bankitalia, precisando le sue stesse parole - dopo una telefonata partita direttamente da Palazzo Koch - e spiegando di non aver nulla da imputare al governatore nell’azione di vigilanza. Nulla contro Visco, insomma, nulla da rimproverare al grande avversario di Renzi.
E si torna all’assedio. A quel fortino da cui l’ex premier guida la resistenza. E alla rabbia di Matteo Orfini che ogni giorno si sgola: «Attaccano la Boschi sul nulla, mentre nessuno si accorge che ogni giorno da tre mesi esce fuori un guaio combinato da Bankitalia » . Una fossato sempre più profondo tra il board renziano e il resto del mondo. Che il Pd sconta nei sondaggi. Forse per questo, il leader si terrà lontano per qualche giorno. Oggi, per dire, diserterà i tradizionali auguri di Sergio Mattarella alle cariche istituzionali, dopo aver « tempestivamente » comunicato la defezione al Colle perché impegnato « alcuni giorni fuori Roma » .
E Boschi, nell’ennesima giornata di passione? Siede accanto a Luciano Violante in un convegno alla Camera. Relazione sulla certezza del diritto. E ascolta l’intervento di Andrea Orlando, che ha invitato a una riflessione sull’opportunità di candidarla e ora denuncia l’aggressione dei tifosi renziani sui social. « Qua non si può più neanche alzare un sopracciglio… » .
Mancano quattro giorni ai titoli di coda in comissione. Oggi tocca a Visco, domani all’ex ad Unicredit Federico Ghizzoni. Se quest’ultimo smentirà la versione di Boschi, partirà la denuncia della sottosegretaria. È la trincea del Giglio magico. E finirà soltanto se l’ex ministra sceglierà il passo indietro. Il resto è già rincorsa elettorale, contro tutti. « Chi non ha spada – chiama tutti a raccolta Lorenzo Guerini, citando l’evangelista Luca - venda il mantello e ne compri una » .

Corriere 19.12.17
«Non ho autorizzato altri ministri a occuparsi di questioni bancarie»
Le parole di Padoan sui colloqui di Boschi e Delrio. M5S: a questo punto inutile ascoltare altri
di Andrea Ducci


ROMA La condotta di Maria Elena Boschi, durante la crisi di Banca Etruria, resta al centro dei lavori della commissione di inchiesta sul settore creditizio. Questa volta è il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, a fornire elementi per ricostruire dinamiche e modalità dei rapporti di governo nel corso della difficile stagione del sistema bancario.
In audizione Padoan ricorda a chi compete occuparsi di banche, e dunque anche dell’istituto aretino dove il padre della sottosegretaria Boschi era vice presidente. «Le discussioni sulle banche in difficoltà — indica il ministro — sono avvenute in modo continuativo tra il presidente del Consiglio e me», una specifica seguita dalla considerazione che «in altre, rare occasioni, sono state discusse in gruppi più ampi di governo». Il tema di chi parlava con chi, oltre che a quale titolo, del resto, è correlato al fatto se l’allora ministra Boschi abbia esercitato pressioni o operato in conflitto di interessi mentre incontrava banchieri e organi vigilanti (Consob e Bankitalia) per parlare di Banca Etruria. Padoan da parte sua osserva: «Io ho appreso di questi specifici incontri dalla stampa». Ma il ministro, sollecitato dai parlamentari, aggiunge, «non ho mai autorizzato nessuno a parlare con altri di questioni bancarie, né ho richiesto che persone o membri del governo che avessero contatti con il mondo bancario, venissero a riferire a me».
Boschi, insomma, ha operato in autonomia senza discuterne con Padoan (che, tra l’altro, ribadisce di non avere mai incontrato il padre dell’ex ministro), e lo stesso vale per il ministro dei Trasporti, Graziano Delrio, altro membro di governo ad essersi interessato di Banca Etruria, sondando le intenzioni di Banca Popolare dell’Emilia Romagna ad acquistare l’istituto aretino. Un quadro che spinge i parlamentari del M5S alla stoccata, «non serve nemmeno ascoltare Visco o Ghizzoni. Già il ministro Padoan — sottolineano — ha scaricato Maria Elena Boschi. Le dimissioni non sarebbero soltanto un atto dovuto, ma una forma di tutela della propria dignità». A picchiare è anche Renato Brunetta, vice presidente della commissione di inchiesta. «All’epoca in cui ero ministro (della P.a., ndr), non mi sarei mai permesso — osserva — di affrontare il tema bancario senza l’autorizzazione del ministro dell’Economia. Tremonti mi avrebbe impalato se avessi fatto una cosa del genere». La serie di attacchi è tale che dal ministero di via XX Settembre precisano: «La gestione delle crisi è stata effettuata dal ministero dell’Economia in stretto coordinamento con la presidenza del Consiglio e Bankitalia».
L’intervento di Padoan si sofferma anche sul crac di Veneto Banca e Popolare di Vicenza, dove secondo il ministro «ci possono essere stati ostacoli» alla vigilanza di Bankitalia. Nel caso di CariChieti, Banca Marche, Carife e Banca Etruria finite in risoluzione ricorda «non c’erano alternative» e che ai titolari di obbligazioni danneggiati verranno rimborsati circa 190 milioni di euro. Padoan rivendica, infine, la conferma di Ignazio Visco in Bankitalia come «un segnale di stabilità». E oggi in audizione è atteso proprio Visco .

il manifesto 19.12.17
Gelo Boschi-Orlando, Pd nel panico per l’ultimo show in commissione
Il clima interno si surriscalda. I fan renziani accusano il guardasigilli di «tradimento». Orfini: l’ex ministra e Renzi in commissione? Allora anche Draghi e tutti gli ex presidenti del consiglio
di Daniela Preziosi


Alle dieci di mattina il guardasigilli Orlando e la sottosegretaria Boschi si siedono allo stesso tavolo della Sala della Regina, a Montecitorio, dov’è in corso una conferenza sulla cooperazione tra le giurisdizioni superiori. I due non si salutano, non si guardano. Solo alla fine l’ex ministra, andando via, sfila davanti al collega e gli allunga una gelida stretta di mano. Orlando è fra i leader dem quello che si è esposto di più sul caso banche: la commissione è una delle «trappole» costruite dal gruppo dirigente Pd dove poi «siamo caduti dentro», ha detto nei giorni scorsi. Sul futuro di Maria Elena Boschi invece non è andato oltre un «credo che abbia i titoli per essere ricandidata e che questa vicenda non debba precluderlo» e «ognuno di noi deve valutare che contributo può dare alla campagna elettorale», dando voce ai dubbi che attraversano il partito dall’alto verso il basso e ritorno. Ma pubblicamente tutti fanno quadrato intorno alla sottosegretaria. E a Orlando tanto (poco) basta per essere accusato di alto tradimento «dai fan di Renzi», racconta lo stesso guardasigilli su facebook. Renzi, del resto, ieri dal Corriere con lui era stato severo: «Fossi Andrea mi preoccuperei di darci una mano, non di alimentare le polemiche».
CHE IERI OGGI E DOMANI, con le audizioni rispettivamente del ministro Padoan, del governatore di Bankitalia Visco e dell’ex ad di Unicredit Ghizzoni, sarebbero state tre giornate di fuoco per il Pd era largamente previsto al Nazareno. Ma le ripercussioni nel gruppo dirigente vanno oltre le aspettative. Il ministro Delrio, tirato in ballo da Padoan durante l’audizione (in realtà in risposta a una domanda del senatore Augello) si «contraria», e non poco. « Non ho autorizzato nessuno anche perché nessuno mi ha chiesto l’autorizzazione», (ad avere colloqui sul caso Etruria) dice Padoan. Suona come una presa di distanza da Boschi e Delrio, che invece di colloqui ne hanno avuti. Dal Nazareno si decide di non attaccare pubblicamente Padoan. Ma Matteo Orfini dice a Huffington post: «Ci mancherebbe che il ministero dell’Economia debba autorizzare i ministri a occuparsi delle crisi delle banche nei loro collegi di competenza: sarebbe una violazione delle regole stabilite in Costituzione».
MESSAGGIO CHIARO, PERFETTO interprete del giudizio del segretario. Alla fine il Mef è costretto a precisare: «Richieste di autorizzazione come quelle ipotizzate nel corso dell’audizione non sono plausibili e come ha risposto il ministro Padoan non sono state formulate». Nessuna presa di distanza, dunque, dai due ministri, ogni interpretazione di questo tipo è «strumentale».
Orfini per la verità va oltre e avverte che se M5S e Leu insistono a voler convocare Boschi in commissione, «allora si convochi anche Draghi», «E se si vuole ascoltare Renzi, allora bisognerà convocare tutti gli ex presidenti del consiglio». La prima ipotesi è sgraditissima al Colle, la seconda agli ex Pd: significherebbe mettere in mezzo Letta. Forse perfino D’Alema. Ma sono solo schermaglie: le audizioni sono chiuse, al Pd non resta che attrezzarsi a attaccare in quella di oggi (Visco), e difendersi in quella di domani (Ghizzoni). Sperando che alla fine dell’anno tutte le polemiche siano depotenziate. E che poi l’Epifania le porti via.
INTANTO AL NAZARENO si consuma una giornata di consultazioni sulla campagna elettorale. Le liste sono in alto mare, si lavora al delicato scacchiere tra uninominale e proporzionale. Per Renzi sempre più probabile la candidatura al senato a Firenze 1, dove spera nello scontro diretto con Matteo Salvini. Per Boschi c’è il collegio di Arezzo, qualsiasi passo indietro potrebbe sembrare un’ammissione di debolezza. Ma da lì, dove la crisi di Banca Etruria ha colpito forte, arrivano malumori e dubbi. Boschi non è gradita neanche nel ventilato collegio di Bolzano, dove la sola ipotesi di vederla catapultata in lista ha fatto partire una raccolta di firme contro.

Il Fatto 19.12.17
Ora la Commissione potrebbe sentire Maria Elena e Matteo su Etruria & Co.
Tempi stretti - Il calendario può riaprirsi, ma il Colle dovrebbe sciogliere le Camere il 28
Ora la Commissione potrebbe sentire Maria Elena e Matteo su Etruria & Co.
di Wanda Marra


L’ultimo atto della legislatura potrebbero essere le audizioni di Maria Elena Boschi, prima, e di Matteo Renzi, poi, davanti alla Commissione d’inchiesta sulle banche. Per adesso non sono in calendario. Ma il presidente, Pier Ferdinando Casini, potrebbe decidere di convocare un Ufficio di presidenza oggi, dopo l’audizione del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. Anche sull’onda di quanto emerso.
L’audizione della sottosegretaria viene considerata “inevitabile” dalle opposizioni, dopo le dichiarazioni del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan (che ha detto di non aver autorizzato altri ministri a occuparsi delle banche).
Quella dell’ex premier non l’ha ancora chiesta nessuno. Ma è pronto a farlo Giovanni Paglia (Sinistra Italiana). E consegue da quella di Boschi. Se lei da ministro in carica passava il suo tempo a occuparsi di banche, lo faceva di sua iniziativa? E se invece aveva la copertura di Palazzo Chigi, perché l’allora premier la mandava in giro senza informare il ministro competente? Queste le domande a cui dovrebbe rispondere Renzi. Fino a ieri al Nazareno si dicevano certi che Casini non avrebbe riaperto il calendario delle audizioni (che terminano domani con quella dell’ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni). Ma lo stesso ex premier potrebbe preferire di avere l’ultima parola. Ieri il Corriere della Sera anticipava una delle “rivelazioni” che Visco è pronto a fare: ovvero il fatto che Boschi vide anche Fabio Panetta, vicedirettore di Bankitalia. La Boschi ha giocato d’anticipo, ammettendolo in un’intervista al Messaggero. E ieri Marco Agnoletti, il portavoce del segretario dem, nella lettera al Fatto ha parlato di colloqui avuti con il presidente della Repubblica, il governatore di Bankitalia e il vicepresidente del Csm, che finora Renzi ha deciso di non rendere noti. Tutti pizzini, tutte possibili rivelazioni. Intanto, il presidente del Pd, Matteo Orfini, chiarisce che il Pd “non si opporrà” a riaprire il calendario delle audizioni”. Ma se si farà, prendendo in considerazione anche quelle su cui non c’è unanimità, “la nostra linea è vengano tutti”. Dunque, Mario Draghi, Luca Zaia, il vicepresidente di Veneto Banca, Franco Antiga. La legislatura, però, è praticamente finita: l’idea di Sergio Mattarella è sciogliere le Camere presumibilmente il 28, subito dopo la conferenza stampa di fine anno di Paolo Gentiloni. I tempi sono stretti.
Comunque vada al Nazareno gli umori sono sempre più tetri e la paura che Banca Etruria sia al centro della campagna elettorale è massima. Renzi continuerà a difendere la Boschi: pensa di non poter ormai fare diversamente. Ma dal Pd ieri nessuno spendeva una parola per la sottosegretaria. Gli organismi dirigenti del Pd si riuniranno a gennaio per decidere sulla candidatura di Maria Elena e sulle altre. Il segretario cerca di limitare le critiche trattando posti in lista. Ma sono giorni che tra i big della minoranza, ma anche della maggioranza, si fa strada l’ipotesi di chiedere al segretario di dimettersi prima delle elezioni.

Il Fatto 19.12.17
Anche Padoan scarica Boschi: “Mai saputo di incontri sulle banche”
L’audizione in commissione - Il ministro è reticente su tutto tranne che su una cosa: “La gestione della crisi bancaria era solo del Tesoro, non ho autorizzato altri”
di Giorgio Meletti


Per il Giglio Magico ogni giorno ha la sua pena. Ieri è toccato a Pier Carlo Padoan – il mai amato ministro dell’Economia imposto nel 2014 dal presidente Giorgio Napolitano al posto del super renziano Graziano Delrio – far crollare le quotazioni di Matteo Renzi e di Maria Elena Boschi. L’economista ex dalemiano ha detto alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche di aver saputo dai giornali della fitta rete di incontri della Boschi con i banchieri per occuparsi degli istituti in crisi, in particolare di Etruria. Per l’ex ministro delle Riforme e il suo capo è stato uno schiaffone doloroso. E per colpa loro.
I due si erano infatti gettati con entusiasmo, negli ultimi giorni, su una nuova linea difensiva: gli incontri c’erano, numerosi e normali, senza pressioni, e che male c’è? Nell’intervento pubblicato ieri dal Fatto a firma del portavoce del segretario Pd Matteo Agnoletti si leggeva che “molti membri del governo hanno lavorato gomito a gomito con i vertici di Banca d’Italia per risolvere varie crisi bancarie, “un lavoro istituzionalmente ineccepibile”. In un’intervista al Messaggero la stessa Boschi si è spinta oltre. Forse intuendo che la Banca d’Italia si preparava a rivelare i suoi incontri con il membro del direttorio di Palazzo Koch Fabio Panetta, ha giocato d’anticipo, confermando: “Sì certo. Come ho parlato con Panetta più volte delle crisi di altre banche. Non so dirle con quanti altri ministri Panetta abbia parlato oltre a me”. Segue annuncio di possibile diffusione di “un elenco dettagliato di tutto il mondo bancario che ho incontrato in quattro anni al governo”. Solo che Padoan non lo sapeva.
Renzi e Boschi non avevano forse messo in conto la gelida distanza di Padoan. Andrea Augello (Idea) è stato il primo a porgli il problema: “Queste ricognizioni di membri del governo che non avevano delega erano preannunciati, incoraggiati, autorizzati? Lei ha autorizzato questi ministri a sondare banche private sui guai di Banca Etruria? O lei non sapeva niente?”. Padoan scandisce: “Non ho autorizzato nessuno anche perché nessuno mi ha chiesto autorizzazione. La gestione della crisi bancaria è del ministro dell’Economia che d’abitudine ne parla molto spesso, nelle situazioni difficili, con il presidente del Consiglio”. Punto.
Carlo Sibilia (M5S) ripete la domanda: “Sappiamo che il sottosegretario Boschi ha incontrato moltissime persone. Lo faceva per suo conto o autorizzata da lei? A seguito di questi incontri le dava un rendiconto?”. Padoan sillaba come un sintetizzatore vocale: “Non ho mai autorizzato nessuno ad andare a parlare con altre persone in tema di questioni bancarie, né ho richiesto che chi aveva contatti tornasse a riferire a me. Ho appreso degli specifici incontri di cui si parla dai mezzi di stampa”. Si scatena quindi Renato Brunetta di Forza Italia che estende l’effetto della parole di Padoan a tutto il governo Renzi caduto dopo la sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016: “Dalle parole del ministro Padoan abbiamo appreso che ministri non competenti interloquivano con esponenti del mondo bancario e delle autorità di vigilanza, senza mandato e senza darne conto al ministero dell’Economia. Mi sembra un comportamento da dilettanti allo sbaraglio. Non sarà questa una delle ragioni del caos nella gestione della crisi bancaria?”.
La domanda di Brunetta trova risposta nella reticenza del ministro dell’Economia. Che solo in un momento, forse senza accorgersene, lascia partire un fendente in direzione della Banca d’Italia, come se ancora prendesse ordini da Matteo Renzi. Interrogato sulla recente conferma del governatore Ignazio Visco ha detto che “si è voluto dare un segnale di stabilità ai mercati, pur riconoscendo specifici casi in cui la vigilanza poteva fare meglio in un contesto di fragilità dell’economia e di cambiamento del sistema”. Visco si porta a casa una specie di 6 politico, e questa mattina dovrà spiegare nel corso della sua audizione se gli risultano questi “specifici casi” di errore.
Se un marziano avesse seguito l’audizione di Padoan si sarebbe chiesto perché è stata istituita una commissione d’inchiesta su una vicenda dove tutto, dice il protagonista ha funzionato al meglio. Alle ripetute, insistenti richieste di fare una minima autocritica per aiutare la commissione a capire che cosa non ha funzionato e quali correzioni normative sarebbero opportune, Padoan ha opposto il muro di gomma di parole generiche: “Autocritiche ne faccio quante ne volete. Lungi da me dal dire che è andato tutto bene, ma all’interno di questo quadro difficile e in movimento sono stati fatti tutti gli sforzi possibili per una soluzione che minimizza i costi gestione della crisi”.
Anche su vicende che lo chiamano direttamente in causa, come il siluramento (per ordine di Renzi) di Fabrizio Viola dal vertice del Monte dei Paschi per fare posto a Marco Morelli, già sanzionato da Banca d’Italia per la partecipazione a una delle operazioni all’origine del disastro senese, Padoan spende poche fredde parole: “Si trattava di avviare la gestione di un aumento di capitale di Mps. Il dottor Viola ne aveva già guidati due, si è ritenuto di dare un momento di discontinuità per dare slancio all’iniziativa e fu concordato con il dottor Viola un passo indietro”. Tutti sanno che non fu concordato un bel niente: il ministro telefona a Viola e gli dice che se ne deve andare, quello china la testa e obbedisce senza scandali, e il ministro dice di aver concordato. La strada della commissione banche è lastricata di queste ipocrisie.

La Stampa 19.12.17
I grillini e l’arte del possibile
di Marcello Sorgi


Non è il passato che non passa, ma che ritorna. Oltre a segnare una svolta del M5S dal percorso duro e puro seguito fin qui, e a dimostrare che anche Grillo e Casaleggio si muovono nella logica del proporzionale, stile Prima Repubblica, l’offerta di Di Maio di infrangere la severa regola del «no» a qualsiasi alleanza con i partiti tradizionali, per aprire a un eventuale governo di coalizione, con «Liberi e uguali» e se necessario con un Pd derenzizzato, ha uno storico precedente, che risale a trentacinque anni fa.
Nel novembre 1982, dopo la caduta del governo Spadolini a causa della famosa «lite delle comari» tra i ministri Formica e Andreatta, alle consultazioni che si aprirono per risolvere la crisi, il leader del Pci Berlinguer fu autore di una strana uscita. «Accetteremmo un governo diverso, che segnasse una discontinuità», disse, rivolgendo a De Mita la proposta di varare un governo Dc-Pri, senza i socialisti, e con l’appoggio esterno dei comunisti. I democristiani non potevano accettare di rompere la già compromessa collaborazione con il Psi, così non se ne fece niente e si andò alle elezioni anticipate. Ma il passaggio segnò egualmente una fibrillazione dei cristallizzati rapporti politici del tempo, e nella nuova legislatura, complice un forte calo elettorale dello Scudocrociato, i socialisti alzarono il prezzo e ottennero la presidenza del consiglio per Craxi.
Tra allora e oggi, va detto, tutto, o quasi tutto, è cambiato. E non c’è alcuna analogia tra un grande, tradizionale e novecentesco partito di massa come il Pci e un movimento imbevuto di logica antisistema come i 5 Stelle. E tuttavia il meccanismo dell’offerta di Di Maio è lo stesso. Il candidato premier pentastellato si smarca dalla rigida divisione di campo che lo ha tenuto fin qui dentro i confini del populismo nostrano, per proporsi come attore a tutto campo della partita politica che si aprirà dopo il voto di marzo, quando l’assenza di una maggioranza chiara uscita dalle urne (la nuova legge elettorale non è in grado di assicurarla) costringerà il Presidente della Repubblica a esercitare tutta la sua fantasia, per cercare di dare al Paese un governo pienamente legittimato.
Fino a ieri, prima dell’ultima mossa di Di Maio, lo scenario più probabile era uno solo: a meno di una chiara, quanto incerta, vittoria del centrodestra, l’unico sbocco sarebbe stato il ritorno a un esecutivo di larghe intese, come quello guidato da Enrico Letta, che inaugurò la legislatura che sta per chiudersi. Di Maio invece, con congruo anticipo in modo che anche gli elettori possano capirla e rifletterci su, ha messo in campo una seconda possibilità: un governo 5 Stelle-Liberi e uguali-Pd (ma senza Renzi, nell’ipotesi terremotato da una sconfitta non improbabile e convinto a farsi da parte), costruito in Parlamento su un programma condiviso.
Naturalmente non basta esprimere una disponibilità, e specie in campagna elettorale, come ormai siamo, è lecita qualsiasi domanda e qualsivoglia retropensiero. Viene da chiedersi, ad esempio, se Di Maio sarebbe disposto a rinunciare a guidare un siffatto governo, qualora i potenziali alleati lo richiedessero per riequilibrare la coalizione. E in questo caso chi potrebbe assumere il ruolo di presidente del Consiglio: lo stesso Gentiloni, o il veto espresso dal M5S nei confronti di Renzi dovrebbe intendersi automaticamente esteso all’attuale premier? O il presidente del Senato Grasso, leader di «LeU», neonata formazione di sinistra non programmaticamente ostile a Grillo, Casaleggio, Di Maio e al loro Movimento? E nel Pd - un Pd bastonato dai risultati, perché questo è il presupposto -, piuttosto che ritrovarsi all’opposizione, davvero potrebbe maturare il capovolgimento dell’attuale sfida anti-populista e anti-5 Stelle? Sono domande destinate in gran parte a restare senza risposta, almeno fino al voto.
Eppure la novità esiste, e sarà interessante capire in che modo l’accoglierà Mattarella, quando Di Maio, oggi stesso, andrà a spiegargliela. Per il momento non resta che prendere atto del cambiamento in corso: la logica binaria politica/antipolitica, populismo/antipopulismo, sinistra di governo/di opposizione, che aveva accompagnato il tramonto della Seconda Repubblica, è finita tutt’insieme. Le larghe intese, che di questa logica erano figlie, non sono più ineluttabili. È aperto il cantiere di un «governo diverso», e chissà che stavolta non vada come trentacinque anni fa. Nella stagione del ritorno al passato, chi ha più filo tesse, la politica è di nuovo l’arte del possibile.

La Stampa 19.12.17
Svolta a 5 Stelle per il governo
“Patto con il Pd senza Renzi”
I grillini pronti a trattare, come non fecero nel 2013 con Bersani
di Ilario Lombardo


A tre mesi dal voto, Luigi Di Maio fa i conti con la realtà: «Il nostro obiettivo è arrivare al 40% e governare da soli. Se no, ci assumeremo la responsabilità di governare. La sera del voto faremo un appello. Chi risponderà si siederà con noi per mettere in piedi le priorità di governo». Dal viaggio a Washington Di Maio martella sempre sullo stesso concetto: «Il M5S sarà garante della stabilità contro il caos». Un messaggio che ci tiene a far recapitare soprattutto al Quirinale. Nelle ultime 48 ore, per ben due volte, il leader del M5S si è spinto un passino oltre, perché ha capito che, pur nel più ottimistico degli scenari, è difficile che andrà oltre il 30%.
Il giovane candidato premier, però, vuole portare il M5S al governo, qualunque sia il partner. O quasi. Secondo una fonte molto accreditata vicina al leader grillino, gli unici veti sono nei confronti di Silvio Berlusconi e di Matteo Renzi. Ma Matteo Renzi non è tutto il Pd. E questo è il punto della svolta che non ti aspetti. «Se alle elezioni il Pd andrà male e Renzi verrà fatto fuori nella resa dei conti interna, noi saremmo pronti a sederci anche con il Pd e la sinistra». Nello staff di Di Maio è stato letto con molta attenzione un articolo della Stampa di venerdì scorso che raccontava dell’incubo di Berlusconi di vedere realizzarsi un’intesa post voto tra M5S e Pd. Il catenaccio recitava: «Renzi potrebbe lasciare se sconfitto e i dem aprire ai grillini». La fonte conferma: «Ma saremmo noi ad aprire ai dem senza Renzi». Del flirt con Piero Grasso si era già detto. Ma il ragionamento di una convergenza programmatica sarebbe adesso allargabile a tutta l’area della sinistra. Anche al Pd, seppur de-renzizzato.
Dal Quirinale filtra l’intenzione di Sergio Mattarella di assegnare il mandato a chi in un Parlamento balcanizzato garantirà una maggioranza di governo. Di Maio sta cercando di rassicurarlo. Oggi, il leader M5S salirà al Colle per gli auguri al capo dello Stato. Due mesi fa, a ottobre, incontrò il presidente per la prima volta da candidato premier. Fu allora che gli annunciò la svolta governista che tuttora, in colloqui riservati, il M5S assicura di voler mantenere. «Dopo il voto tutto cambierà e tutto sarà possibile» ripete Di Maio. Nel senso che le attuali rigidità da campagna elettorale verranno ammorbidite dalle capacità diplomatiche e negoziali che il leader del M5S sente di possedere. Il Pd, poi, porterebbe in dote un gran numero di deputati che andrebbero a sommarsi a quelli di Liberi e Uguali e a compensare l’eventuale magra rappresentanza parlamentare di Grasso. Certo, i grillini sanno che le nuove truppe saranno di nomina renziana, ma scommettono sul fatto che deputati e senatori potrebbero facilmente cambiare idea di fronte alla tagliola di nuove, immediate elezioni. Di fatto si realizzerebbe l’utopia di Pier Luigi Bersani che non a caso ha apertamente auspicato un accordo postumo con i 5 Stelle, in un patto che comprenda il Pd.
Il M5S ci starebbe ma a una condizione, allo stato quasi impossibile da accettare per i dem: che il governo, composto da tecnici di alto profilo, sia a guida Di Maio. Sarebbe comunque una riproposizione, con rapporti di forza opposti, di quanto avvenne dopo le elezioni del 2013, quando Bersani incaricato dal Colle tentò di persuadere il M5S a dare la fiducia al governo Pd. Oggi gli scenari più probabili, nefasti per il M5S, sono un governo Fi-Lega o Renzi-Berlusconi. Il terzo, in costruzione e ancora sottoposto a reciproche diffidenze, è l’asse M5S-sinistra-Pd (senza Renzi). Di Maio ci sta lavorando e lo prova anche l’appello lanciato ai dem a scaricare Maria Elena Boschi e Renzi dopo il caso Banca Etruria, perché, sostiene, «sulle macerie di Bancopoli sorgerà la Terza Repubblica».

La Stampa 19.12.17
I medici cattolici
“Il biotestamento è incostituzionale”
La lettera a Mattarella: non firmi la legge
di Maria Corbi


Il confine tra accanimento terapeutico ed eutanasia, è un confine sottile, fragile, che mette alla prova le coscienze cattoliche. E così quel mondo si mobilita contro il biotestamento e scrive una lettera- appello, al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sottoponendo «alla sua prudente valutazione l’ipotesi di rinviare il testo» sul biotestamento «alle Camere con messaggio motivato, convinti che tali norme confliggano con più disposizioni della Costituzione italiana».
A firmarla Mauro Ronco, presidente del Centro studi Livatino, Massimo Gandolfini, Presidente del Comitato Difendiamo i nostri Figli, monsignore Massimo Angelelli, responsabile Ufficio Pastorale Sanitaria della Cei, Padre Virginio Bebber, presidente dell’Associazione Religiosa Istituti Socio-Sanitari, Filippo Boscia, presidente dell’Associazione Italiana Medici Cattolici, Aldo Bova, presidente del Nazionale Forum Associazioni Sanitarie Cattoliche e Francesco Bellino, presidente della Società Italiana Bioetica e Comitati Etici. Nella lettera si segnala «il pregiudizio che l’applicazione delle Dat reca agli Istituti sanitari religiosi».
A preoccupare maggiormente l’assenza nel testo di una disciplina dell’obiezione di coscienza, «ovvero di una esenzione delle strutture sanitarie di ispirazione religiosa». Non è pensabile in caso di conflitti togliere «le convenzioni» agli enti ospedalieri d’ispirazione cattolica», scrivono i firmatari. La perdita dell’accreditamento avrebbe come effetto «di impedire tout court l’operatività di realtà come la Fondazione Policlinico A. Gemelli, l’Ospedale pediatrico Bambin Gesù, l’Ospedale Fatebenfratelli, l’Ospedale Cristo Re, il Campus Bio-Medico, l’Associazione la Nostra famiglia, la Fondazione Poliambulanza, la Fondazione Maugeri, la Casa di Sollievo della Sofferenza di S. Giovanni Rotondo, e le altre 100 strutture analoghe esistenti sul territorio nazionale».
I medici cattolici, oggi che la legge è stata approvata, devono comunque confrontarsi non più solo a livello filosofico sul tema del biotestamento. Dovranno prendere delle decisioni, seguire delle linee guida, rispondere alla propria coscienza ma anche alla legge. Il preside della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica (Policlinico Agostino Gemelli) Rocco Bellantone fa sapere che nei prossimi giorni si insedierà una commissione che dovrà verificare l’impatto della nuova legge sulla vita dell’ospedale. In particolare neurologi, rianimatori, esperti di bioetica dovranno indicare una strada, sicuramente molto stretta, ai medici. «Nella legge ci sono molti aspetti positivi, ma altri che ci lasciano perplessi», dice. «Nella vita di un ospedale la difficoltà maggiore sarà nei rapporti tra medico, paziente e famiglia». «Ma da buoni cittadini, continua Bellantone, dovremo trovare la migliore interpretazione possibile della legge rispetto alla nostra coscienza di cattolici». «Al Gemelli elaboreremo linee guida interne e precisi protocolli».
Il direttore Generale della Fondazione casa Sollievo della Sofferenza, Domenico Francesco Crupi auspica che «lo Stato nella sua dimensione etica tuteli i diritti e i doveri di tutti. Per le organizzazioni cattoliche credo che sia una violenza che debba essere respinta: quella cioè di andare contro il proprio credo, i propri valori e idee».
Mariella Enoc, presidente dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù precisa che questa legge non riguarda i bambini ma che comunque l’atteggiamento seguito è sempre stato e continuerà essere chiaro, in linea con le parole di papa Francesco: no all’eutanasia e no all’accanimento terapeutico».

il manifesto 19.12.17
Austria, l’ultradestra fa paura. Corteo contro il nuovo governo
Esecutivo Kurz-Strache . Dalla cittadinanza ai sudtirolesi alla stretta contro l’accoglienza. Il giuramento dei ministri scatena la piazza antirazzista. Per i rifugiati misure durissime
di Angela Mayr


VIENNA Sorridono contenti e gentili i nuovi ministri austriaci del governo nero-azzurro appena insediato, il loro programma di 183 pagine è il contrario, tutto improntato alla divisione della società in classi, gruppi etnici e religiosi.
Spicca l’intento dichiarato di conferire agli italiani di lingua tedesca dell’Alto Adige la cittadinanza austriaca, si creerebbe così una situazione di doppia cittadinanza, cosa che in Austria non è possibile avere, proprio per la contrarietà dei partiti che ora la reclamano per il Sudtirolo. Ancora ieri Werner Neubaur, responsabile del partito nazionalista Fpoe per i rapporti con l’Alto Adige, ha annunciato a Bolzano che i sudtirolesi potranno richiedere la cittadinanza austriaca già nel 2018. Così tra l’altro, secondo Neubauer, in futuro gli atleti sudtirolesi potranno gareggiare per la nazionale austriaca.
MENTRE IL GOVERNO di conservatori e ultradestra giurava, ieri un centinaio di sigle – Offensiva contro la destra, bikeblock critical mass, studenti universitari (oeh) e medi, Coordinamento per una politica d’asilo umana, il coordinamento sinistra radicale, il movimento antifa – fin dalle 8 del mattino si sono radunate in 9 punti diversi della città. Il pomeriggio è toccato al «blocco femminista», la sera a Salisburgo agli studenti universitari.
1.500 poliziotti mobilitati in tenuta antisommossa, traffico bloccato in gran parte della città. «No all’estrema destra al governo», Bella ciao cantata in coro e in italiano «allerta antifascista». Dalla Piazza dei diritti umani è partito lo spezzone più grande della manifestazione con gli studenti universitari della Oesterreichischen Hochschuelerschaft (Oeh). La Oeh, è un organo ufficiale della concertazione sociale che il nuovo governo vuole ridimensionare. «Cultura è resistenza» scandisce lo striscione degli studenti, rime contro l’estrema destra, contro il neoliberalismo, e contro l’introduzione di nuove tasse universitarie voluta dal nuovo governo. Nei cortei sfila una maggioranza arrabbiata di giovani e giovanissimi. Quando confluiscono in Piazza degli eroi vicino al Ballhausplatz sede del governo, zona rossa, i manifestanti sono circa diecimila. Boati e fischi in concomitanza esatta con il giuramento dei nuovi ministri.
PER QUANTO SIA GRAVE la questione doppia cittadinanza nel Sudtirolo è poca cosa se leggiamo il programma di governo per migranti e richiedenti asilo. In futuro chi chiederà asilo dovrà consegnare tutto il denaro contante di cui dispone. Verrà utilizzato per coprire i costi delle procedure d’asilo. In più i richiedenti devono mettere a disposizione delle autorità il proprio cellulare consegnando dati personali e account sui social media. I richiedenti non riceveranno più nessun contributo economico, neanche un pocket money, ma solo servizi. Peggioramento netto anche per i rifugiati riconosciuti che dovrebbero avere gli stessi diritti dei cittadini austriaci. Il programma nero azzurro prevede un taglio della mindestsicherung, il reddito di cittadinanza da 840 euro mensili a 365 più 155 di eventuale bonus di integrazione. In realtà la misura, di competenza regionale è già stata introdotta in Alta Austria dove i popolari governano con la Fpoe. Il tandem Kurz-Strache intende emanare una nuova legge per costringere regioni come Vienna che non discrimina i rifugiati ad adeguarsi. Ma non è tutto. I bambini dei richiedenti asilo non potranno più frequentare le classi regolari ma classi specifiche, cosiddette classi ponte da svolgersi nelle strutture di alloggio finché non hanno imparato il tedesco. Il miglior posto per impararlo e integrarsi si sa è la scuola regolare, ma è proprio l’integrazione che si vuole impedire criticano associazioni e politici di opposizione. Nelle scuole poi c’è sempre una forte opposizione e mobilitazione di studenti e insegnanti nel caso di espulsione di compagni di classe con le loro famiglie. Altra misura anti integrazione. I rifugiati minori non accompagnati non potranno più essere accolti presso famiglie e case private, perché le esperienze in corso funzionano troppo bene evidentemente, lo spirito dei nuovi governati è ogni pull factor, fattore di attrazione, va evitato.

Corriere 19.12.17
«Ho conosciuto sei Pontefici e ho avuto due fidanzate Noi monaci, esperti di ateismo»
dalla nostra inviata a Bose (Biella) Elvira Serra
Il padre della comunità di Bose: santo io? Non ho la tentazione

intervista con Enzo Bianchi

Ha sempre creduto ciecamente in Dio?
«Ciecamente mai. La fede è faticosa, è una lotta, come dice San Paolo, non è una pace. Nella fede si vivono tanti dubbi, poi l’amore per il Signore Gesù Cristo vince sul dubbio e si va avanti così. Ma si ricordi che il monaco è un esperto di ateismo».
Come è possibile?
«Il monaco sa che ogni uomo ha l’inferno dentro di sé, ha delle regioni non evangelizzate, degli abissi che deve esplorare. Gli atei sentono una vicinanza e una simpatia per i monaci per la ricerca solitaria profonda in cui a volte nell’oscurità si incontra la nientità, che è niente di niente: sa che vertigini può dare?».
Enzo Bianchi è un uomo piccolo e vero. Si definisce «terrigno», «terrestre». È veloce, nervoso, proteso all’essenziale. Ci incontriamo a Bose, nella comunità che ha fondato l’8 dicembre 1965 e che oggi conta 55 fratelli e 35 sorelle, comprese le «fraternità» di Assisi, Cellole, Civitella San Paolo e Ostuni. Parla chiaro, semplice. E si illumina di una gioia quasi infantile quando mostra sull’iPhone i frutti del suo orto: insalata canadese anche in inverno, peperoni piccoli e rossi d’estate e una pianta di pomodori cresciuta sul marciapiede di fronte alla sua «cella», tra le portulache.
Cominciamo dalle donne. Quali sono state più decisive per lei?
«Ho un debito enorme verso mia mamma, Angela. Ha fortemente voluto la mia nascita contro il parere di tutta la famiglia, perché era malata di cuore e asmatica e già non aveva portato a termine una prima gravidanza. Mio padre mi disse tante volte: “Tra te e lei preferivo lei”».
Un’immagine di sua madre.
«Davanti a un crocicchio, quando mi portava dai nonni a Montabone: con le sue braccia magrissime fragili mi spingeva verso la croce e mi diceva “abbraccia il Signore”. Era il suo affido estremo, avevo tre o quattro anni. Poi la ricordo seduta ai fornelli mentre cucinava, faticava a stare in piedi per la malattia: ci preparava patate fritte quasi tutte le sere. È morta il 17 settembre 1951, a 32 anni, quando io ne avevo otto. L’anno dopo al Galliera di Genova cominciarono a operare la stenosi mitralica, di cui soffriva».
Altre donne?
«Elvira, la maestra, che chiamavo Etta. E Norma, la postina, detta Coco perché usava la coccoina, la colla: chiedevo di andare da lei per attaccare i pezzi colorati. Tutte e due molto credenti, molto diverse, mi hanno mantenuto agli studi e mi hanno permesso di viaggiare».
Fidanzate?
«Sui vent’anni ho avuto due ragazze con cui c’è stato un rapporto di giovani innamorati. Si sono sposate, ci vediamo ancora quando vengono a trovarmi a Bose».
Nessuna, dopo, l’ha mai fatta vacillare nella scelta monastica?
«No, dopo che ho preso la decisione non ho mai più avuto tentazioni di lasciare il celibato».
Però in passato ha dichiarato di aver sentito la mancanza di un figlio.
«Sì, l’ho sentita qualche volta come una nostalgia impossibile».
Tornando indietro ne adotterebbe uno?
«No, nella vita monastica non si dà un legame di quel tipo. Per un figlio bisogna avere caratteristiche paterne e assicurargli una madre: non sarebbe nella mia storia e nella mia verità».
Le donne sono importanti a Bose?
«Siamo fin dall’inizio una comunità di uomini e donne, e questo si deve a Maritè, Maria Teresa, la prima sorella».
A gennaio avete scelto un priore maschio.
«È sempre possibile che in una prossima elezione venga eletta una donna: non c’è assolutamente impedimento. Le gerarchie restano parallele: il fratello priore non ha giurisdizione diretta sulle sorelle, che rispondono alla loro responsabile. Lo stesso varrebbe al contrario».
Dicono che le sorelle siano più sacrificate dei fratelli, a partire dall’abbigliamento.
«Questo non è vero. I lavori manuali sono condivisi e lo stesso gli impegni intellettuali. C’è magari chi è geloso e vorrebbe in altre comunità la libertà che c’è a Bose. Sull’abbigliamento, l’unica regola è vestire in modo semplice e con colori scuri, ognuno sceglie da solo».
Qual è la preghiera che le risuona di più?
«Signore Gesù Cristo abbi misericordia di me. Non ho tante cose da dire al Signore...».
Quale brano del Vangelo le piace di più?
«Quello che chiedo venga letto al mio funerale ed è il capitolo di Giovanni 21. Gesù chiede a Pietro: “Simone, mi ami più di tutte le tue cose?”. Attenzione, traducono “mi ami più di tutti gli altri”, ma sarebbe vergognoso se Gesù mettesse in concorrenza Pietro con gli altri discepoli. Qui ci sono due verbi, agapao , ti amo, e fileo , ti voglio bene. Pietro risponde sempre ti voglio bene, lo stesso farò io quando mi sarà chiesto conto».
Perché non «ti amo»?
«Perché noi non conosciamo l’amore fino in fondo, a Gesù possiamo dire solo: cerco di volerti bene. Pietro sapeva di avere rinnegato Gesù tre volte, e io come posso dire di non averlo mai rinnegato?».
Quando?
«Gesù dice: avevo fame e non mi avete dato da mangiare; avevo sete e non mi avete dato da bere; ero malato e non mi siete venuti a trovare. Questi sono i peccati di omissione e io non posso dire di non averli fatti. Sono quelli che mi bruciano di più la lingua quando annuncio il Vangelo, perché dico agli altri quello che nella vita non sempre sono riuscito a fare».
Ha detto che siamo più propensi a dare 50 euro ai terremotati che a spenderne 10 per ospitarli in casa. Voi a Bose li avete ospitati?
«Terremotati no, ma da anni ospitiamo alcuni migranti. Di certo non inviamo sms con 1 o 5 euro, ma finanziamo progetti in Africa e borse di studio in Medio Oriente. Resto convinto che il giorno in cui la Chiesa ha organizzato la carità, a partire dal IV secolo, il precetto dell’amore del prossimo si è indebolito. Di recente ho scritto che i parroci non dovrebbero più organizzare cene per i poveri a Natale, ma chiedere a ogni famiglia di chiamarne uno alla propria tavola. Mio padre, socialista, non credente, non ha mai fatto la carità a un povero sulla porta, lo ha sempre fatto sedere alla nostra tavola, pure se era cencioso, puzzolente e scalzo».
Dove vorrebbe essere sepolto?
«In un luogo discreto senza che ci sia troppa memoria di me. In realtà da vent’anni c’è un accordo con il Cimitero dei servi di Maria a Monte Senario, vicino a Firenze. Ma oggi ho più dubbi, desidero un posto più semplice e comune».
Ha scritto decine di libri. Uno su tutti?
«Due. Pregare la parola , del ‘71: ha fatto scoprire la lectio divina . E Il pane di ieri , un libro di sapienza umana, pubblicato nel 2008».
Ora a cosa sta lavorando?
«A un testo sulla vecchiaia, che uscirà in primavera con il Mulino, dove annoto ciò che mi sembra necessario per viverla con gioia».
Quali segnali osserva su di sé?
«Tanti. Il primo è l’udito: tre anni fa al mare i miei amici mi parlavano e siccome non capivo mi dicevano: ma stai diventando sordo? L’altro è la vista: da due mesi porto sempre gli occhiali, prima solo per guidare. E poi un’altra cosa: nella mia cella per andare a letto devo fare le scale; l’anno scorso ho fatto mettere dei corrimani...».
Qual è il regalo materiale a cui tiene di più?
«Mi regalano prodotti da mangiare, che condivido con gli altri. Oppure rose».
Rose?
«Sì, bianche o rosse sono quelle che preferisco, non amo tanto le rose pallide».
Ha conosciuto sei papi. Che ricordo ne ha?
«Pio XII è stato il papa dell’ammirazione di un ragazzo: a 9 anni sono stato da lui e gli ho portato una damigianina di vino del Monferrato, ero stato premiato per la conoscenza del Vangelo con altri bambini di ogni regione».
Papa Giovanni?
«Grazie a lui e al Concilio esiste Bose».
Paolo VI.
«L’ho amato per la finezza spirituale, la cultura, la capacità di sentire la modernità e anche la sua sofferenza».
Giovanni Paolo I.
«È stato una meteora, nulla da dire».
Giovanni Paolo II.
«Da un lato lo amavo per le aperture all’umanità e alle religioni, dall’altro mi sembra che qualche volta avesse una interpretazione restrittiva del Concilio Vaticano II».
Benedetto XVI.
«Per me un grande teologo e un caro amico che conosco dal 1976. Mi ha nominato esperto a due sinodi: è stato un gesto di elezione e fiducia verso di me di cui gli sarò sempre grato».
E ora Papa Francesco.
«Mi sembra che abbia portato nella Chiesa una primavera, un’apertura, un clima di libertà e un’attenzione ai poveri di cui mi rallegro».
Quand’è San Enzo?
«Non c’è. Mia madre mi ha battezzato Giovanni; mio padre che non voleva il nome di un santo mi ha registrato in Comune come Enzo».
Si candida a diventare lei il primo santo?
«Non solo non succederà, ma non ne ho nessun desiderio. Resto critico sui criteri con cui si fanno i santi, sovente per contingenze storiche: non sempre vedo ragioni di esemplarità».
Ma la sua vita è esemplare!
«No, davvero. E non glielo dico per umiltà, io sono una persona molto terra terra, tentazioni verso l’alto non le ho mai avute».

Repubblica 19.12.17
Riscoperte
Leningrado musica dall’assedio
Le lettere di Dimitrij Šostakovi? e un saggio raccontano il retroscena (e la guerra) che fu all’origine della leggendaria “Settima sinfonia”
di Pietro Citati


Le lettere di Dimitrij Šostakovi? e un saggio raccontano il retroscena (e la guerra) che fu all’origine della leggendaria “ Settima sinfonia”
Stalin aveva una grande passione per la musica: una bella voce tenorile: ascoltava la musica alla radio: vedeva i vecchi e nuovi balletti; comprava i nuovi dischi, come Laurentij Berija, il futuro capo della polizia – visto che, in Urss, i criminali veneravano la musica. Nel marzo 1938, proprio negli anni più terribili del terrore, Stalin proclamò: «Negli ultimi anni in Russia la vita è diventata molto migliore». Non amava Leningrado: nella quale scorgeva l’incarnazione di tutto ciò che detestava; la cultura, la vita, la libera discussione, l’eleganza degli edifici, i colori verde e rosa, l’antico profumo aristocratico. Egli veniva glorificato: il romanziere Alexandr Fadeev disse che era «il più grande talento che il mondo avesse mai visto». Cacciò da Leningrado i collezionisti di francobolli, gli orientalisti, gli esperti di religione buddistica, gli astronomi, gli architetti.
Processò gli avversari, costringendoli a confessare colpe mai commesse. Quando il piano quinquennale fallì, accusò gli ingegneri di aver distrutto le macchine industriali e li fece fucilare. Nell’Urss esistevano due sole parole: tradimento, fucilazione. Tra gli uomini politici, Stalin stimava soltanto Hitler, mentre disprezzava Churchill e Roosevelt, “volgarissimi democratici”. A fine agosto 1939 negoziò con Hitler un patto, in seguito al quale la Germania e l’Urss si divisero la Polonia. Aveva una fiducia completa in lui. Nel 1941 venne ripetutamente avvisato dalle spie sovietiche che la Germania avrebbe assalito la Russia: conosceva persino la data precisa. Ma non credette a quelle che chiamava “provocazioni”; e nemmeno alle notizie dei suoi aerei. Insisté: “siete impazziti”. Mandò in Germania un treno carico di burro, il giorno prima dell’assalto tedesco, il 22 giugno 1941.
I generali russi attesero invano gli ordini di Stalin: fino a quando Molotov annunciò alla radio che l’aviazione sovietica aveva già perduto milleduecento aerei, senza opporre resistenza. Hitler ordinò la distruzione di Leningrado e di Mosca: «propongo di sradicarle dalla faccia della terra». Faceva mitragliare i treni passeggeri: bombardare Leningrado, e le persone isolate che percorrevano le strade.
L’operazione nazista si chiamava Nordlicht, “luce del nord”. Ma la risposta di Stalin fu la solita. Sebbene l’Armata rossa dovesse difendere la Russia, fece arrestare dalla polizia politica e fucilare molti generali, specie quelli che avevano combattuto nella guerra civile di Spagna.
Come disse Anna Achmatova, Leningrado «era appesa, come inutile appendice, alle sue prigioni». I tedeschi arrivarono alle porte della città, sia a meridione sia a settentrione, vicino al lago Ladoga, fin dove giungevano i tram: in città vennero esauriti i generi alimentari; le razioni si ridussero a quasi niente. C’era una fame terribile: una madre soffocò la figlia più piccola, di sei settimane, per nutrire gli altri bambini. Non c’era elettricità, né acqua né carbone: chi veniva colto a rubare era fucilato: per le strade giravano persone esauste, con la faccia pallidissima: molti bambini morirono in silenzio, senza un nome e senza far sentire la propria voce: alcuni medici vennero fucilati come disfattisti; molti cadaveri furono lasciati nel posto dove erano morti, abbandonati per le strade.
Come raccontano due bellissimi libri, Sinfonia di Leningrado di Brian Moynahan (traduzione di Claudia Manciocco, Il Saggiatore Editore, pagg. 546, euro 29) e Trascrivere la vita intera di Dimitrij Šostakovi? ( Lettere 1923- 75, a cura di Elizabeth Wilson, Enzo Restagno e Laura Dusio, Il Saggiatore, pagg. 510, euro 28), qualcuno viveva nella fame e nella disperazione. Gli abitanti di Leningrado amavano la musica. I teatri continuavano, sotto i bombardamenti, a mettere in scena opere liriche, balletti, sinfonie, operette.
La gente non aveva vestiti, tanto meno lo smoking: tutti i biglietti erano esauriti, già alla mattina presto; le mani dei musicisti erano gelide e non riuscivano ad afferrare gli strumenti. Ma gli abitanti di Leningrado si accalcavano nei teatri, con i visi affamati e i vecchi vestiti. Non c’era altro modo per dimenticare la guerra, la fame, la disperazione, entrando in un mondo di armonia.
Šostakovi? era «un uomo pallido e molto magro, con i capelli color ebano». Aveva una buona cultura letteraria: amava Le anime morte che pensò di trasformare in musica, e il teatro e i racconti di ?echov, specialmente Il monaco nero, che gli faceva un’impressione profondissima ogni volta che lo rileggeva. Possedeva un grande talento musicale: una felicità rara, nella quale spesso vedeva un pericolo. Scrisse musica per il cinema e per i balletti; e quando cominciò la Settima sinfonia nel luglio 1941, a Leningrado assediata, aveva già una vasta produzione alle spalle, tra cui Una Lady Macbeth del Distretto di M?ensk che ebbe molto successo in tutto il mondo.
Amava Lenin (più del giusto): «sono molto preso dall’idea di comporre un brano dedicato all’immortale personaggio di Lenin».
Dal principio alla fine della vita venne accusato, dalle autorità culturali sovietiche, di “formalismo piccolo-borghese”, e di “occidentalismo”: i seguaci di Ždanov lo assalirono. Nel 1937 fu accusato dalla polizia di aver preso parte a un complotto contro Stalin: ma l’accusatore venne fucilato (tale era la rapidità delle fucilazioni in Unione Sovietica) prima di poterlo accusare formalmente.
Detestava Mosca e le sue «vie tortuose e soffocanti, che esercitano un influsso negativo su di me». Amava moltissimo Leningrado, Puškin e Dostoevskij. Accettò presto di diventare un “artista sovietico”.
Non fu mai coraggioso: si piegò ai tempi con indolenza, passività e pigrizia; e giunse ad esaltare Stalin e persino Berija.
Scrisse parole vergognose: «Torneremo a vivere una vita pacifica, sotto il sole di Stalin».
Chiese a Berija di intervenire presso Stalin per fargli concedere un appartamento in affitto a Mosca; ed esaltò la “splendida” condizione di vita che gli ebrei avevano in Russia.
Ricevette il premio Stalin, l’ordine di Lenin: il premio Lenin, che concedeva molti privilegi. Quando Stalin gli telefonò, come al solito di notte, lui lo pregò di accettare la sua gratitudine profondissima. Fu conformista, servile, quando avrebbe potuto essere, senza pericolo, decente e decoroso. Si piegò anche dopo la morte di Stalin e di Berija, condividendo il giudizio negativo della Pravda su Stravinskij e Sch?nberg.
Non pensò mai di opporsi al regime, anche se molti lo fecero nel silenzio e nella solitudine.
Šostakovi? cominciò a comporre la Settima sinfonia – non so se la più bella, certo la più celebrata delle sue opere – a Leningrado durante l’assedio, il 19 luglio 1941, mentre i tedeschi avevano conquistato l’ultima striscia di terra che portava alla città.
Andava per le strade, sotto le bombe. Voleva che la Settima sinfonia, concepita sotto i raid aerei, venisse eseguita per la prima volta «nella mia amata città, che ne aveva ispirato la creazione».
Ma fu molto difficile trovare i musicisti: la Settima era un’opera colossale: duecentocinquanta pagine di partitura, un’orchestra di centocinque persone; non c’erano i flauti e gli oboi.
Infine la Settima sinfonia fu eseguita a Leningrado, nel tardo pomeriggio del 9 agosto 1942.
Il direttore d’orchestra giunse in ritardo alle prove, perché aveva dovuto seppellire la moglie, morta di fame. I volti dei musicisti erano irriconoscibili: fissi come icone. I soldati tedeschi erano vicinissimi, a poche centinaia di metri, ed ascoltarono attentamente la bellissima musica composta contro di loro.