mercoledì 20 dicembre 2017

Corriere 20.12.17
intervista con Grasso
«Così riporterò a casa gli elettori dei 5 Stelle»
di Massimo Franco


«Ci proponiamo come sinistra di governo e vogliamo recuperare chi si astiene». Pietro Grasso spiega la strategia elettorale: «Duelli tv? Mi candido per il Parlamento, non per X Factor. Voglio ricostruire il Paese».
Lasciate che i grillini vengano a me. E si convertano alle istituzioni. Non lo dice proprio con queste parole. Ma la strategia di Pietro Grasso, presidente del Senato e leader di Liberi e uguali, la sinistra alternativa al Pd, sembra proprio questa: convincere ad andare alle urne chi negli ultimi anni si è astenuto. E «riportare a casa» i voti di quei settori dell’opinione pubblica che, per rabbia o per protesta, hanno gonfiato le percentuali del M5S. «Loro gridano onestà tre volte? Be’, io lo posso dire anche cinque», rivendica. Su Matteo Renzi, invece, Grasso è stranamente cauto; idem su Maria Elena Boschi: guarda oltre. E spiega perché ha deciso di fare politica mantenendo la seconda carica dello Stato.
Non ha scelto bene il momento per diventare un capo partito. Il Senato è esposto.
«Veramente, il Senato è stato esposto da una legge elettorale votata senza permetterci di discuterla dopo il sì della Camera; e dopo cinque voti di fiducia. A quel punto ho sentito l’esigenza di dare un segno di discontinuità politica uscendo dal Pd. Prima ho fatto quello che dovevo, garantendo che andasse in porto per dovere istituzionale. Poi ho preso carta e penna, senza consultare nessuno, e ho comunicato che lasciavo il Pd. La tempistica non è stata una mia scelta. Non ho pensato al seguito, e invece si è innescato un meccanismo che mi ha portato a impegnarmi direttamente in politica. È la prima volta, ma lo faccio con convinzione e vero entusiasmo».
Il Senato è uscito rilegittimato dal referendum del 4 dicembre del 2016. Non teme di delegittimarlo?
«Per pronunciarmi ho aspettato l’approvazione in prima lettura della legge di Bilancio. E comunque, no: ho mantenuto una perfetta indipendenza e autonomia. L’ho fatto in questi anni e continuerò a farlo ancora di più ora. I tempi stretti della legislatura mi hanno indotto a compiere il passo finale. D’altronde, quando tre ragazzi, Speranza, Civati e Fratoianni sono venuti a propormi il loro progetto, ho capito che potevo e dovevo rendermi ancora utile».
I «tre ragazzi» fanno pensare a Liberi e uguali come a una «Cosa rossa» aggiornata; e che li abbiano mandati Bersani e D’Alema.
«Tecnica antica, quella di demonizzare qualcuno per inficiare il ruolo di altri. Non sono mai stato strumento di nessuno, né da magistrato né adesso. L’etichetta di «Cosa rossa» era stata confezionata dagli avversari prima ancora che l’operazione partisse. Il progetto è diverso».
Lo è riuscito a cambiare lei?
«Certo vogliamo cambiarlo. Il coinvolgimento di Rossella Muroni, fino a ieri presidente di Legambiente, è un primo segnale. Ci rivolgiamo a settori del mondo cattolico, dei sindacati, di associazioni, in una parola dei corpi intermedi. Parliamo a una realtà potenziale molto più larga da coinvolgere. Il mio obiettivo è costruire un movimento dal basso che riduca le disuguaglianze e la povertà. La parola leader non mi piace».
Nel simbolo c’è il suo nome.
«Ero contrario, se non altro per pudore. Ma era necessario per farci riconoscere: succede alle nuove formazioni, anche «+Europa» ha messo il nome della Bonino».
Perché non si è dimesso?
«Invece di risolvere un problema, ne avrei creati alle istituzioni. Problemi seri, con i numeri del Senato in bilico e al termine della legislatura. Sarebbe stato un ulteriore elemento di instabilità».
Lei non è uomo da duelli televisivi duri. Parteciperà ai confronti in tv?
«Mi candido per il Parlamento, non per X Factor. Non mi interessa affascinare, né scontrarmi secondo logiche che non mi appartengono. La mia idea di politica non è la battaglia televisiva ma presentare la soluzione dei problemi. Se è necessario parteciperò ai confronti ma non amo gli scontri. Io voglio partire dai valori di sinistra con un progetto che guardi ben oltre le elezioni».
Come convincerà gli elettori che il voto a voi è utile, e non favorisce M5S o centrodestra ?
«Guardi, noi ci proponiamo come sinistra di governo non come fine ma come mezzo per cambiare la rotta su lavoro, scuola, sanità. E vogliamo spiegare che non serve un voto solo di protesta. In più, con questo sistema, di fatto proporzionale, non ci sarà un vero vincitore. La storia del voto utile non regge».
Non ci sarà un vincitore ma la sinistra si candida a essere perdente.
«Vogliamo riportare al voto chi oggi si astiene perché deluso. Il Pd i consensi li ha già persi con l’astensione o col voto al M5S. Contiamo di recuperarli dando un’alternativa».
Il Pd continuerà a perderli?
«Lo dicono i dati. Noi saremo la rete che raccoglierà quel consenso prima che vada altrove».
Influisce l’andamento dei lavori della Commissione d’inchiesta sulle banche?
«Bisogna aspettare che finisca i lavori per capire meglio».
Nel suo partito c’è chi chiede le dimissioni di Boschi.
«Non affronto il problema delle sue dimissioni. O senti di darle per tue ragioni personali, o perché te le chiede qualcuno a cui non puoi dire di no. Per ora non si sono verificate queste condizioni».
Quanto influisce sulle difficoltà del Pd la sconfitta referendaria del dicembre 2016?
«Il referendum ha mostrato una partecipazione di popolo straordinaria. Molti hanno visto nella riforma, collegata con l’Italicum, un indebolimento della nostra democrazia. Le riforme vanno fatte con un altro approccio: merito e metodo di quella riforma l’hanno resa un’occasione mancata».
Le è pesato molto gestire il referendum dal Senato che doveva essere abolito?
«Fa parte del ruolo gestire con imparzialità provvedimenti che posso anche non condividere».
Cosa votò al referendum?
«Prima che arrivasse in Aula avevo espresso le mie perplessità, ma non mi sono espresso durante la campagna e non lo farò neanche ora».
Quindi potrebbe anche votare Pd e non dirlo.
«Rispondo con una battuta: se venisse sulla nostra linea... ma non mi sembra possa accadere. Io sono inclusivo, non metto veti».
Non è troppo facile prendersela con Renzi oggi? Per anni la nomenklatura del Pd, compresi alcuni che stanno con lei, non hanno fiatato.
«Non sono tra quelli che ne fanno una questione personale: ho avvertito una distanza crescente con le politiche attuate, e non ne ho fatto mistero. La campagna elettorale si fa sui contenuti. Se non c’è Renzi ma si continua con la stessa politica, le distanze con noi non si accorciano».
La descrivono come possibile garante di un M5S che si avvicina al governo.
«Su molti temi, a cominciare dall’Europa e dalla moneta unica, siamo distanti: pensare a un referendum sull’euro, tra l’altro, non è previsto dalla Costituzione. Più che parlare col M5S dopo le elezioni, preferisco parlare ora con i suoi elettori, convogliando la loro rabbia nell’ambito istituzionale. Vorrei riportarli a casa».
Vuole togliere voti al Pd e a Grillo?
«Non metto limiti, magari convinceremo anche elettori di centrodestra: quelli che prima erano i problemi di pochi sono diventati problemi di molti: precari, giovani professionisti, chi ha una piccola attività, una partita Iva».
Ha qualcosa da rimproverarsi per la decadenza di Silvio Berlusconi da senatore?
«Ho applicato la legge Severino e il regolamento del Senato. E l’Aula nella sua sovranità ha votato».
Vorrebbe che partecipasse alla campagna elettorale?
«Già partecipa».
Come candidato.
«Non dipende da me».

Il Fatto 20.12.17
Per i dem l’ultima chance è rottamare il rottamatore
di Peter Gomez


Ciascuno è libero di suicidarsi come meglio crede. Gli iscritti e i dirigenti del Pd hanno perciò tutto il diritto di continuare a seguire il loro segretario Matteo Renzi e la sua sodale Maria Elena Boschi fino all’ormai scontato esito della loro breve avventura politica. Chi ha però deciso di far parte del Partito democratico perché ne condivideva le idee e i progetti, o chi invece sente semplicemente crescere dentro di sé un umano istinto di sopravvivenza, ha pure un dovere. Evitare che, a causa dei continui errori dell’ex premier e della giovane sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, tutto il Pd finisca con loro sommerso dalle macerie. Su quanto sta accadendo in Commissione banche è inutile dilungarsi. Così come non serve ricordare quello che raccontano i sondaggi e che lo stesso Renzi ha ammesso in un’intervista al Corriere della Sera: il partito è in caduta libera. Finire sotto il 20 per cento dei consensi per i dem non è più un’ipotesi, ma una possibilità di giorno in giorno più concreta. Mentre è sempre più probabile il ritorno delle destre al governo.
Questo destino non è però inevitabile. Con un segretario diverso un accordo pre-elettorale con Liberi e Uguali – formazione destinata a crescere ancora molto grazie alla figura di Piero Grasso – è tuttora possibile. E con una vera coalizione il Pd può davvero tornare a giocare la sua partita. Senza no.
Conosciamo le obiezioni: Renzi è stato votato alle primarie da un milione e 800 mila persone. Come si possono sconfessare gli elettori? Semplice: il partito si ricorda di essere tale e si comporta da partito. Molti degli accadimenti di cui oggi siamo venuti a conoscenza in virtù delle audizioni in Commissione banche vanno discussi a fondo e per davvero in direzione. E a chiederlo devono essere per primi i renziani. Spetta a loro il compito di smettere di scambiare la lealtà che giustamente va riservata a ogni leader liberamente scelto con l’ottusa fedeltà al capo. Chiedere conto e ragione di quanto è successo non significa essere sleali, vuol dire invece avere una concezione alta della politica. Perché sleale è chi trama nell’ombra. Leale è invece chi ti dice in faccia che c’è un problema e chiede apertamente di risolverlo.
Far presente a Renzi che il progetto Pd viene prima del suo personale destino è poi un dovere nei confronti di tutti gli elettori ancora schierati nel centrosinistra. Per questo chi un tempo parlava con Renzi di rottamazione, oggi dovrebbe rendersi conto che per il bene della propria parte politica è giunto il tempo di rottamare il rottamatore.
Ovvio, lo sappiamo: chi non ha coraggio non se lo può dare. Chi una concezione alta della politica non la possiede (e sono in molti) difficilmente solleva il capo per primo. L’esperienza però insegna che la paura di perdere il posto fa da sempre miracoli. Un Partito democratico ridotto ai minimi termini non è in grado di garantire un seggio in Parlamento a quasi nessuno. Molti tra quelli che oggi siedono nella direzione nazionale sono a rischio. Se vogliono provare a rientrare hanno una sola strada: allearsi con il movimento di Grasso, per poi giocarsela con centrodestra e 5Stelle in ogni collegio uninominale. Ma per farlo Renzi deve essere messo da parte.
Al Pd conviene che questo accada ora, piuttosto che dopo la sconfitta annunciata del prossimo marzo. I democratici, insomma, possono ancora provare a salvarsi. Ma il loro tempo è poco. Molto poco.

Corriere 20.12.17
Così il segretario dem ha cercato la tregua con il governatore (all’ultimo minuto)
di Federico Fubini


Non dev’essere stata facile la marcia di avvicinamento. Soprattutto negli ultimi giorni. Matteo Renzi aveva finalmente a tiro Ignazio Visco, l’oggetto di una lunga battaglia politica. Il governatore della Banca d’Italia doveva presentarsi alla commissione parlamentare sulle crisi bancarie, per l’inchiesta che proprio il segretario del Partito democratico aveva voluto. Sarebbe stata l’occasione di un chiarimento definitivo: l’ex premier è fra coloro che con più decisione avevano indicato la Banca d’Italia fra i responsabili della crisi del credito di questi anni: «Non ha garantito un sistema di controlli efficiente», aveva scritto.
Ora Renzi stava per esporre Visco, l’uomo che appena due mesi fa lui stesso voleva mandare in pensione, alle domande dei deputati e senatori del Pd. Invece il politico più determinato della sua generazione ha avuto un sobbalzo. Ha cercato un contatto con la Banca d’Italia, negli ultimi giorni, per provare a arrivare a una tregua. Non lo ha fatto direttamente — troppo complicato — ma attraverso intermediari che aprissero un dialogo con i vertici di Via Nazionale prima che Visco si sedesse davanti alla commissione.
Renzi ha spinto, proposto, fatto capire che avrebbe apprezzato qualunque disponibilità del governatore a smussare i toni, levigare gli spigoli, magari qua e là scivolare senza soffermarsi troppo.
A giudicare dalle dichiarazioni, questa offensiva diplomatica dev’essersi consumata domenica scorsa. I segni infatti il resto del mondo li nota poche ore dopo. Lunedì mattina Marco Agnoletti, portavoce di Renzi, esce con una lettera sul Fatto quotidiano nella quale si avverte un cambio di tono. Non tornano più le critiche di novembre, quando Renzi diceva che «le cose non hanno funzionato come avrebbero dovuto e potuto». Il portavoce del leader del Pd parla piuttosto di «un lavoro istituzionale ineccepibile» e «gomito a gomito coi vertici di Banca d’Italia per risolvere le varie crisi bancarie di questi anni».
Quanto a Banca Etruria, un dissesto per il quale l’ex premier solo pochi giorni fa attribuiva parte delle colpe a Via Nazionale, gli accenti diversi sono percepibili: «Dopo il commissariamento (dell’istituto, ndr) non vi è stata alcuna tensione». Si direbbe quasi che Renzi abbia cercato di sminare un po’ del terreno fra sé e Visco prima che questi prendesse la parola. Anche Maria Elena Boschi fa qualcosa di simile, sempre lunedì mattina: al Messaggero , la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio riconosce di aver parlato di Etruria — mentre suo padre ne era vicepresidente — con il vicedirettore generale della Banca d’Italia Fabio Panetta.
Se queste uscite sono tasselli dello stesso sforzo diplomatico di prevenire, sopire e sedare in vista dell’audizione di Visco, il risultato non è chiaro. Senz’altro il governatore di Banca d’Italia ieri non ha calcato i toni e ha riconosciuto che non vi sono state richieste fuori luogo da parte di Renzi e Boschi. Ma ha anche detto di non aver risposto a certe domande dell’allora premier su Etruria — lo stesso governatore le ha rivelate ieri — «perché pensavo scherzasse» e quelle di Renzi fossero uscite «divertenti»: non il modo più deferente di parlare del leader del partito di governo. Su Etruria Visco ha poi riservato anche un’altra frecciata a Renzi, rivolta più agli specialisti come lui stesso che alla platea. Lo ha fatto quando ha detto che Banca d’Italia non ha mai avvertito il governo che stava per commissariare Banca Etruria, nel febbraio 2015: così del resto prevede la legge, specie per le società quotate. Invece Renzi in un intervento sulla Stampa il 12 novembre aveva sostenuto esattamente il contrario.
Tutte schermaglie importanti per la politica, ma in termini economici irrilevanti a confronto della grande critica che ieri Visco ha mosso al governo Renzi: non aver voluto procedere nell’estate del 2016 a una ricapitalizzazione pubblica «precauzionale» della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca — circa 70 miliardi di bilancio in due — quando ancora quelle aziende si potevano salvare. Il governatore non ha aggiunto che Renzi ha sacrificato quella scelta alla campagna per il referendum costituzionale, finita comunque per lui in disfatta. Visco ha però aggiunto che poi nel 2017 le due banche erano già troppo dissanguate e a quel punto non ci fu altro da fare che liquidarle.
In aula per l’audizione Matteo Orfini, presidente del Pd, ha ascoltato senza porre una sola domanda. «Questione di stile», spiegherà più tardi .


Corriere 20.12.17
«Io serena» Ma il partito ne sonda il gradimento
di Maria Teresa Meli


Maria Elena Boschi appare sorridente e tranquilla nel giorno dell’audizione di Ignazio Visco. A qualche collega di partito, durante la cerimonia degli auguri al Quirinale, la sottosegretaria confida: «Bene, il governatore ha confermato che da parte mia non ci sono state pressioni. Spero che l’accanimento nei miei confronti cessi». Boschi non sembra in ansia nemmeno per l’audizione di oggi di Federico Ghizzoni. Al Nazareno sono convinti che anche l’ex amministratore delegato di Unicredit dirà che l’allora ministra non ha fatto nessuna pressione. È un altro, piuttosto, il motivo di preoccupazione dei vertici del Partito democratico: questo «caso» inciderà sulle elezioni? Insomma, per dirla con le parole di un renziano di rango, «il Pd riuscirà a risalire la china»? L’altro ieri da un focus group della Swg alla presenza di alcuni dirigenti del partito sono emersi segnali allarmanti. Il cosiddetto «giglio magico» viene visto come una sorta di «cricca» e Boschi è stata molto criticata. L’opinione prevalente emersa da quel focus che ha lasciato di sasso i vertici del Nazareno è che la sottosegretaria non si dovrebbe candidare alle prossime elezioni. È un’opinione, questa, condivisa anche da alcuni esponenti della minoranza. Come Orlando, secondo il quale sulla candidatura di Boschi «bisogna ragionare bene». O Cuperlo, che sulla sottosegretaria la pensa così: «Avrebbe fatto bene a seguire l’esempio di Renzi e a non entrare al governo dopo la sconfitta della sua riforma. Ci sono momenti nella vita politica in cui dire di no aiuta a difendere la propria credibilità». E così, nonostante le chiare parole di Visco, per Boschi, a quanto pare, il calvario non è finito. A gennaio il partito deciderà della sua candidatura. Renzi e Gentiloni hanno già detto che secondo loro dovrà presentarsi alle elezioni. Ma la parola finale spetta alla direzione del Partito democratico.

Il Fatto 20.12.17
Altro che rilancio, la Commissione è la resa di Renzi
Banche - Il segretario Pd voleva l’inchiesta parlamentare per ribaltare la “narrazione”, ma resta inchiodato a Etruria e deve celebrare Visco
Altro che rilancio, la Commissione è la resa di Renzi
di Wanda Marra


Ringrazio molto il governatore Visco per le parole di apprezzamento che ha rivolto al mio governo (…) Confermo che abbiamo sempre avuto la massima collaborazione istituzionale”. La nota di Matteo Renzi arriva mentre l’audizione di Ignazio Visco davanti alla Commissione Banche è in corso. Il governatore ha parlato dell’interessamento di Renzi per Banca Etruria e pure degli incontri di Maria Elena Boschi con il numero 2 di via Nazionale, Fabio Panetta. Ma negando “pressioni” esplicite. E il segretario del Pd immediatamente risponde con una nota scritta che sarebbe di giubilo, se lo stile non fosse così deferente, da apparire mascherato.
L’effetto è straniante. La Commissione d’inchiesta non doveva servire a chiarire quanto successo nel sistema bancario negli ultimi 15 anni? E nelle intenzioni dell’ex premier, non doveva essere lo strumento per attaccare Bankitalia e Visco in campagna elettorale? Basterebbe la nota di ieri, che celebra con sollievo il fatto che poteva andare peggio, a spiegare che boomerang si è rivelata l’operazione per il segretario Pd. D’altra parte, Luigi Zanda, capogruppo al Senato, lo aveva avvertito. La commissione “ci sta, ma non in campagna elettorale. Verrebbe usata per regolare conti politici”, aveva detto in un’intervista a Repubblica a marzo. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella era fermamente contrario: temeva in un’operazione fuori controllo che mettesse in crisi le istituzioni tutte. Renzi è andato avanti per la sua strada. Accumulando errori. “Penso che il tema di Banca Etruria torni ciclicamente. Su queste vicende ci vuole grande chiarezza: il mio governo non ha fatto favoritismi”, diceva all’Arena di Giletti a maggio. Fedele alla premessa e all’obiettivo, Renzi sceglieva di mandare in Commissione i “fedelissimi”: Francesco Bonifazi, Matteo Orfini, Andrea Marcucci, prima di tutto. Persone di cui si fida, ma non esattamente esperte della materia. Che infatti, non sono riuscite a gestire, nonostante il Pd sia in maggioranza. Pier Ferdinando Casini, eletto presidente, e poi “promosso” a federatore della lista di centro da coalizzare con il Pd si è rivelato una garanzia insufficiente: non si è opposto all’audizione di Federico Ghizzoni, ex ad di Unicredit.
L’attacco frontale Renzi l’ha lanciato il 17 ottobre presentando una mozione di sfiducia a Visco, scritta dagli uffici della Boschi, senza dirlo né a Gentiloni, né a Mattarella. Doveva essere, la prima mossa, per arrivare ad attaccare anche Mario Draghi. Che Visco venisse riconfermato, Renzi lo aveva messo nel conto. Ma pensava di aver trovato il capro espiatorio contro le banche per la campagna elettorale. “Ma davvero voi pensate che il problema delle banche italiane sia Banca Etruria sia una banca piccola così?”, continuava a ripetere durante il tour in treno. Il messaggio che è passato è stato esattamente quello. Nonostante lo scontro a distanza sui mancati controlli nelle successive audizioni (il 9 novembre) di Consob e Bankitalia sulle Banche Venete. Il culmine è stato Roberto Rossi, pm di Arezzo (30 novembre): davanti alla Commissione ridimensiona il ruolo di papà Boschi nella bancarotta di Banca Etruria e getta ombre sulle pressioni che Banca d’Italia fece per un matrimonio fra la stessa Etruria e Popolare di Vicenza. Renzi cantava vittoria: “Maria Elena potrà avere giustizia con le querele”. Due giorni e si è vista l’imprudenza di quelle dichiarazioni: Pierluigi Boschi era indagato in un altro filone d’inchiesta di cui Rossi (che peraltro era stato consulente di Renzi a Palazzo Chigi) sapeva e ha taciuto. A quel punto, è stata tutta un’escalation. La sottosegretaria si è messa al centro della scena annunciando, con 7 mesi di ritardo, azioni legali nei confronti di Ferruccio de Bortoli, reo di aver rivelato i suoi incontri con Ghizzoni. Un modo per cercare di bloccarne l’audizione. Fallito.
Ghizzoni verrà audito oggi. Ma ormai la stessa Boschi ha ammesso di aver parlato di Banca Etruria con lui, ma anche con Giuseppe Vegas, ex capo della Consob e con Panetta. Lo stesso Vegas giovedì ha raccontato in audizione di averla incontrata anche a Milano. Lei ha invitato Marco Travaglio, direttore del Fatto, a un duello tv. Nel giorno in cui il Senato approvava il biotestamento: un traguardo per il Pd di Renzi. Oscurato. Lunedì in Commissione banche ci è andato il ministro dell’Economia, Padoan: ha chiarito di non aver incaricato i ministri di parlare di banche. E Boschi a che titolo si muoveva? E così, l’audizione di Visco che doveva essere il climax della campagna di Renzi contro Bankitalia, è l’ennesimo boomerang. Con il Colle che benedice la tregua obbligata. Oggi c’è Ghizzoni. Vedremo.

Corriere 20.12.17
Ora il centrodestra è a quota 281 seggi Maggioranza difficile anche con larghe intese
Le ipotesi sulla Camera: 158 a M5S, 151 al Pd
di Nando Pagnoncelli


Le intenzioni di voto pubblicate domenica dal Corriere segnalavano un calo del Pd, solo in parte compensato dalla crescita delle forze alleate, una contrazione del M5S, il centrodestra complessivamente accreditato del 36% dei voti validi, la sinistra stabile al 6,6%.
Con questi numeri il centrodestra risulterebbe avere complessivamente 281 seggi (sommando scranni provenienti dai collegi uninominali e dal proporzionale), seguito dal M5S con 158 deputati, dal Pd con 151, e da Liberi e uguali con 27 seggi tutti provenienti dal proporzionale. Alternativa popolare al momento non raggiunge la soglia di sbarramento e non è stata considerata, a differenza delle altre volte, come alleata del Pd, tenuto conto delle divisioni che attraversano la formazione.
Gli andamenti premiano con evidenza il centrodestra che, rispetto alle stime di poco più di un mese fa, guadagna 29 seggi, a scapito dei 5 Stelle (che ne perdono 15) e del Pd (che ne perde 13), mentre Liberi e uguali ne guadagna 3, anche grazie al mancato ingresso in Parlamento di Alternativa popolare.
Come mai questi cambiamenti? Il centrodestra guadagna qualche seggio nel proporzionale (5 in totale), ma ben 24 nel maggioritario. Il calo di Pd e M5S infatti fa sì che una parte dei collegi cosiddetti marginali, cioè dove le distanze sono ridotte, passi da queste formazioni al centrodestra, in particolare al Sud, sottraendoli soprattutto ai pentastellati le cui perdite sono appunto concentrate nel maggioritario.
Ma il dibattito di questi giorni è incentrato sulla possibilità che la coalizione di centrodestra arrivi alla maggioranza assoluta, grazie alla «soglia implicita» del 40%. In realtà questa ipotesi al momento parrebbe di non facile realizzazione. I calcoli sono semplici. Per avere la maggioranza alla Camera occorrono 316 deputati. La coalizione (o la forza politica) che ottiene il 40% si porta circa 160 deputati dalla quota proporzionale. Per arrivare alla maggioranza occorrono ancora 156 deputati. Che corrispondono a circa il 68% dei deputati eletti con il sistema uninominale (231, escludendo la Valle d’Aosta). Infine va notato che i conflitti degli ultimi giorni e le polemiche sempre più marcate tra Salvini e Berlusconi non giovano alla coalizione. Certo quello del centrodestra è un elettorato che più facilmente degli altri si «cumula», superando differenze anche importanti. Ma le divisioni interne possono allontanare più di un elettore.
Ci sono altre maggioranze possibili? Se usciamo da quella che viene considerata fantapolitica, cioè l’idea di un accordo Pd-5Stelle, le altre ipotesi praticabili non producono maggioranze. Una di cui si parla è riferita alle cosiddette larghe intese, cioè un’alleanza Pd-Forza Italia. Diventa difficile dare numeri, poiché bisognerebbe sapere quanti deputati uninominali eleggerebbe Forza Italia. Ma anche ammettendo che ne ottenesse la metà di quelli guadagnati dal centrodestra, non sarebbero comunque sufficienti. La somma finale infatti darebbe 286 deputati, non abbastanza. Lo stesso o quasi avverrebbe per un’ipotetica coalizione definita «antisistema», composta da M5S, Lega e Fratelli d’Italia. In questo caso, sempre assegnando a queste due forza metà dei seggi uninominali del centrodestra, si arriverebbe a un totale di 304 seggi. Più vicini, ma ancora insufficienti. Insomma, allo stato dell’arte, sembra proprio che dal voto possa sortire un Parlamento ingovernabile. A meno di una crescita sensazionale di una delle formazioni in campo o di schemi di alleanze che la nostra fantasia non riesce a prevedere.
Gli scenari che si aprono sono quindi piuttosto complessi. Il ritorno al voto a breve (qualcuno lo ritiene probabile accennando al fatto che diversi leader non si candiderebbero in questa occasione aspettando il voto «vero», cioè quello successivo) sarebbe sensato solo se si cambiasse la legge elettorale, con una torsione maggioritaria più netta. In un sistema tripolare sarebbe probabilmente necessario il doppio turno, per garantirsi la governabilità. Ma questo è stato già bocciato dalla Consulta. E comunque, per cambiare in un senso o nell’altro la legge elettorale, si dovrebbe avere un governo di scopo, con un accordo solido e con la capacità di fare fronte anche alle altre scadenze inderogabili, tra cui le manovre di aggiustamento dei conti, cosa che sembra davvero difficile.
L’ultimo scenario è quello della prosecuzione del governo attuale. Qualcuno la chiama prorogatio, ma forse non è proprio così. In fondo Gentiloni rimarrebbe comunque in carica, pur se solo per il disbrigo degli affari correnti. E tutto sommato l’indice di gradimento del governo (40,5) e del presidente del Consiglio (42,1) di questi tempi non sono così male.

Il Fatto 20.12.17
E Papà Boschi si salvò dal processo per 250 mila euro in nero


Salvato da un processo per evasione fiscale per un pagamento in nero di 250 mila euro. È quanto capitato a Pier Luigi Boschi, scrive La Verità, che cita un’inchiesta dalla quale il padre dell’ex ministra sarebbe stato risparmiato grazie alla benevolenza dell’Agenzia delle Entrate, che avrebbe accettato “una versione di comodo contraddetta dalle risultanze investigative della Guardia di Finanza”. Boschi alla fine ha pagato una multa inferiore rispetto a quella prevista dalla Gdf e, soprattutto, ha evitato un processo penale. La vicenda all’epoca era stata raccontata anche da Panorama e Fatto: nel 2007 Boschi aveva portato a termine un affare immobiliare con un socio calabrese, Francesco Saporito, sospettato dalla Dda di Firenze di legami con la ‘ndrangheta (a suo carico non risultano condanne per criminalità organizzata). Boschi, tramite la coop agricola Valdarno superiore, di cui era presidente, aveva acquisito una tenuta dell’Università di Firenze. Un acquisto a trattativa privata per un acquirente reso noto solo in seguito: una società ad hoc – la Fattoria Dorna – di cui Boschi deteneva il 90% delle azioni, il 10% Saporito. Dopo l’acquisto, la quota di partecipazione di Pier Luigi Boschi è stata ridotta progressivamente. Nel frattempo, però, il padre di Maria Elena aveva cercato di vendere alcuni lotti. E qui entrano in gioco i 250 mila euro: secondo l’acquirente di uno dei rustici, Boschi pretese e ottenne un pagamento in nero – 500 banconote da 500 euro – al momento del rogito (come prova dello scambio ha consegnato alla Gdf le fotocopie dei contanti). A fine 2013 la Finanza contestò a Boschi senior un’imposta evasa di 107 mila euro, cifra per la quale rischiava il processo penale. Per La Verità, Boschi si difese così: “Qualsiasi eventuale somma di denaro avrebbe dovuto essere riferita alla società, e in caso al suo amministratore in carica al momento che qui interessa”. Ovvero Saporito, titolare all’epoca del 63,8% delle quote (a Boschi spettava il restante 36,2%). Boschi avrebbe quindi scaricato sul socio la responsabilità del “nero” (che al giornale di Belpietro dichiara: “Me l’ha fatta sporca”). L’Agenzia delle Entrate, nell’aprile 2014, ha sposato la tesi di Boschi: la multa è stata divisa in quote e il padre dell’ex ministra ha dovuto restituire all’erario “solo” 38.900 euro, cifra inferiore ai limiti di legge che avrebbero fatto scattare il processo penale.

Il Sole 20.12.17
All’Aran. Da oggi rush finale della trattativa, con l’obiettivo di chiudere venerdì e portare i ritocchi in busta paga all’inizio della primavera
Statali, 50 euro netti in più a tutti
Nuovi contratti verso una distribuzione lineare degli aumenti, con salvaguardia per i redditi bassi
di  Gianni Trovati


ROMA Il nuovo contratto degli statali avvia oggi quella che dovrebbe essere la stretta finale delle trattative, ed è destinato a tradursi in circa 50 euro netti al mese di aumenti. La prospettiva è quella di un ritocco in busta paga sostanzialmente uguale per tutti, perché i tempi sono stretti e la pressione per recuperare almeno in parte gli otto anni di congelamento delle buste paga sono forti.
In pratica, gli 85 euro medi promessi dall’intesa del 30 novembre scorso e finanziati dalla legge di bilancio attesa in settimana all’approvazione definitiva dovrebbero distribuirsi in parti uguali fra le buste paga di tutti i dipendenti. E questa linea, una volta fissata dal contratto per le «funzioni centrali» (i circa 240mila dipendenti che lavorano in ministeri, agenzie fiscali ed enti pubblici non economici), sarà ripetuta in tutti gli altri rami della Pa, dagli enti territoriali alla sanità fino alla scuola. Per un ministeriale medio, che oggi secondo i calcoli dell’Aran guadagna poco più di 28.500 euro lordi all’anno, gli 85 euro lordi si traducono in 50 euro al mese al netto di Irpef e addizionali, e analogo è l’effetto sullo stipendio-tipo del dipendente degli enti pubblici (quasi 41mila euro lordi oggi).
A portare verso questa omogeneità di trattamento sono due fattori. Il governo ha manifestato in più di un’occasione l’idea di destinare al “tabellare”, cioè alle voci fisse uguali per tutti, solo una parte degli aumenti, ma l’intenzione si scontra con le richieste sindacali alimentate dal fatto che il contratto in cantiere riguarda un triennio (2016-2018) per due terzi già trascorso.
Governo e sindacati, poi, sono accomunati dalla fretta di chiudere il prima possibile la trattativa, per portare gli aumenti in busta paga in tempo utile per le elezioni e per il rinnovo delle Rsu negli uffici pubblici. L’obiettivo è ambizioso con l’ipotesi di urne il 4 marzo, perché dopo l’accordo il testo deve passare da Corte dei conti e Ragioneria generale per ottenere tutti i bolli necessari alla firma finale, e pare più alla portata del voto sulle rappresentanze sindacali, soprattutto se si terrà dopo Pasqua. In ogni caso bisogna fare in fretta, perché l’accordo sulle funzioni centrali aprirebbe la strada agli altri contratti, che riguardano quasi 3 milioni di persone.
L’idea alla base della «piramide rovesciata» ipotizzata a suo tempo da Funzione pubblica, cioè di un occhio di riguardo per gli stipendi più bassi e di un trattamento meno generoso con quelli più alti, dovrebbe quindi manifestarsi solo per il primo aspetto. Per attuarlo è stato abbozzato quello che il nuovo testo di contratto definisce «elemento perequativo» (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), che in pratica serve a garantire il mantenimento degli 80 euro a chi li riceve oggi. L’aumento contrattuale, infatti, avrebbe tagliato o azzerato il bonus a circa 300mila persone che oggi guadagnano fra 24-26mila euro lordi, in uno scambio fra 85 euro lordi in entrata e 40-80 netti in uscita (a seconda del livello di partenza) che avrebbe finito per rendere netto o addirittura in perdita l’effetto del rinnovo contrattuale. La prima mossa per evitare il problema è stata fatta in manovra ed ha alzato da 24mila a 24.600 euro la soglia di reddito che inizia a far scendere il bonus, e da 26mila a 26.600 quella che lo cancella. Ma come previsto, la novità non è sufficiente a garantire tutti, e il compito di finire il lavoro sarà assegnato appunto alla salvaguardia aggiuntiva scritta nelle bozze di contratto. Il suo non sarà in ogni caso un lavoro semplice, perché per riuscire dovrà incrociare tutte le variabili senza comunque poter agire sui redditi diversi da quelli da lavoro, che entrano nel calcolo alla base della distribuzione del bonus.
L’altro compito chiave, quello di differenziare le buste paga, toccherà invece al nuovo sistema dei premi, e in particolare alla regola contrattuale che chiederà di riservare le maggiorazioni individuali al 30% del personale e di azzerarle quando le valutazioni migliori riguarderanno più di 4 dipendenti su dieci. Ennesima variazione sul tema eterno della «meritocrazia», i cui effetti andranno testati sul campo.