lunedì 18 dicembre 2017

La Stampa 18.12.17
Cattolici in rivolta contro il biotestamento. Nosiglia, arcivescovo di Torino, appoggia la ribellione dell’Ospedale Cottolengo e chiede l’obiezione di coscienza, mentre l’arcivescovo di Trieste Crepaldi invita a battersi di più contro la legge. Dura la reazione della senatrice democratica De Biasi, presidente della commissione Sanità, nonché madrina del testo: «Nessuno può decidere la serrata di una clinica, il rifiuto dei soccorsi a chi ha registrato le sue Dat sarà considerato un reato».
L’arcivescovo di Torino: “Mai nei nostri ospedali”. La Regione: “Legge da rispettare” Dura reazione della senatrice Pd madrina del testo: “Il rifiuto sarà considerato un reato”
di F. Grignetti - A. Mondo


Per il momento sono voci isolate, ma avvisaglie di una possibile rivolta. L’arcivescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi, sferza il mondo cattolico perché non si è battuto abbastanza contro il biotestamento. E l’arcivescono di Torino, Cesare Nosiglia, a sua volta, appoggia la ribellione del Cottolengo. E l’associazione “Aris Piemonte” che rappresenta i 14 presidi sanitari accreditati e privati del sistema sanitario, si schiera con l’arcivescovo. José Parrella, il presidente, è pronto a una battaglia: «Ci assumeremo tutte le nostre responsabilità e dovremo tutelarci sotto il profilo giuridico». Il caso intanto è all'attenzione del ministero della Salute e non è escluso che oggi ci sia una presa di posizione del ministro Beatrice Lorenzin.
Il senatore Carlo Giovanardi, Idea, che quel mondo lo conosce bene e che in Parlamento s’è opposto allo spasimo contro la legge, si aspetta una larga sollevazione. «Avverto - dice - il disagio fortissimo dei medici cattolici a cui non è stato concessa l’obiezione di coscienza e degli istituti religiosi, specie quelli che accolgono bambini e minori disagiati. Io non condivido nulla di questa legge. Ma se è chiaro almeno il meccanismo di un maggiorenne che lascia le sue disposizioni testamentarie, qualcuno mi deve spiegare che si fa con un bambino, magari uno di quelli assistiti dalla Lega del Filo d’Oro, che non parlano, non vedono e non sentono. Oppure quei bambini che sono inconsapevoli fin dalla nascita e sono accuditi al Cottolengo o istituti simili».
Una prima risposta viene dall’assessore alla Sanità del Piemonte, Antonio Saitta, cattolico di lungo corso: «Certe uscite mi sembrano la coda di un confronto etico importante, ma il dibattito è finito. In democrazia prevale la legge e questa è una legge dello Stato». Quanto al provvedimento, «è un punto di incontro ragionevole, equilibrato, sofferto, tra umanesimo cristiano e umanesimo laico, su un tema difficile come la vita, la dignità della vita, la sofferenza e il dolore».
Ecco perchè «l’applicazione del provvedimento riguarderà anche le strutture accreditate e private del sistema sanitario». Altrimenti? «Preferirei evitare forzature». Intanto interviene il presidente dell’Ordine dei medici di Torino Guido Giustetto: «La legge è molto equilibrata». E invece è molto duro Silvio Viale, medico e radicale: «Se il Cottolengo di Torino si pone fuori dal servizio sanitario nazionale, la Regione deve revocare tutte le convenzioni».
La senatrice Emilia De Biasi, presidente della commissione Sanità, nonché madrina della legge, a sua volta è indignata. «Se ci sono problemi del genere, che facciano ricorso alla Corte costituzionale. Ma il biotestamento ora è legge dello Stato e tutti sono tenuti ad osservarla. Non possono mica decidere da soli, un vescovo qui e uno lì, la serrata di una clinica. Mi sembra un intervento a gamba tesa contro una legge sostanzialmente mite e liberale. Non si obbliga nessuno; si dà una possibilità in più. E poi, chiedo, che cosa vuol dire questa serrata? Ci sarà una clinica che rifiuterà di dare soccorso a un traumatizzato grave per incidente stradale perché ha registrato le sue Dat? Qui si va sul penale».

La Stampa 18.12.17
Tutta la Cei pronta alla battaglia
“Non applicheremo una legge così”

l cardinale Bassetti: “Si garantisca libertà ai nostri reparti”
di Andrea Tornielli


Una presa di posizione unitaria e che si annuncia decisamente contraria alla legge sarà partorita dalla discussione al consiglio permanente della Cei, all’inizio del 2018. Ma s’illuderebbe chi pensasse che posizioni come quelle prese dall’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia siano fughe in avanti destinate a rimanere isolate. La Conferenza episcopale italiana, dal cardinale presidente Gualtiero Bassetti in giù, appare infatti compatta nell’esprimere un giudizio fortemente negativo sul biotestamento all’italiana. E la chiamata all’obiezione di coscienza nelle strutture ospedaliere cattoliche è un dato di fatto. Una decisione annunciata in anticipo proprio da Bassetti, che ai microfoni di Radio Vaticana, prima dell’approvazione della legge, aveva dichiarato: «Come Cei ci sta a cuore anche che venga riconosciuta – oltre alla possibilità di obiezione di coscienza del singolo medico – quella che riguarda le nostre strutture». Il cardinale presidente dei vescovi italiani, pur ammettendo che «non è facile stabilire a priori un confine netto che distingua accanimento terapeutico ed eutanasia», ribadiva che dar da mangiare e da bere sono «gesti essenziali», non terapie.
Giudizi ribaditi a poche ore dall’approvazione della legge da don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Cei per la Salute, e da don Carmine Arice, padre generale del Cottolengo: «di fronte ad una richiesta di morte, se saremo messi nella condizione, non applicheremo la norma».
La nuova legge sulle DAT è stata definita «censurabile» dal vescovo di Ascoli Piceno Giovanni D’Ercole; «inaccettabile» dal vescovo di Trieste Gianpaolo Crepaldi. Mentre l’ex presidente dei vescovi italiani, cardinale Angelo Bagnasco, dice: «Questa legge non mi rallegra, non è un segno di civiltà».
Nella nuova Carta per gli Operatori Sanitari, pubblicata dal Vaticano a febbraio, si afferma che eventuali legalizzazioni dell’eutanasia suscitano «un grave e preciso obbligo di opporsi mediante obiezione di coscienza». In quello stesso testo si legge pure che «la nutrizione e l’idratazione, anche artificialmente somministrate, rientrano tra le cure di base dovute al morente, quando non risultino troppo gravose o di alcun beneficio». E questo evidentemente lascia aperta la possibilità che possano essere sospese in qualche caso.
Un mese fa sul tema del fine vita era intervenuto Papa Francesco, con parole chiare sul no all’eutanasia, ma anche all’accanimento terapeutico, in una lettera indirizzata a un convegno internazionale sul fine vita in corso in Vaticano. Parole che vennero considerate una svolta aperturista, anche perché negli ultimi decenni diverse voci cattoliche non avevano più sottolineato questo aspetto tradizionale del magistero, finendo per far credere all’opinione pubblica che il rischio dell’accanimento terapeutico quasi non esista.
Se il fronte episcopale appare compatto, qualche voce diversa si leva a livello di esperti. La sezione di Milano dell’Associazione medici cattolici italiani ha affermato che in base all’articolo 5 della legge «l’obiezione del medico non si pone perché il medico può disattendere le DAT quando sono palesemente incongrue». Dunque, sarebbe garantita la sua libertà professionale e di coscienza. Mentre Francesco D’Agostino, il giurista cattolico esperto di bioetica, dalle colonne del Sole 24Ore ha definito «pregiudizi infondati» molte delle critiche rivolte alla legge.

La Stampa 18.12.17
“Fine vita, gli ospedali cattolici non possono violare la legge”
La Regione risponde all’arcivescovo. A rischio i fondi pubblici
di Alessandro Mondo


«Siamo allineati e coperti». Dicono proprio così dall’Aris, l’Associazione che in Piemonte rappresenta le strutture sanitarie religiose convenzionate o meno con il servizio sanitario pubblico. Allineati con l’Aris nazionale, con monsignor Cesare Nosiglia, il quale ha espressamente invitato i presidi cattolici a fare obiezione alla legge sul biotestamento. E prima ancora con don Carmine Arice, padre generale del Cottolengo, protagonista della prima levata di scudi. Una presa di posizione netta, costi quello che costi: anche verso la Regione, decisa a non ammettere deroghe all’applicazione del provvedimento.
Levata di scudi
Non che a José Parrella, presidente di Aris Piemonte, sfuggano le implicazioni di questa decisione: «Ci assumeremo tutte le responsabilità, e naturalmente dovremo tutelarci sotto il profilo giudiziario». Il rischio sono possibili cause, e processi. Ma per le strutture accreditate in ballo potrebbe esserci anche il convenzionamento con il servizio sanitario pubblico, che a fronte di un certo numero di prestazioni copre una quota consistente del budget dei presidi in questione. E questo, nonostante all’Aris non sfugga un altro particolare: il valore dei circa 2.500 posti-letto garantiti dalle strutture private, ai vari livelli; una valvola di sfogo di cui nemmeno la Sanità piemontese, che pure rispetto ad altre Regioni (in primis la Lombardia) ha sempre avuto un impianto essenzialmente pubblico, può permettersi di fare a meno. In Piemonte parliamo di 14 strutture, tra clinica e Rsa, nelle quali lavorano 2.700 operatori (300 dei quali medici), con un fatturato di circa 200 milioni l’anno. Quattro sono a Torino: Cottolengo, Koelliker, San Camillo, Don Gnocchi, Clinica Mayor.
La sanità cattolica
«Il mondo sanitario cattolico rappresenta la storia della Sanità piemontese», sottolinea Parrella, convinto della necessità di fare obiezione e del fatto che «nemmeno la Sanità pubblica può permettersi uno scontro ideologico: come per tutte le cose, serve un punto di incontro». Difficile capire quale potrebbe essere: «Avevamo chiesto alla Regione di individuare strutture pubbliche dove assolvere al disposto della legge così da permettere alle nostre di fare obiezione ma non se ne è fatto nulla»». E adesso? «Vedremo. Dato l’orientamento religioso delle nostre strutture probabilmente ci sarà una selezione all’origine, parlo dell’afflusso dei pazienti. In ogni caso, per noi sarebbe impossibile, anche a livello materiale, assolvere alla legge: i nostri medici condividono i nostri valori».
Parole destinate ad innescare nuove reazioni dopo quella di Silvio Viale, medico e radicale: «Se il Cottolengo si pone fuori dal servizio sanitario nazionale la Regione deve revocare tutte le convenzioni».
Altolà della Regione
L’assessore Antonio Saitta, cattolico di lungo corso, non ammette deroghe: «Certe uscite mi sembrano la coda di un confronto etico importante ma il dibattito è finito, in democrazia prevale la legge e questa è una legge dello Stato». Quanto al provvedimento, «è un punto di incontro ragionevole, equilibrato, sofferto, tra umanesimo cristiano e umanesimo laico, su un tema difficile come la vita, la dignità della vita, la sofferenza e il dolore». Il dibattito è naturale ma la legge si è posta solo lo scopo di umanizzare il morire e dice no all’accanimento terapeutico e all’abbandono. Eutanasia e suicidio assistito rimangono non consentiti».
Insomma: «Si rimette al centro, anche nel consenso informato, la relazione tra medico, sanitari e paziente, e si stabilisce un percorso di pianificazione condivisa delle cure quando si entra in una malattia degenerativa grave». Ecco perchè «l’applicazione della legge riguarderà anche le strutture accreditate e private del sistema sanitario». Altrimenti? «Preferirei evitare forzature, per questo tutti devono entrare in questa logica».

La Stampa 18.12.17
La paura che alimenta il populismo
di Marco Zatterin


La paura è il miglior nemico dell’uomo, ma anche un compagno di viaggio frequente e un consigliere inaffidabile. Alimenta le decisioni meno ragionate e, in assenza di risposte adeguate, è la madre che aggiunge timore ai timori, provocando rabbia contro avversari spesso falsi come le notizie che li raccontano.
È la paura che fomenta i populismi; è la sensazione diffusa di insicurezza e incertezza che governi e parlamenti faticano ad affrontare. È la molla della rivolta: i terremoti della politica, e della società, nascono nella paura che fa credere nel cambiamento da scatenare a ogni costo, esigenza che diffonde instabilità perché, nel mondo veloce e complesso, se non si guarda lontano, non si risolve alcuna incognita.
Nella confusione degli approcci e delle idee è facile avere la sensazione che esista un fronte monolitico populista che si batte nel nome del «tutti contro tutto». L’indagine congiunta La Stampa-Financial Times rivela che le cose stanno altrimenti, che c’è un pubblico che sa reagire e distingue.
Si scopre che a turbare i sonni degli italiani è l’arrivo dei migranti più che l’euro e l’integrazione comunitaria; si vede anche che il desiderio di costruire un Paese multietnico batte (di poco) la convinzione che le migrazioni siano una minaccia. Chi ragiona, evita il «no» di pancia. Ma vorrebbe comunque essere convinto che, per quanto possibile, le sue paure non hanno ragione di esistere.
La vittoria degli ultraconservatori austriaci è la fotografia istantanea della tempesta che può colpire l’Italia e non solo. Il Paese sta bene (al meglio), ma gli elettori non sono persuasi che continuerà. I leader che a Vienna e dintorni hanno fatto leva sulla paura hanno vinto. Per affermarsi hanno cavalcato la paura dell’«altro», quello che «arriva, porta violenza e brucia posti di lavoro». Hanno parlato allo stomaco e non alle teste, ostentando rimedi che probabilmente non avranno effetti. Hanno annunciato grandi manovre (mai fatte) al Brennero e ora titillano gli altoatesini, promettendo che «fermeremo noi i migranti». Non li fermeranno, sia chiaro. Ma ognuno crede a quello che vuole, quando ha paura. Anche all’inutile.
Le voci degli oltre mille e cento italiani che hanno interloquito con La Stampa e il FT illustrano il contesto e invitano a confrontarsi. Certo, la paura dei migranti è ben radicata, ma lo è quanto la consapevolezza che il fenomeno sia più grande di noi e non serva attaccarlo costruendo muri. Appare evidente la percezione dell’Europa come elemento che può risolvere la crisi sociale ed economica, e non come il contrario. La quarta rivoluzione industriale insieme con la globalizzazione ha riscritto radicalmente le regole del gioco. Come le false notizie che perdono capacità di attrazione, anche le false politiche possono essere sbaragliate. Il falso movimento va svelato.
Occorre affrontare l’ira con logica e calma. Nelle strade c’è anche un popolo impaurito, spesso confuso. Per cambiare la storia bisogna dire la verità, per quanto dolorosa. Vanno spiegate le dinamiche, le cause e gli effetti. La maggioranza degli interpellati non ama la Brexit e non condivide Trump. Si fida di Angela Merkel. Sarebbe il caso che, oltre ai proclami urlati, i partiti che ambiscono alla leadership tenessero conto di una maggioranza, o quasi, che fa meno rumore ed è disposta costruire, consapevole che - in genere - la paura ha le gambe corte. In giro c’è voglia di medicine per la sicurezza, come di Unione e solidarietà. Di qui bisognerebbe ripartire.

Il Fatto 18.12.17
Ma questo è un suicidio di Stato
Caporetto - La ex sede dello Stato maggiore dell’esercito in vendita per pochi spiccioli
Ma questo è un suicidio di Stato
di Salvatore Settis | 18 dicembre 2017


Pare una storia alla Houellebecq: in una capitale europea, il ministero della Difesa vuole cedere a un emiro del Golfo Persico la sede dello Stato Maggiore. Ma è quanto sta accadendo, e questa capitale è Roma. Un emendamento al bilancio di previsione dello Stato per il 2018, proposto dal ministero della Difesa l’11 dicembre (e ritirato ieri sera), prevede la cessione di beni immobili dello Stato, anche appartenenti al Demanio, a Stati esteri, con conseguente sdemanializzazione del bene venduto. “I proventi della cessione che si concluderanno entro il 31 marzo 2018 sono riassegnati allo stato di previsione del ministero interessato per le esigenze di funzionamento e di investimento”. Dietro l’apparente neutralità di questo linguaggio, si cela un abisso: la negazione di un carattere essenziale delle proprietà demaniali, la totale inalienabilità. Ma perché questo pubblico suicidio dello Stato? Il linguaggio generalizzante della legge (che deve comunque riferirsi a caserme o altri immobili di competenza della Difesa) cela un caso concreto assai particolare, anzi urgente dato che si allude a una trattativa da concludersi entro marzo 2018. Dato che lo Stato Maggiore si sposterà nella nuova sede di Centocelle, uno Stato del Golfo Persico (a quel che pare, il Qatar) avrebbe offerto di acquistare la sede di Via XX Settembre (per intenderci: a un passo dal Quirinale) per destinarla alla propria Ambasciata. E, con una sottomissione degna di miglior causa, la Difesa propone una norma che possa servire da foglia di fico di questa operazione. Il ministero, lo dice l’emendamento, ha evidentemente bisogno di introiti per non meglio specificate “esigenze di funzionamento e di investimento”. La relazione illustrativa prevede che la norma, se approvata, si estenda a tutti gli edifici pubblici, anche a immobili del demanio culturale: la procedura di cessione agli Stati esteri prevede un decreto del Presidente del Consiglio su proposta del ministro degli Esteri e del ministro di volta in volta interessato (oggi la Difesa, domani le Infrastrutture o la Giustizia), con l’intesa del ministro dei Beni Culturali. Tutti i ministeri sono invitati da ora in poi, se hanno esigenze di bilancio, a mendicare all’estero. Impallidisce, al confronto, il fallimentare programma di cartolarizzazioni e dismissioni avviato da Tremonti e Berlusconi nel generale ludibrio. E si inaugura, se questa norma passerà, la stagione di una grande svendita dello Stato ai petrodollari. Complimenti al ministro della Difesa, che sta provando a pugnalare alle spalle il Demanio e lo Stato. Sarà per celebrare degnamente il centenario di Caporetto?

Corriere 18.12.17
«Chi sa parli, siete sul Titanic». Di Maio sfida il Pd
Il leader M5S: la commissione non serve. Ma Brunetta: ripete le frasi di Casaleggio, da noi grande lavoro
Fabrizio Caccia


ROMA «Maria Elena Boschi è solo la punta dell’iceberg», ha detto ieri il candidato premier del M5S, Luigi Di Maio, intervistato da Lucia Annunziata a Mezz’ora in più , su Rai3. Poi, sul blog di Beppe Grillo, ha aggiunto: «C’è un filo rosso che lega Etruria, la Boschi, le banche venete, Verdini, Berlusconi e il patto del Nazareno?». Di qui, una proposta clamorosa: «Penso che il Pd stia affondando come il Titanic — le parole di Di Maio —. E prima che affondi faccio un appello a quelli del Pd: parlateci, diteci tutto sullo scandalo banche». Oggi intanto alle 11, a palazzo San Macuto, riprende il lavoro della Commissione presieduta da Pier Ferdinando Casini. Sarà audito il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sul passaggio delle banche venete a Intesa Sanpaolo e sul salvataggio del Monte dei Paschi di Siena (Mps). Domani, poi, sarà il giorno del governatore di Bankitalia Ignazio Visco e, mercoledì, ci sarà l’audizione di Federico Ghizzoni, ex ad di Unicredit, ancora sul caso Boschi-Banca Etruria. «Non c’è bisogno della commissione d’inchiesta», ha tuonato ieri sempre Di Maio. Così, a replicargli è stato Renato Brunetta, capogruppo dei deputati di Forza Italia e vicepresidente della Commissione banche: «Il pappagallo Di Maio ripete a memoria le frasette della Casaleggio Associati, ma noi stiamo facendo un grande lavoro e daremo tante risposte a quesiti fino a ieri irrisolti». «Mi interessa poco se è colpa solo della Boschi — la chiusa del leader della Lega, Matteo Salvini —. La verità è che 63 miliardi di euro sono stati prestati per salvare le banche di altri Paesi europei. Un governo, allora, deve andare a Bruxelles e dire: “Ora ci riprendiamo una parte dei 63 miliardi per i nostri risparmiatori”...».

Corriere 18.12.17
Incarichi ai «soliti» per 446 anni Ecco il potere nelle banche locali
di Federico Fubini


In 13 istituti sempre gli stessi nomi al vertice. E ruoli che passano di padre in figlio
M ezzo millennio per tredici cognomi: in Italia tredici piccoli banchieri locali — a volte, con l’aiuto delle loro dinastie — esprimono per la precisione 446 anni di potere sull’allocazione del credito a famiglie e imprese. Se solo la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche non si occupasse quasi solo di regolamenti dei conti politici, scoprirebbe forse che le cause profonde delle perdite subite dai risparmiatori non vanno cercate in qualche incontro riservato o complicità fra alte cariche istituzionali.
La pistola fumante è sotto gli occhi di tutti: sono i rapporti di potere locali, ossificati e debilitati dai conflitti d’interesse resi endemici dal tempo, che congelano per decenni il governo di gran parte delle banche finite in dissesto e di molte altre.
Quando per esempio nel luglio del 2015 lascia travolto dal naufragio dell’azienda e dai suoi stessi abusi, Vincenzo Consoli guida Veneto Banca da 17 anni. Quando tre mesi dopo si dimette dalla presidenza della Popolare di Vicenza, affondato dal dissesto e dalle inchieste, Gianni Zonin ha 77 anni e gli manca poco per completare vent’anni di potere nell’istituto. A Carige Giovanni Berneschi ha regnato per un quarto di secolo — direttore generale, poi amministratore delegato — prima di lasciare a 76 anni una banca in ginocchio e subire a una condanna per associazione a delinquere.
I banchieri-matusalemme d’Italia ovviamente non finiscono qui. Sembra quasi un principiante Massimo Bianconi, che guida Banca Marche (verso il crac) per appena undici anni e mezzo. Lo sembra a confronto di Denis Verdini, per vent’anni presidente del Credito cooperativo fiorentino e di recente condannato in primo grado a 9 anni per bancarotta. E a sua volta il senatore del gruppo Ala viene battuto dal cardiologo Leopoldo Costa, per 25 anni uomo forte della Banca padovana di Campodarsego salvata in extremis ad opera della Bcc di Roma (il cui presidente, l’ottantenne Francesco Liberati, è ai vertici da quando trent’anni fa diventò direttore generale). Quasi banale in questo quadro è poi il curriculum del dentista Amedeo Piva, che nel 2014 si dimette dalla Banca del Veneziano in dissesto dopo vent’anni al timone.
Non tutti i poteri interminabili finiscono in rovina, anche se spesso coincidono con situazioni delicate. Al Credito Valtellinese, che ha in corso un maxi-aumento di capitale essenziale alla sopravvivenza, il 79enne Giovanni De Censi è ai vertici da 36 anni: direttore generale, amministratore delegato, quindi presidente e dal 2016 presidente onorario. Alla Popolare di Sondrio, più robusta, Piero Melazzini ha operato ai vertici per 45 anni prima di lasciare a 84 anni, pochi mesi prima di morire. E Enrico Fabbri ha presieduto la Popolare di Lajatico (Pisa) dal primo choc petrolifero fino a dopo la crisi dell’euro.
Spiccano poi i fenomeni dinastici del Sud. La Banca Popolare Pugliese nelle varie incarnazioni viene guidata per 80 anni da un Primiceri, il padre Giorgio o il figlio Vito. La Popolare di Bari dopo 57 anni è alla terza generazione di leadership della famiglia Jacobini. Interessante anche il caso di Banca Popolare Etica: il fondatore di 19 anni fa è l’attuale presidente Ugo Biggeri, un ingegnere ambientale che da allora ha quasi sempre ricoperto cariche di vertice nel gruppo e oggi (in potenziale conflitto d’interessi) guida anche la società di gestione del risparmio a esso collegata.
In tutto fa quasi mezzo millennio di potere, e la lista potrebbe continuare. Alcune di queste aziende si trovano in un passabile stato di salute, ma nel complesso il nesso fra la lunghezza dei mandati al vertice e i dissesti bancari sembra evidente. Il passare del tempo radica reti di clientele locali, scambi di favori fra politici, notabili e manager e credito concesso a progetti improbabili. Spesso — non sempre — ciò avviene in istituti popolari o di credito cooperativo, dove una testa vale sempre un voto e la tendenza dei presidenti a concedere prestiti facili ai propri (ri)elettori in assemblea porta poi ai default bancari. Così in Italia la ricchezza si è trasferita dai risparmiatori a certi debitori insolventi. Non a caso uno studio recente di Fabiano Schivardi, Enrico Sette e Guido Tabellini rivela ciò che era legittimo sospettare: nel Paese durante la crisi le imprese-zombie, quelle improduttive, hanno ricevuto relativamente più credito di quelle sane.

Il Fatto 18.12.17
Il Pd è allergico ai concorsi. Colata di assunti a Pompei
Emendamento, firmato da 24 dem, per stabilizzare la segreteria del parco archeologico
di Vittorio Emiliani


Siamo allo scasso dello Stato e delle sue collaudate regole col grimaldello degli emendamenti alla legge di bilancio. Cominciamo dalle regole, delicatissime in un Paese di raccomandati, per i concorsi. Improvvisamente è spuntato l’emendamento 4768/VII/1.3 presentato da ben 24 parlamentari, tutti del Pd, col quale si fanno diventare dipendenti a tempo indeterminato i componenti della segreteria tecnica del direttore generale di Pompei, Massimo Osanna, senza concorso, ma soltanto con una “apposita selezione per titoli e colloquio finalizzato all’inquadramento”. Il salto a pie’ pari degli ostacoli di un concorso possono farlo quanti siano stati reclutati “a seguito di una procedura selettiva pubblica” (non un vero concorso quindi, ndr) e abbiano “prestato servizio per almeno 36 mesi presso la Segreteria tecnica di progettazione” di Pompei. Quindi un chiaro emendamento ad personas. Si tratta di 22 funzionari immessi nel 2012 per l'”emergenza Pompei”.
Ora, già al concorso interno, con varie sentenze univoche, la Corte Costituzionale ha negato legittimità per la patente violazione del principio di eguaglianza e di buon andamento della Pubblica Amministrazione oltre che del canone che impone il pubblico concorso. Figuriamoci a questa sorta di “sanatoria”. Fra l’altro gli addetti alla Segreteria tecnica hanno un contratto di lavoro autonomo che in nessun modo può essere quindi ricondotto a quello di lavoro subordinato. Ed ora invece passerebbero ad un contratto a tempo indeterminato.
Fra l’altro il ministero per i Beni Culturali sta espletando da molti mesi un maxi-concorso che, fra tante difficoltà e non poche proteste (degli archivisti, per esempio, ai quali sono riservati pochi posti): numerosi componenti della Segreteria tecnica di Pompei ora promossi vi hanno preso parte, pare, senza successo. Ovviamente gli archeologi dichiarati invece idonei al concorsone protestano in modo vibrato e chiedono di essere loro selezionati, giustamente. Fra i firmatari dell’emendamento contestato c’è la responsabile Cultura del Pd, Lucrezia Bonaccorsi, renziana di ferro (almeno fino a ieri). Quindi, una operazione dai connotati marcatamente “politici”.
Stiamo sempre più scivolando nella barbarie legislativa. L’anno scorso, dopo tre rifiuti del presidente della commissione Bilancio, Francesco Boccia, 22 deputati Pd con la solita Bonaccorsi alla loro testa, hanno preteso e ottenuto di infilare nella legge di bilancio nientemeno che la creazione del discutibilissimo Parco Archeologico del Colosseo che ha fatto a pezzi la Soprintendenza Archeologica Speciale di Roma. Senza contare che al ricco e riordinato Museo Archeologico Nazionale dell’ex Collegio Romano è stata nominata – per la prima volta nella storia gloriosa dell’archeologia romana – una storica, specialista d’arte moderna.
Quest’anno, oltre al grimaldello sui concorsi per Pompei, viene introdotto dal governo (udite) un emendamento che rispolvera le tanto discusse cartolarizzazioni di Tremonti (legge finanziaria 2005) e consente la vendita di immobili del Demanio, anche militari, ad uno Stato estero. Diventeremo un supermarket per immobiliari straniere dopo esserlo stato per industrie d’oltre confine?
di Vittorio Emiliani


Il Fatto 18.12.17
Sudafrica, l’eterna faida tra gli eredi di Mandela
L’African National Congress deve trovare il leader che governerà un Paese in crisi, corrotto e frustrato, dove all’apartheid razziale s’è sostituito quello economico
di Andrea Valdambrini


“Tutto sembra sempre impossibile, almeno finché non viene fatto”. Le parole più celebri di Nelson Mandela si cuciono perfettamente addosso al Sudafrica di oggi. Il Paese che l’eroe anti-apartheid ha visto nascere nel 1994 – e che l’arcivescovo Desmond Tutu definì significativamente Rainbow nation, nazione arcobaleno, riferendosi alla sua rinnovata proiezione verso il pluralismo – vive oggi una maturità composta di inevitabili contrasti. Il ceto politico dell’African nation congress (Anc), fattosi classe dirigente, ha formalmente superato la discriminazione etnica del governo di minoranza bianco. Eppure la presidenza di Jacob Zuma, già carismatico successore di Mandela, sembra non soltanto aver fallito nel superare di fatto le diseguaglianze economiche che dividono il Sudafrica (come già era accaduto negli anni del suo predecessore Thabo Mbeki), ma ha soprattutto esposto il Paese alla dilagante piaga della corruzione. Un terreno, quello dell’etica pubblica su cui c’è ancora davvero molto da fare. E che rischia di travolgere la presidenza Zuma in un triste e solitario declino.
In questi giorni (16-20 dicembre), l’Anc sta tenendo il meeting con cui deciderà la leadership futura del partito e con buona probabilità anche del prossimo governo del Sudafrica. A contendersela, il superfavorito attuale vicepresidente Cyril Ramaphosa e la ex moglie dello stesso presidente in carica Nkosazana Dlamini-Zuma. Quest’ultima appare certamente una candidatura di prestigio: più volte ministro (della Salute durante la presidenza Mandela, successivamente degli Esteri e attualmente degli Interni) e prima donna presidente dell’Unione africana, Nkosazana sembra però svantaggiata dalla vicinanza all’ex marito, apparendo quindi come un candidato privo di discontinuità. Da parte sua, il 65enne Ramaphosa è un ex sindacalista, protagonista negli Anni 80 della lotta contro il dominio bianco, capo negoziatore dell’Anc ai tempi della transizione democratica e oggi uomo d’affari tra i più ricchi del Paese, con un patrimonio stimato in più di 600 milioni di dollari.
Nonostante il ruolo istituzionale come vice dello stesso Zuma, Ramaphosa ha il vantaggio di apparire più lontano dal presidente, un uomo politico ormai travolto dagli scandali. Solo mercoledì scorso ha perso due cause in un solo giorno, entrambe legate ad abusi di potere per stoppare indagini sulla corruzione a suo carico. Ma i guai giudiziari del presidente hanno radici antiche. Nel 2005, Zuma viene accusato di corruzione per un affare del 1999 da 5 miliardi di dollari nell’acquisto di armi da parte del governo. Le accuse vennero prima accantonate alla vigilia del suo incarico presidenziale nel 2009, poi ripresentate dalla magistratura nel 2016. Nel 2005 fu accusato di violenza sessuale su un’amica di famiglia, e poi prosciolto l’anno dopo. La sua abitazione di Nkandla – una vera e propria magione con piscina e anfiteatro privato – è divenuta sinonimo di spreco del denaro pubblico: costretto da giudici, Zuma ha risarcito i soldi sottratti per la ristrutturazione. Ma il caso che ne ha affossato la reputazione è quello dei fratelli Gupta, ricchi industriali di origine indiana i cui affari spaziano dalle miniere, all’hi-tech, dai trasporti e i media. La connessione tra il presidente e la famiglia – a cui sarebbero state aperte le porte del governo, tanto da poter dire l’ultima parola persino sulla nomina di alcuni ministri – sono talmente profonde che gli oppositori hanno inchiodato il leader a un nomignolo eloquente: quello di Zupta. Non le credenziali migliori, per chi, come lui, è di fatto erede politico di Mandela.
Come se non bastasse, anche gli indicatori macroeconomici del decennio Zuma virano al negativo. Come sottolinea il Financial Times, il tasso ufficiale di disoccupazione è salito dal 23% al 28% e 17 su 52 milioni di abitanti ricevono forme di sussidio dal governo. La Camera di commercio sudafricana lamenta una caduta dell’indice di fiducia delle imprese all’epoca delle sanzioni internazionali contro lo stato segregazionista (prima del 1994). Anche la crescita della ricchezza del Paese, che fino al 2014 aveva sempre espresso un Pil oscillante intorno a un sostenuto 3%, si è attestato negli ultimi due anni tra lo 0 e l’1%.
Conseguenza di scandali personali e di un’economia che arranca, il partito che fu di Mandela si logora al suo interno. Ma soprattutto perde consensi: se dal 1994 in poi si era sempre attestato ben oltre il 60%, nella elezioni locali dell’agosto 2016 si è dovuto accontentare del 54%, perdendo l’amministrazione di città importanti come la capitale Pretoria. Eppure non si può dire che la figura di Zuma non sia quella di un leader carismatico.
“Le colpe di cui Zuma si è reso responsabile sono molte e note. Il suo peccato originale è quello di essere arrivato al potere dopo il tecnocrate Mbeki, un politico molto amato dai mercati e dai media internazionali. Eppure oggi, alla vigilia della passaggio di consegna nel partito, che potrebbe perfino preludere a elezioni anticipate (la scadenza naturale è nel 2019), il giudizio sui suoi anni di governo deve essere equilibrato”. Ne è convinto Rocco Ronza, docente di Geoeconomia presso l’Università Cattolica di Milano ed esperto di Sudafrica per l’Istituto per gli studi di politica internazionale. “Negli anni della crisi mondiale, in cui la contestazione e la conflittualità sociale rischiavano di spaccare il Sudafrica, Zuma è comunque riuscito a tenere insieme un Paese in cui, sotto i suoi predecessori Mandela e Mbeki, il conflitto tra ricchi e poveri è stato privato della componente era stato in parte sganciato dalla componente razziale, ma non risolto. È stato il campione di quelle realtà meno occidentalizzate, più rurali, più povere e meno comprensibili dalle élites internazionali”.
Classe 1942, di etnia Zulu, nato poverissimo, Zuma appartiene alla generazione che ha combattuto il dominio bianco. Meno che ventenne, aderisce all’Anc e al Partito comunista, viene arrestato per cospirazione e imprigionato, passando 10 anni nella prigione di Robben Island, insieme a Nelson Mandela. Dopo anni di esilio, ritorna in patria cominciando l’ascesa che lo porterà alla guida del partito nel 2007 e a quella del Sudafrica nel 2009. Il “presidente del popolo”, come lo chiama i suoi sostenitori, si è sposato 6 volte, ha 21 figli e un’abilità oratoria travolgente. “Ma nonostante l’aspetto populista, o forse proprio perché coperto a sinistra, Zuma utilizza la crisi economica del 2008 per non modificare le politiche di apertura al grande capitale internazionale del suo predecessore Mbeki – sottolinea Ronza – rappresentando in questo senso l’uomo che ha tenuto insieme le due anime dell’African national congress: quella più socialista e l’altra legata ai mercati internazionali più di ogni altra realtà in Africa”.
A dispetto dell’apparenza da estremista, la sua abilità di mediatore emerge nei giorni del massacro di Marikana, quando nell’agosto 2012 la polizia apre il fuoco sui minatori in sciopero, facendo 34 morti. Come conseguenza, Zuma espelle dal partito Julius Malema, leader radicale che ha cavalcato la strage, e che oggi guida il partito di opposizione Economic freedom fighters (Eff). Sarà però la morte di Nelson Mandela nel dicembre 2013 ad accelerare il declino di Zuma. “È con la fine del simbolo anti-apartheid, che parte la campagna contro di lui tuttora in corso”, ragiona l’esperto dell’Ispi. “Il Sudafrica ha magistratura, stampa e imprese autonome dal governo: in questo senso viene considerata una democrazia compiuta. Ma se fino alla morte di Mandela – padre fondatore e simbolo della lotta contro l’apartheid – l’egemonia dell’Anc era fuori discussione, da quel momento in poi lo scenario ha cominciato a cambiare”.
Per aprirsi, se non a un’alternanza di governo con la Democratic alliance – partito che rappresenta le minoranze urbane di bianchi, meticci, indiani e degli indiani e anche una parte anche della nuova borghesia nera – almeno a un futuro politico più frammentato.
di Andrea Valdambrini

Il Fatto 18.12.17
De Bortoli conferma: “Su Ghizzoni vale ciò che ho già scritto”


“Esiste un inizio di un’azione civile, siamo su un piano legale e quindi non vorrei dire nulla, se non ribadire quanto scritto”. A dirlo Ferruccio De Bortoli, a Borgoricco (Padova) per ritirare il premio giornalistico “Cesco Tomaselli”, a chi gli chiede un commento sulla vicenda banche e Maria Elena Boschi. De Bortoli parla delle banche. “La responsabilità – osserva – è stata di amministratori e azionisti, ma anche di chi doveva vigilare. Le banche hanno venduto prodotti articolati e obbligazioni a rischio anche alla clientela più minuta” e questo, ricorda, “ha creato instabilità nel sistema”. “Nella storia del nostro Paese – aggiunge – l’intreccio perverso tra politica e banche ha prodotto danni, ma non è solo un fattore italiano, succede anche in altri paesi. Tedeschi e spagnoli sono stati più bravi perché hanno salvato le loro banche con i soldi pubblici”. Poi è passato all’informazione: “Uno dei peggiori difetti del giornalismo, di cui mi sento colpevole, è di essere eccessivamente conformisti. Si chiede all’informazione di non parlare di ciò che va male, perché così si fa crescere il Paese. Ma così la classe dirigente non mette mano al problema e come nel caso banche si affronta quando i danni sono irreparabili”

Repubblica 18.12.17
Intervista a Doron Rabinovici
“Ombre di fascismo nella mia Austria Il doppio passaporto è revisionismo”
di Andrea Tarquini


BERLINO “Nella Mitteleuropa noi intellettuali viviamo in eventi che 4 anni fa ritenevamo inimmaginabili”. Parla Doron Rabinovici, uno dei massimi scrittori austriaci, figura di spicco del Club repubblicano, il circolo culturale antifascista.
Nuovo governo austriaco con ministri chiave dell’ultradestra, in sintonia con autocrati polacchi, ungheresi e gli xenofobi populisti in volo in molti Paesi della Ue. Perché questa svolta profonda?
«La svolta a destra non è solo mitteleuropea o europea, è anche negli Usa. È legata al dibattito sui migranti, che però non è la vera causa. In altri tempi venivano in molti da noi, senza simili reazioni.
Le élite politiche oggi non governano piú la vita delle società.
Simbolo del malessere che ciò crea sono ora le frontiere. Anche nella prospera Austria si mobilita la gente in modo razzista con paure del futuro. Paure non tutte false: i ceti medi europei non sono più sicuri di un futuro migliore, il welfare è discreditato e sconfessato dalla globalizzazione, ciò premia chi vuole distruggerlo.
La Fpö austriaca è erede lontana dei predecessori dei nazisti.
Simbolizza ogni partito che ha gettato l’Europa in catastrofi.
Vincono coi no all’Europa comune e alla società globale».
Proprio ieri c’è stato il vertice dei partiti dell’ultradestra a Praga “per distruggere la Ue”. I partiti sovranisti minacciano l’Europa?
«La Ue fu fondata dopo la catastrofe della guerra, che ebbe le sue origini nella Mitteleuropa. Da un lato la società molteplice, dall’altro le tendenze razziste.
L’impero asburgico fu insieme impero multiculturale e prigione dei popoli. Il nazionalismo lo distrusse. La Ue ebbe fondamenta economiche per impedire nuove guerre, ma la tendenza a distruggerla per stare meglio, ognuno per sé, adesso mi sembra più forte. L’Europa ha perduto peso su scala mondiale, e la globalizzazione, come lo slogan “più Europa e apertura”, nutre la paura del declino. Anche nell’Austria cuore prospero della Mitteleuropa. Il razzismo diventa un lusso che ci si vuol concedere».
E le destre convincono?
«Sì, col protezionismo che ha sempre aspetti autoritari. La Ue è debole e ciò aiuta le destre populiste. Ci vuole più Ue con più legittimazione democratica, presto».
Come si sentono gli
intellettuali mitteleuropei ed europei oggi?
«Vivendo in eventi che ritenevamo impossibili appena 4 anni fa, da Stoccolma ad Atene, da Parigi a Varsavia. I volti sogghignanti di autocrati ammiratori di Putin o Erdogan sono lo sfondo della crisi della democrazia liberale, dei media, dello Stato di diritto. Noi scrittori possiamo solo narrare il grido, non curare il male».
Perché cade il tabù dell’antifascismo?
«Parte dell’antifascismo fu sconfessato dal crollo del giogo sovietico in parte dell’Europa. Ma la caduta annunciata del tabù ha contagiato l’Europa occidentale.
Emozioni e correnti razziste e antisemite e antidemocratiche sembravano il passato, invece erano solo rimaste in ombra. Non basta dire “mai più”: strutture autoritarie che portarono alla Catastrofe restarono dopo il 1945. Ad esempio l´Austria non ebbe il regolamento dei conti col passato vissuto dalla Germania.
Si dice che i tedeschi si salvarono guardando col pessimismo al futuro, gli austriaci guardarono con ottimismo al passato, facendo finta che Hitler fosse tedesco e Beethoven austriaco».
La doppia cittadinanza offerta dall’Austria agli altoatesini è provocazione?
«La Fpö è ispirata a un nazionalismo germanofilo, che distrugge il principio dell’Europa.
La doppia cittadinanza è diritto legittimo ma loro la negano ai turchi e la offrono ai sudtirolesi in uno spirito di revisionismo storico, non di apertura. Non è ancora tardi per difendersi, ma adesso occorre una visione di democrazia europea più forte. Ricordando anche che tradizioni antisemite sono nel DNA di forze come la Fpö, sebbene il primo bersaglio oggi siano i musulmani».

Repubblica 18.12.17
La mossa pro-palestinesi
Erdogan fa Trump e annuncia un’ambasciata turca a Gerusalemme (Est)
di Marco Ansaldo


STANBUL Quando un turco minaccia una cosa, bisogna sempre dar credito al suo proposito, che di lì a poco è sicuro seguirà. Così per Recep Tayyip Erdogan, al termine del recente vertice islamico a Istanbul convocato dopo la decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Ora la Turchia, annuncia il Capo dello Stato, aprirà la propria ambasciata nella parte Est della Città santa, dando seguito per prima alla rivolta dei Paesi musulmani contro la decisione americana.
« Se Allah vuole — ha detto Erdogan a Karaman, nel sud ovest dell’Anatolia, in un incontro del suo partito conservatore di ispirazione religiosa — è vicino il giorno in cui ufficialmente, con il suo permesso, apriremo lì la nostra ambasciata » . Un pizzico di retorica, forse, del resto congeniale al Sultano che sa come compiacere il proprio elettorato, ma condito di intenzioni concrete. « Il summit dell’Organizzazione dei Paesi Islamici ha già riconosciuto Gerusalemme Est capitale della Palestina. Ma non abbiamo potuto aprire la nostra ambasciata perché Gerusalemme è occupata dalle forze israeliane. Con l’aiuto di Dio ora lo faremo».
Una dichiarazione che farà scalpore, anche perché in Israele le ambasciate straniere, Turchia inclusa, hanno sede a Tel Aviv proprio a causa dello status non risolto di Gerusalemme. Ed è l’ultima reazione scatenata dalla decisione del Presidente americano.
Erdogan era stato il più acceso oppositore della mossa americana. Capitalizzando, da animale politico con grande fiuto, lo sviluppo che ne sarebbe arrivato. In modo fulmineo, mentre la Turchia si trovava esposta a critiche di vario tipo sul piano internazionale, il Sultano si è incuneato fra le incertezze degli arabi, mettendosi a capo della coalizione anti- Usa e convocando a casa il vertice dei Paesi islamici. Sotto la sua egida è uscita la dichiarazione comune del summit, che vedeva Gerusalemme Est come capitale della Palestina. La dichiarazione di ieri in Anatolia ne è un semplice corollario.
Con l’oratoria già sperimentata su molti leader europei nella recente crisi per i ministri di Ankara impediti a fare comizi preelettorali in Germania, Austria, Svizzera e Francia, Erdogan si è lanciato con identica veemenza contro Trump. La sua decisione, ha ammonito, è « una disgrazia » , « una violazione del diritto internazionale » , e il Capo della Casa Bianca il «responsabile della fine del processo di pace». Aspre poi le accuse a Israele, definito uno Stato «terrorista», «killer di bambini » , « invasore » e che agisce « in totale spregio dei diritti umani » . Nel 2010 la crisi fra Turchia e Israele eruppe con forza quando le teste di cuoio israeliane attaccarono la nave Mavi Marmara andata a portare aiuti a Gaza, con un blitz costato la vita a 10 cittadini turchi: Gerusalemme disse che era stato violato il proprio spazio marittimo, i due Paesi ruppero le relazioni diplomatiche e sulla Striscia il Sultano si guadagnò il titolo di “Re di Gaza”.
L’altro giorno a Konya, la città dei dervisci rotanti, in Anatolia, Erdogan ha promesso ancora: « Faremo di tutto in sede di Consiglio di Sicurezza Onu e nell’Assemblea Generale per annullare questa decisione illegale, disgrazia per l’intera regione. La Turchia si opporrà a chi si sente superiore alla legge». E ha aggiunto: « Siamo musulmani, non siamo mossi né da razzismo né da voglia di vendetta, ma solo da desiderio di giustizia » . È certo che il Sultano, adesso, proseguirà la sua nuova battaglia studiando nuove mosse.