venerdì 1 dicembre 2017

Corriere 1.12.17
Santa Sede Il caso
Vaticano, guerra su conti e immobili Tremano altri dirigenti dello Ior
Le accuse: Mattietti voleva portare via carte riservate. Milone: non lo conosco
di Fiorenza Sarzanini

ROMA Altre teste potrebbero cadere dopo quella di Giulio Mattietti, il direttore «aggiunto» dello Ior licenziato lunedì scorso. Perché la decisione di mandare via il manager — addirittura facendolo accompagnare dai gendarmi fuori dalle Mura — appare come il nuovo capitolo della guerra che si sta consumando in Vaticano sulla gestione del settore finanziario. Con un’attenzione particolare ai conti «laici» tuttora aperti presso l’Istituto per le opere religiose. Si tratta dei depositi intestati a persone esterne alla Santa Sede delle quali non si conosce — per la maggior parte — l’identità. Ma non solo. Perché l’interesse delle due fazioni che ormai da tempo si fronteggiano, anche con l’utilizzo di dossier segreti e ricatti, riguarda pure la gestione delle altre «casseforti» come l’Apsa — l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica — e Propaganda Fide, intestataria di centinaia di immobili in tutta Italia.
L’inchiesta interna
Ieri la Santa Sede ha confermato l’apertura di un’inchiesta interna sul conto di Mattietti, anche se al momento si continua a parlare di «violazioni amministrative». Secondo alcune indiscrezioni circolate due giorni fa, al manager sarebbe stato contestato di aver consegnato documenti a Libero Milone quando ancora ricopriva la carica di Revisore.
Una ipotesi che lo stesso Milone — che fu licenziato a giugno e tre mesi dopo ha raccontato di essere stato costretto a dimettersi con la minaccia di essere arrestato — nega categoricamente attraverso i suoi due avvocati, Lorenzo Fiorani e Gianfranco Di Simone: «Non ho mai avuto rapporti personali con il dottor Giulio Mattietti — sottolinea l’ex Revisore —, né l’ho mai conosciuto. In ogni caso non avevo alcun potere di vigilanza sullo Ior, in virtù di un allegato del 9 giugno 2015, sottoscritto dal Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin».
Dimissioni e minacce
Attraverso l’agenzia Ansa fonti anonime della Santa Sede fanno filtrare la notizia che l’allontanamento di Mattietti dal suo ufficio sarebbe stato deciso all’improvviso «da sei cardinali componenti la commissione di vigilanza per evitare che portasse via documenti». Nulla viene aggiunto sulla contestazione amministrativa che gli è stata mossa e questo alimenta il mistero sulla natura delle «carte» che avrebbe potuto trafugare, ma anche sulla fondatezza delle accuse. Perché proprio all’interno del Vaticano c’è chi accredita la possibilità che in realtà il manager sia stato mandato via perché ritenuto non in linea con il suo diretto superiore Gianfranco Mammì. E non sarebbe l’unico. Ci sarebbero altri funzionari a rischio licenziamento e quelli già mandati via avrebbero parlato di un clima di autentico terrore nei confronti dei dipendenti di diversi uffici specializzati, Ior compreso, costretti a firmare la lettera di dimissione anche loro sotto la minaccia di essere messi sotto inchiesta o addirittura agli arresti.
I dossier segreti
Nei prossimi giorni dovrebbe essere chiusa l’indagine avviata nei mesi scorsi proprio sull’attività di Milone, accusato di aver svolto attività di dossieraggio nei confronti di numerosi prelati. Era stato il sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Angelo Becciu, a dichiararlo pubblicamente sostenendo di essere tra le persone «spiate».
L’esito degli accertamenti potrà fornire ulteriori elementi sullo scontro interno che si sta consumando, coinvolgendo persone che erano state scelte direttamente da papa Francesco, primi fra tutti proprio Milone e Mattietti.

Corriere 1.12.17
Bonus solo a madri italiane «L’Inps fa discriminazione»
A Bergamo il ricorso di 24 donne, il giudice condanna l’Istituto
La sentenza: «Dare gli 800 euro anche alle mamme straniere»
di Luigi Ferrarella

Milano L’Inps commette «condotta discriminatoria» se non applica parità di trattamento tra genitori italiani e genitori stranieri sugli 800 euro del cosiddetto «bonus mamma domani»: cioè sui soldi che un anno fa la legge 232 — senza nulla distinguere in tema di nazionalità delle beneficiate — aveva introdotto a favore di tutte le mamme almeno al settimo mese di gravidanza tra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2017, ma dai quali poi l’Inps con una semplice circolare aveva ritenuto di poter escludere le mamme straniere prive di permesso di soggiorno di lungo periodo.
Per la prima volta il Tribunale di Bergamo, sezione Lavoro, dando ieri ragione a 24 madri provenienti da Egitto, Marocco, Senegal, Pakistan, Ecuador, Bolivia, India, Burkina Faso, Tunisia, Albania, Costa d’Avorio, Nigeria, ma residenti da anni in Italia con figli tutti nati in provincia di Bergamo, ha stabilito che escluderle dal beneficio degli 800 euro contrasta non soltanto con il testo della legge italiana, ma anche con la direttiva 2011/98 dell’Unione Europea che assicura la parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni di maternità a tutti i migranti titolari di un permesso per famiglia o per lavoro.
L’Inps è stata perciò condannata dal giudice del Lavoro Sergio Cassia a «cessare la condotta discriminatoria», a pagare alle mamme «le somme non corrisposte» (cioè gli 800 euro più interessi), e a versare loro anche 3.000 euro come forfait per le spese.
Questa decisione — la prima sull’una tantum da 800 euro del «bonus mamma domani» — va dunque nel senso già affermato da sentenze di Milano, Brescia, Biella e Torino nell’invece differente caso di un’altra misura a sostegno della maternità quale il «bonus bebè», e cioè l’assegno di natalità introdotto nel 2014 che proprio in questi giorni governo e Parlamento all’interno della legge di Bilancio stanno rimodulando.
Tanto che ieri gli avvocati Alberto Guariso e Ilaria Traina (che per Asgi-Associazione studi giuridici sull’immigrazione, hanno seguito la causa con la Cgil di Bergamo), auspicano che la sentenza sia «sollecitazione al governo affinché, nel decidere sulla proroga del “bonus bebè”, non ignori ancora una volta la necessità sociale e l’obbligo giuridico di non escludere le famiglie straniere da queste forme di sostegno», pena il rischio per l’Italia di subire dall’Europa una procedura di infrazione.
Il nodo della decisione è, infatti, laddove il Tribunale scrive che l’articolo 12 della direttiva 2011/98/UE, «non recepito nel nostro ordinamento nonostante la scadenza dei termini, stabilisce che i cittadini di Paesi terzi, ai quali è consentito lavorare e in possesso di un permesso di soggiorno, beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato in cui soggiornano per quanto concerne i settori della sicurezza sociale, quale appunto il sostegno alla maternità».
E «tale disposizione ha efficacia diretta nell’ordinamento interno, in quanto chiara e incondizionata: ne consegue che tutti gli organi dello Stato hanno l’obbligo di applicarla direttamente e ogni disposizione nazionale contrastante, gerarchicamente subordinata, deve essere disapplicata».

il manifesto 1.12.17
La Palestina presa in Giro
Partenza tutta in salita per il Giro d’Italia 2018 da Gerusalemme. Gli organizzatori si piegano al ricatto di Netanyahu che, pena il ritiro dei finanziamenti, ordina di non usare la dicitura «Ovest» in riferimento alla parte israeliana della città. Come invece il diritto internazionale esige. Un’altra rovinosa caduta sportiva e politica dell’Italia

Che meraviglia: in Italia si discute sul Giro d’Italia e sulle sue prime tappe in Israele. Ed è grande l’attesa di una nuova opportunità per il presidente statunitense Donald Trump, che in questi giorni deve decidere se rinviare lo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme.
Gli italiani, come gli europei e gran parte degli israeliani, sembrano aver dimenticato il conflitto israelo-palestinese. Grazie a Daesh (il sedicente Stato islamico) e al duro lavoro delle destre europee.
Razzismo e islamofobia stanno dilagando e permettono di dimenticare l’esistenza di una grande prigione chiamata Gaza e del regime di apartheid vigente in Cisgiordania.
Ma finalmente succede qualcosa, grazie al Giro d’Italia.
C’è da dire che oggi alcuni bambini delle colonie israeliane nei territori occupati sarebbero stati presi a sassate da palestinesi; così un padre, un orgoglioso colono sentitosi in pericolo, ha sparato «per autodifesa». Un palestinese è morto.
Grazie al Giro d’Italia, in Italia non sanno che alcune ore fa un gruppo della jihad islamica ha sparato missili contro una base israeliana nel sud; la risposta è stata rapida ed energica e una escalation è sempre possibile.
Il dibattito fra gli italiani è molto acceso: si tratta di sport, biciclette, muscoli, mens sana in corpore sano…e noi qua a discutere di gravi casi di corruzione, e di iniziative legislative che intaccano ogni giorno di più le caratteristiche fondamentali di quella che era «l’unica democrazia del Medioriente» e che si sta trasformando in una triste etnocrazia. Fortunatamente i nostri grandi ministri della cultura e del turismo difendono il patrimonio nazionale.
La ministra dello sport e della cultura non si fa assorbire solo dai problemi relativi al Giro d’Italia e oggi ha chiesto di avviare un’indagine sulla Cineteca di Tel Aviv, perché il prossimo sabato è in programma la proiezione dell’interessante film di un regista palestinese, sui periodi più difficili del passato.
«Biciclette a Gerusalemme», «La città unificata per sempre». Ma sarebbe utile vedere che cosa significa quest’unificazione.
Per fortuna i nostri governanti sono molto saggi e sanno che non ci sono Gerusalemme orientale e Gerusalemme occidentale. La città è tutta israeliana! Perciò stanno cercando di vedere come lasciar fuori dal suo perimetro – senza mollare il terreno – gli abitanti dell’accampamento di rifugiati di Shoafat, con oltre 80mila abitanti.
«Unificata per sempre»…Sì: con un 60% di abitanti israeliani con pieni diritti umani e politici e un 40% di palestinesi di seconda categoria e senza identità nazionale. Effettivamente, non si tratta di parlare di est od ovest, non c’è differenza dice la ministra della cultura…
Per fortuna io (chi scrive ndr) vivo a Gerusalemme occidentale, piena di servizi municipali, il sindaco ascolta le eventuali lagnanze dei cittadini, possiamo muoverci, costruire,vivere, andare a scuola…Invece a Gerusalemme Est mancano oltre 1.000 classi.
Quel che raccontavo sul manifesto del 1987, a 20 anni dall’occupazione del ’67 di Gerusalemme, l’arretratezza, l’oppressione, la discriminazione non si sono mai ridotte.
Al tempo, quantomeno, avevamo il conforto delle idee liberali e la speranza in un futuro migliore; oggi il sindaco, che cerca di farsi avanti nel partito di governo, è uno dei portavoce entusiasti di una politica discriminante e ultra-nazionalista.
Arrivino pure gli atleti del Giro d’Italia e le loro biciclette. Ma sarebbe utile che transitassero un po’ per le due Gerusalemme della Gerusalemme unificata. Così da vedere l’orwelliana realtà di un apartheid sfrenato in continuo peggioramento.
Gli italiani dovrebbero parlare seriamente con la nostra ministra dello sport e il nostro ministro del turismo, così da vedere con spaventosa chiarezza gli abissi di nazionalismo discriminante e sfrenato ai quali si sta arrivando qui. Posso consolarmi solo immaginando il grande presidente Trump in bicicletta in testa ai ciclisti del Giro.
Ma chissà se arriverà: uno dei portavoce della Casa bianca, alla domanda sulla possibile decisione presidenziale in questi giorni sull’ambasciata Usa, ha detto che gli sono arrivati molti messaggi, da Abu Mazen, dal re di Giordania: per avvertire che il trasferimento della sede diplomatica a Gerusalemme potrebbe danneggiare il processo di pace.Tuttavia, ha aggiunto, il passo non sarebbe tanto grave perché l’ambasciata avrebbe sede nella parte occidentale di Gerusalemme.
Attenzione, il caro ministro israeliano della cultura Miri Regev deve tirare le orecchie anche agli Stati uniti.

il manifesto 1.12.17
Israele minaccia, il Giro esegue. Tolto “Ovest” da Gerusalemme
Israele/Palestina. Nel sito della corsa era stata aggiunta una dicitura più vicina al diritto internazionale
di Michele Giorgio

GERUSALEMME La Rcs Sport, organizzatrice del Giro d’Italia 2018 che partirà da Gerusalemme, piazza lo scatto vincente, supera in volata Donald Trump, e arriva prima alla proclamazione di fatto della Città Santa unita sotto la sovranità esclusiva di Israele. Mentre circolano insistenti le voci di un imminente riconoscimento Usa di tutta Gerusalemme capitale di Israele, inclusa la sua parte Est, palestinese, occupata da 50 anni, ieri gli organizzatori della celebre corsa a tappe hanno rimosso dal sito ufficiale del Giro la dizione “Ovest” accanto a Gerusalemme per indicare la sede della cronometro inaugurale prevista il prossimo 4 maggio. «Quella dicitura non ha alcuna valenza politica», ha comunicato Rcs Sport, «indica soltanto l’area logistica della città in cui si svolgerà la corsa. È stata subito rimossa da ogni materiale del Giro».
Sono bastate le proteste di due ministri israeliani e la minaccia di ritirare i cospicui fondi del governo Netanyahu per il Giro, per indurre l’organizzazione e il direttore della corsa, Mauro Vegni, a rimuovere all’istante la dizione “Ovest”. «Non esistono Gerusalemme Ovest e Gerusalemme Est ma un’unica Gerusalemme capitale di Israele», hanno tuonato i ministri della cultura e dello sport Miri Regev e del turismo Yariv Levin. «Quelle pubblicazioni sono una infrazione delle intese col governo israeliano e se non saranno cambiate – hanno minacciato – Israele non parteciperà all’evento». Israele, si dice, avrebbe messo a disposizione del Giro 10 milioni di euro e altri due milioni per la partecipazione del campione britannico Chris Froome.
«Lo sport non fa politica», avranno pensato quelli della Rcs Sport, o, peggio ancora, avranno pronunciato banalità del tipo «Lo sport avvicina i popoli in conflitto». Ma in questa terra tutto è politica. Lo dimostra proprio l’idea del governo Netanyahu di usare il ciclismo del livello più alto per un’iniziativa internazionale di pubbliche relazioni volta a celebrare Israele e il 70esimo anniversario della sua fondazione. Gerusalemme, proclamata tutta capitale di Israele con atti unilaterali non riconosciuti, è il simbolo della questione israelo-palestinese. Se Israele ripete che farà mai compromessi su Gerusalemme, i palestinesi reclamano diritti su almeno una parte, quella Est, della città in cui vivono da secoli. Tutto ciò i capi del Giro d’Italia non lo hanno tenuto in conto. Vegni si giustifica sostenendo di aver concordato il percorso della crono inaugurale tenendo conto delle linee guida della Farnesina per evitare «polemiche politiche». Piuttosto avrebbe dovuto coinvolgere anche i rappresentanti dei palestinesi se davvero, come afferma, intendeva organizzare un evento sportivo per i due popoli. Invece li ha coscientemente ignorati, assieme alle risoluzioni internazionali, per non irritare Israele e per assicurare al Giro i milioni di dollari promessi dal governo Netanyahu.
Il quotidiano Israel HaYom ieri riferiva che Regev e Levin accusano gli organizzatori della corsa di aver ceduto alle pressioni degli attivisti filo-palestinesi e di aver introdotto la dizione “Gerusalemme Ovest” per rimarcare che la città è composta da una parte ebraica e una palestinese. Almeno in parte è vero. Più di 120 organizzazioni per i diritti umani, sindacati, associazioni per il turismo etico, gruppi sportivi e religiosi hanno firmato un appello per invitare il Giro a non andare in Israele in considerazione, scrivono, delle «sue gravi e crescenti violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani dei palestinesi». Tra i firmatari ci sono anche il linguista Noam Chomsky, i giuristi John Dugard e Richard Falk, l’attore e drammaturgo Moni Ovadia, l’ex vice presidente del Parlamento Europeo Luisa Morgantini, Fiom-Cgil e Usb nonchè le reti Pax Christi, la Comunità di San Paolo ed Ebrei Contro l’Occupazione. Il 25 e il 26 novembre in tutta Italia si sono svolti cicloraduni di protesta. Manifestazioni che con ogni probabilità hanno indotto gli organizzatori della corsa ad aggiustare il tiro almeno sul sito e il canale youtube del Giro 2018. Poi è giunta l’istantanea e clamorosa retromarcia dopo le proteste di Israele.
Debole la reazione palestinese. L’ambasciata di Palestina a Roma ha diffuso un breve comunicato in cui, ricordando lo status internazionale di Gerusalemme, si rammarica per la politicizzazione del Giro d’Italia e rivolge una critica leggera a Rcs Sport e a Vegni che, secondo i diplomatici palestinesi, agirebbero in contrasto con la politica dello Stato italiano

Il Fatto 1.12.17
Niente eredità (per legge) alle donne, Balfour alle figlie: meglio che cambiate sesso
di Sabrina Provenzani

È il discendente diretto di Arthur Balfour, che cento anni fa, il 2 novembre 1917, da ministro degli Esteri conservatore firmò la lettera a Lord Rotschild con cui il governo esprimeva simpatia per la causa sionista e per la creazione di un “focolare ebraico” sulle spoglie dell’Impero ottomano, gettando così le basi per la nascita dello Stato di Israele nel 1948.
“Pur riconoscendo i grandi risultati ottenuti da Israele, sono certo che Arthur troverebbe ‘inaccettabile’ la condizione attuale dei palestinesi”, ha dichiarato di recente in una intervista all’ Afp Roderick Francis Arthur, banchiere e quinto Lord Balfour.
Ma la campagna che davvero appassiona il baronetto oggi riguarda un’altra divisione: quella dei propri beni. La legge inglese impone che vadano tutti al figlio maschio primogenito. Rod ha quattro figlie femmine, e non accetta che le sue ricchezze passino al fratello minore, Charles George Yule Balfour.
Amara sorte riservata alla nobiltà inglese – la Corona è esentata grazie ad un voto parlamentare – e già toccata alla moglie di Sir Rod, Lady Tessa, figlia del 17° Duca di Norfolk, che ha dovuto rinunciare a titolo e castello. Balfour ha partorito un’idea originale: per aggirare una legge anacronistica e discriminatoria verso le donne, basterà trarre vantaggio dai progressi della società moderna.
Una delle figlie, preferibilmente la maggiore, Willa, che però ha marito e figli, dovrebbe dichiarare di essere in realtà sempre stata un uomo prigioniero di un corpo maschile, acquisendo così i diritti del maschio primogenito. Questo grazie ad alcuni emendamenti alla legge – già proposti con il sostegno di Theresa May – che permetterebbero a uomini e donne di procedere alla transizione verso l’altro sesso legalmente e senza controlli medici.
Uno sforzo inutile: secondo il Gender Recognition Act, una figlia maggiore che cambi sesso non sostituisce l’erede maschio. Un’interpretazione che Balfour e i suoi avvocati considerano una violazione della Convenzione europea e della legge britannica sui Diritti Umani e sono pronti a impugnare.

il manifesto 1.12.17
Argentina, dure condanne ai massacratori dell’Esma
Desaparecidos e voli della morte. Il processo a 40 anni dalla dittatura Videla ha portato a 48 condanne, 29 sono ergastoli. La sentenza di ieri è anche un lascito dell’era Kichner in un paese che teme ritorno al passato
di Claudio Tognonato

Ieri si è concluso il processo più importante e più lungo di tutta la storia dell’Argentina. Dopo 5 anni di udienze che hanno coinvolto 54 imputati e 789 vittime la causa è arrivata a sentenza con 48 condanne: 29 ergastoli, 19 colpevoli con pene da 8 a 25 anni e 6 assolti. Il processo ha giudicato la violazione dei diritti umani nel principale campo di concentramento della dittatura militare (1976-1983), la famigerata Esma, la Scuola di Meccanica Navale in cui venivano portate le persone sequestrate dal regime.
Le vittime dell’Esma sono migliaia, il processo ha riguardato solo i casi di alcuni superstiti e di molti che furono uccisi durante la tortura o gettati vivi in mezzo al mare da aerei della Marina nei tristemente celebri «voli della morte». Con queste condanne all’ergastolo si è chiuso un processo esemplare in materia di diritti umani non solo per l’Argentina ma per l’intera umanità.
Sono passati ormai 40 anni dai fatti, ma il processo ai responsabili del principale centro illegale di detenzione, tortura e morte di dissidenti politici o presunti tali, vuole rappresentare un altro passo verso il consolidamento della memoria storica. I militari condannati non si sono mai pentiti, non hanno mai collaborato con la magistratura e soprattutto non hanno mai rivelato la fine di migliaia di desaparecidos.
Ora si sa che molti desaparecidos sono in fondo al mare. Si calcola che solo con «i voli della morte» dell’Esma siano state gettate in mare vive oltre 5.000 persone. Purtroppo il patto di sangue tra i militari ha funzionato e i familiari delle vittime non sapranno mai quale fine abbiano fatto i loro cari. L’impassibile silenzio degli assassini è stato una costante in tutti i processi che si sono susseguiti in questi anni. L’impunità della dittatura però è stata possibile grazie alla complicità di molti argentini.
L’arroganza militare giocava a un doppio messaggio, da una parte nascondeva centinaia di campi di concentramento disseminati in tutto il territorio, si calcola oltre 360. Dall’altra, davanti alle telecamere, si rappresentava la normalità di un governo militare affiancato dalle più alte autorità della chiesa cattolica. Si parafrasava con insolenza Bertolt Brecht dicendo «Prima uccideremo tutti i sovversivi; poi uccideremo i loro collaboratori; poi i loro simpatizzanti; poi chi rimarrà indifferente, e infine uccideremo gli indecisi». Come dichiarò, senza scomporsi, il generale Iberico Saint-Jean, governatore della provincia di Buenos Aires, parole pubblicate in Francia da Le Monde all’inizio della dittatura. Così, la complicità di un ampio settore della società e l’indifferenza internazionale hanno reso possibile un genocidio.
La riparazione storica continua, la memoria è la facoltà che dimentica e deve essere continuamente ripresa per non ritornare all’oblio. Questo lungo percorso è iniziato nel 1985 durante il governo di Raúl Alfonsín, che condannò i membri delle Giunte militari per delitti di lesa umanità. La dura sentenza non fu però definitiva: calmate le acque, i carnefici furono beneficiati dall’indulto nel 1989 durante il governo di Carlos Menem. Ma prima ancora, nel 1986, lo stesso Alfonsín aveva fatto retromarcia e sancito le norme di «Punto finale» e «Ubbidienza dovuta», per fermare la valanga di processi aperti contro i militari. S’impedì l’apertura di nuovi processi e furono scagionati gli autori materiali di torture e omicidi sostenendo che i quadri intermedi non avevano potere decisionale. I processi sono rimasti bloccati dalle leggi dell’impunità fino al 2005, anno in cui la Corte suprema dichiarò finalmente l’incostituzionalità di quelle norme.
Grazie alle pressioni del governo di Néstor Kirchner si sono riaperti in Argentina centinaia di processi e molti imputati sono stati condannati. Lo stesso generale Jorge Videla morirà in carcere nel 2013 ammettendo la necessità della «disposizione finale» che ha lasciato 30.000 desaparecidos. Nei governi di Néstor e Cristina Kirchner la promozione dei diritti umani è rimasta al centro delle loro politiche. Néstor Kirchner si era definito nella prima assemblea delle Nazione Unite come figlio delle Madri di Piazza di Maggio.
La sentenza ora arriva in una Argentina sconvolta dal ritorno al passato con le politiche del presidente Mauricio Macri.
La dirigente indigena Milagro Sala rimane in carcere anche se la Commissione diritti umani dell’Onu, Amnesty e l’opinione pubblica internazionale considerano arbitraria la sua detenzione. Il ritorno alle politiche neoliberiste è accompagnato da politiche repressive di ogni tipo che hanno perfino provocato la scorsa settimana la morte di Rafael Nahuel, indigeno che rivendicava l’ancestrale proprietà delle terre mapuche oggi proprietà del nostro Benetton.
Sono passati 40 anni, ma le ferite non si sono mai rimarginate e il clima che si respira con il governo Macri dimostra quanto sia difficile nella storia dei popoli considerare acquisito quell’agognato «mai più», quel Nunca más che si declamava ieri in aula ed è un impegno per un futuro che non sia un ritorno al passato.

Il Fatto 1.12.17
L’angelo della morte finisce all’ergastolo
Desaparecidos - Le 48 condanne ai responsabili di torture e uccisioni del regime militare
L’angelo della morte finisce all’ergastolo
di Guido Gazzoli

Mercoledì l’Argentina ha fatto i conti ma non chiuso con il suo peggiore passato. Sono state emesse le condanne (48 in tutto) riguardanti l’Esma – la Scuola di Meccanica dell’Armata, durante la dittatura degli anni Settanta, funzionò il più rinomato dei centro di tortura – tra le quali le più risonanti sono l’ergastolo all’ex capo del gruppo di Intelligence 3.3.2 Jorge “El Tigre” Acosta, responsabile della “scuola” e l’ex ufficiale di Marina Alfredo Astiz, l’“angelo della morte” per la sparizione, tra l’altro, della ragazza svedese Dagmar Hagelin, uccisa nel 1977. Astiz si infiltrò anche come spia nelle allora appena costituite “Madri di plaza de Mayo”.
Si conclude così uno dei capitoli più dolorosi della dittatura, quando, soprattutto per decisione dell’Ammiraglio Massera, comandante in capo della Marina militare, si mise all’opera un piano di sparizioni forzate che, senza nessun tipo di processo, sentenziò l’uccisione e la sparizione di certamente almeno 9000 persone (stando alle cifre della Comision Nacional sui Desaparecidos).
L’Esma si trasformò in un simbolo di repressione e strage silenziose perché al suo interno non si consumarono solamente torture e omicidi, ma anche sparizioni e affidamenti clandestini di bambini nati in cattività e anche nel luogo dove vennero organizzati i sinistri “voli della morte”, nei quali persone narcotizzate vennero lanciate da aerei militari nel Rio della Plata.
Quarant’anni dopo, seppur la società argentina non abbia mai dimenticato la tragedia, si sta assistendo a una revisione di quegli anni che, pur senza perdono per gli autori del massacro, punta a completare il quadro storico di un periodo nel quale il Paese era lacerato da una profonda e tragica divisione tra destra e sinistra del peronismo che lo stavano portando alla guerra civile.
Nel periodo tra il 1969 e il 1975 gruppi terroristici (Montoneros e Erp) organizzarono 12.000 attentati con l’esplosione di 4000 bombe e l’uccisione di 1100 civili, favorendo così il golpe militare del 24 marzo. Delitti in gran parte rimasti senza condanne e i cui colpevoli hanno non solo goduto di amnistie ma anche occupato incarichi governativi soprattutto durante i governi di Nestor e Cristina Kirchner, tra il 2001 e il 2015. E anche alcune organizzazioni dei diritti umani si sono allontanate sempre più dalla loro funzione originale per trasformarsi in alleati del kirchnerismo e da esso trascinate in scandali di corruzione che hanno colpito specialmente le “Madri di plaza de Mayo” guidate da Hebe de Bonafini.
Quale sia la posizione attuale di parte della società argentina è emerso il 1° aprile, quando a Buenos Aires sono scese in piazza centinaia di migliaia di persone contro la glorificazione della lotta armata terrorista della prima metà degli anni 70.

La Stampa 1.12.17
Il dossier che avvelena le elezioni
di Marcello Sorgi

Pierluigi Boschi, padre della sottosegretaria Maria Elena e vicepresidente di Banca Etruria, non partecipò alle riunioni degli organi dirigenti che deliberarono i finanziamenti che poi portarono l’istituto alla bancarotta. E la Banca d’Italia, prima di procedere al commissariamento, valutò l’eventualità di far fondere Etruria con la Popolare di Vicenza, anche questa traballante e poi finita malissimo.
Nella seduta clou della commissione d’inchiesta, dedicata al più spinoso - per implicazioni politiche - e recente crac bancario, e concentrata sull’audizione del procuratore della Repubblica di Arezzo Rossi, il Pd ha segnato due punti a suo favore: ha visto sostanzialmente scagionato dalle accuse più gravi papà Boschi, bersaglio delle opposizioni per la presenza al governo della figlia, prima come ministra delle Riforme e adesso come sottosegretaria alla presidenza del Consiglio; e ha ascoltato le perplessità («Ci è sembrato un poco strano») del magistrato responsabile delle indagini su Etruria rispetto al comportamento di Bankitalia, che prima di procedere al commissariamento avrebbe incoraggiato la fusione tra due banche afflitte dagli stessi problemi e finite entrambe in liquidazione.
Il caso Etruria è la ragione per cui è nata la commissione parlamentare, con l’obiettivo di far luce sulla truffa ai piccoli risparmiatori raggirati e in parte risarciti dal governo. Renzi (che a fine ottobre, per questo, aveva osteggiato in Parlamento, senza però trovare ascolto dal governo né dal Presidente della Repubblica, la riconferma del Governatore Visco) ha sempre puntato a dimostrare che quanto è avvenuto è dipeso dalle carenze della Vigilanza di Bankitalia e della Consob, che nel corso dei lavori parlamentari si sono difese anche scaricandosi vicendevolmente le colpe. Le opposizioni, e soprattutto il Movimento 5 stelle, miravano invece sulla Boschi e sul governo presieduto dal leader del Pd.
Ieri, per quanto il presidente Casini si sia adoperato per tenere il lavoro dei parlamentari entro i canoni di un’inchiesta parlamentare, la durezza dello scontro politico tra il 5 stelle Sibilia e i membri renziani della commissione ha confermato che non sarà facile chiudere il dossier Etruria e il tema banche resterà caldo per tutta la campagna elettorale. Sibilia ha cercato di incalzare il procuratore Rossi su Boschi padre, mentre la delegazione Pd, capeggiata dal presidente del partito Orfini, ha sottolineato, parlando di «fallimento», le presunte carenze di Banca d’Italia, che in serata a sua volta con un comunicato ha precisato di non aver mai sostenuto la fusione tra Etruria e Popolare di Vicenza.
A questo punto il lavoro della commissione d’inchiesta volge al termine, visto che anche la legislatura, dopo l’approvazione della legge di stabilità e della legge sul testamento biologico, si chiuderà a cavallo di fine anno. Ma prima della conclusione arriverà l’audizione-chiave di Visco, chiamato a chiarire il ruolo di via Nazionale di fronte a quanto è emerso via via dall’inchiesta parlamentare. In quell’occasione si capirà se nella relazione finale (o nelle relazioni, perché potrebbero essere più di una, di maggioranza e di minoranza) della commissione a prevalere sarà la linea di difesa dell’Istituto di emissione: aver fatto il possibile, con più di 75 interventi diretti e liquidazioni di banche nel corso dei lunghi anni di crisi, scontando le reticenze degli amministratori infedeli, alcuni dei quali, come ad esempio proprio i vertici della Popolare di Vicenza, nascondevano agli ispettori della Vigilanza i documenti comprovanti lo stato di dissesto dei propri conti e i finanziamenti oggetto di accordi obliqui con clienti semi-falliti. Oppure se ad averla vinta sarà lo schieramento dell’accusa, con in prima linea il Pd renziano, che contesta a Visco la responsabilità dei danni subiti dai risparmiatori, attratti fraudolentemente a investire in titoli-spazzatura, da banche che approfittavano della fiducia dei loro correntisti, e secondo Renzi Bankitalia avrebbe dovuto fermare in tempo.

La Stampa 1.12.17
Il governatore Rossi querela Renzi

Lo scontro a sinistra si sposta dal piano politico alle carte bollate. L’avvocatura regionale della Toscana ha ricevuto mandato dal governatore Enrico Rossi, tra i fondatori di Mdp, di querelare il segretario del Pd, Matteo Renzi. Al centro della contesa le dichiarazioni di Renzi che due giorni fa, incontrando una delegazione di operai della ex Lucchini, avrebbe attribuito a Rossi e all’ex leader della Fiom, Maurizio Landini, la responsabilità sulla scelta dell’industriale algerino Issad Rebrab per il rilancio delle acciaierie di Piombino. «Il progetto è stato scelto attraverso una regolare procedura di gara del ministero» ha puntualizzato Rossi. Lo staff di Renzi ha smentito le dichiarazioni.

La Stampa1.12.17
Boldrini e Grasso scendono in campo
Solo Bertinotti e Fini hanno fatto come loro
Il presidente del Senato domenica battezza la “Cosa rossa”
di Fabio Martini

Ha meditato a lungo, ma alla fine Pietro Grasso ha spento gli ultimi dubbi: domenica il presidente del Senato farà il suo primo discorso da leader politico sotto il tendone del Pala Atlantico di Roma, davanti ai duemila delegati della “Cosa rossa” e al cospetto dei loro leader, Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Nicola Fratoianni. Nelle ultime settimane il presidente del Senato (che sino alla primavera 2018 resterà la seconda carica dello Stato), si era già preso libertà di parola, arrivando a scandire espressioni corrosive: «Il Pd? Forse non c’è più...». E un analogo intervento “contro” era stato pronunciato dalla presidente della Camera Laura Boldrini ad una assemblea di Campo progressista: «Credo che non ci siano più le condizioni per un’alleanza col Pd!».
Un interventismo che conferma l’intrerpretazione che i due attuali presidenti delle Camere hanno dato alla propria terzietà: vale soltanto dentro le aule parlamentari. La Costituzione non vieta espressamente ai due presidenti di svolgere un’attività politica, il che ha sempre lasciato ai protagonisti la possibilità di percorrere diverse strade. Per la verità, per decenni, i presidenti di Camera e Senato hanno fatto una sola scelta: quella di astenersi dall’attività politica. Scelta condivisa da democristiani, socialisti, liberali, ma anche da tutti i presidenti comunisti e post-comunisti: Nilde Iotti, Pietro Ingrao, Giorgio Napolitano, Luciano Violante. «Presidenze ineccepibili - sostiene il professor Paolo Armaroli, costituzionalista autore di studi sulla storia parlamentare - che traevano origine dalla decisione di Francesco Crispi, nel 1876, di farsi togliere dalla chiama e dunque di non votare mai in aula. Ma l’imperativo categorico di essere super partes anche fuori dell’aula ha indotto diversi presidenti a dimettersi. Saragat si dimise da presidente della Costituente dopo aver fondato il partito socialdemocratico. Merzagora dopo aver blandamente criticato i partiti ed esserne blandamente ricambiato. Pertini si dimise soltanto perché c’era stata la scissione Psi-Psdi. Fanfani lasciò la presidenza del Senato prima di tornare segretario della Dc. Sicuramente nessun presidente di assemblea, come hanno fatto Grasso e Boldrini, ha mai auspicato l’approvazione di una legge giacente nella propria aula o nell’altra».
Questi precedenti non hanno impedito a Gianfranco Fini e Fausto Bertinotti di interpretare il proprio ruolo in modo diverso, partecipando alla contesa politica. A quei precedenti si richiamano Grasso e Boldrini, facendo leva anche sul fatto che la legislatura è agli sgoccioli, in questo confortati dal parere di un ex come Luciano Violante: «La scelta attiva di campo a fine legislatura è nel novero delle cose possibili». Come dar ragione a quei giocatori di calcio che non vogliono l’ammonizione per un fallo grave, «perché siamo al primo minuto?». Alla fine entrambi i presidenti hanno preso la stessa decisione e cioè che un ragionevole punto di caduta sia quello di prendersi totale libertà di parola dopo l’approvazione in prima lettura della legge di Stabilità nella propria assemblea. Nel caso di Grasso, il “tana libera tutti” è scattato ieri sera, quando la Finanziaria è stata approvata. Questo significa che i due Presidenti scenderanno nell’arengo politico prima della conclusione formale ma anche sostanziale della legislatura. Perché l’assemblea di palazzo Madama è chiamata a passaggi non banali: l’approvazione del nuovo Regolamento, di alcune leggi come quelle sulla prevenzione dello jihadismo, sugli orfani di femminicidi, il biotestamento, i vitalizi e teoricamente anche lo ius soli. E il voto di fiducia sulla Finanziaria.

Repubblica 1.12.17
Il retroscena
La “ cosa rossa”
Ambiente e diritti 12 nomi per Grasso
Domenica alla convention di Mdp, Si e Possibile sarà sul palco con esponenti della società civile
di Giovanna Casadio

ROMA È pronto ad accettare la leadership della nuova Sinistra, ma mostrando subito che non si tratta della “Cosa rossa”.
Pietro Grasso, che la convention di domenica di Mdp-Si-Possibile di Civati designerà alla guida della neonata forza politico-elettorale, ha voluto con sé sul palco dodici personalità della società civile. Dodici “paladini” di altrettante battaglie condotte sui temi più caldi e cruciali, dal lavoro all’ambiente all’associazionismo. E quindi, dopo avere sciolto la riserva («Io ci sto») che finora il presidente del Senato ha mantenuto per non entrare in conflitto con il suo ruolo super partes, sarà la squadra di testimonial a raccontare il progetto della Sinistra di Grasso. Il presidente del Senato lancerà anche il nome (ma non il simbolo): il più gettonato continua a essere “Liberi e uguali. Con Grasso presidente”.
Se ne fanno anche altri, come “Italia progressista”, troppo però simile a Campo progressista di Pisapia, oltre a un acronimo infelice: “Ip”, come il brand di carburanti.
Polemiche su “Liberi e uguali” su cui il dem Stefano Ceccanti avanza il copyright ricordando che c’è un’associazione “Libertà Eguale” guidata da Enrico Morando vice ministro all’Economia. A presentare la convention dovrebbe essere Luca Telese e gli unici interventi politici quelli di Roberto Speranza, Nicola Fratoianni e Pippo Civati. I leader storici da Pierluigi Bersani a Guglielmo Epifani, Vasco Errani, Massimo D’Alema saranno in platea ad ascoltare.
Pronto anche il simbolo dell’altro pezzo di sinistra, quella di Giuliano Pisapia con il suo movimento Campo progressista.
Logo arancione e il nome di Pisapia sotto “I progressisti”.
Ormai l’accordo per l’alleanza con il Pd è vicino. Ma c’è un ultimo aut aut sullo ius soli.
Non si può ricomporre il centrosinistra, se si inaugura al Senato una competizione tra diritti e, dando il via libera subito al biotestamento, si rinuncia allo Ius soli.
Va bene attribuire la priorità alla legge sul fine vita che, dice l’ex sindaco di Milano e leader di Campo progressista, usando il linguaggio da avvocato, «è per noi un punto scriminante». Ma precisa: «Bisogna fare tutto il possibile, e anche l’impossibile, perché lo Ius soli legge che renderebbe l’Italia più democratica, sia approvata entro la fine della legislatura». Altri incontri ci sono stati ieri tra Campo progressista e Piero Fassino, il mediatore per conto di Renzi e uno scambio di messaggi con il segretario dem. Chiarisce Massimiliano Smeriglio: «Sullo Ius soli il Pd deve metterci la faccia. Non per noi ma per quegli 800 mila bambini italiani di fatto e non di diritto. Ci vuole coraggio per battere la barbarie».
Ed è una partita doppia per Pisapia, anche interna al movimento. Laura Boldrini ne fa un punto di non ritorno: «È un provvedimento necessario perché guarda all’oggi e al domani». Senza un dibattito nel paese e il voto definitivo sullo Ius soli - approvato alla Camera due anni fa e impantanatosi a Palazzo Madama – è improbabile che la presidente della Camera si schieri con Campo progressista.
Con un “no” al provvedimento sarebbe quasi certa la sua presenza nella Sinistra che correrà da sola con Grasso.
Fibrillazione nel gruppo parlamentare di Mdp, dove i “pisapiani” coabitano con i compagni demoprogressisti da separati in casa. Ieri hanno discusso la possibilità di lasciare il gruppo a Montecitorio, visto che le strade dei due pezzi di sinistra si sono divaricate. Ipotesi con molte controindicazioni, però ciascuno marcherà le proprie differenze a cominciare dal voto sulla manovra: Mdp per il no, Cp per il sì.
Pisapia: “Senza il sì allo Ius soli non c’è nessuna possibilità di allearsi con il Partito democratico”

il manifesto 1.12.17
La triste storia della diaspora di migliaia di nostri capolavori
«L'Italia dell'arte venduta» di Fabio Isman per Il Mulino. La Serenissima ha perduto il 93% delle antichità accumulate nei secoli d’oro
di Tiziana Migliore

La storia, si sa, la scrivono i vincitori. Anche la migrazione delle opere italiane all’estero è un fatto raccontato a partire dalle collezioni straniere che le detengono. E il punto di vista del «vinto» (Koselleck) nella storia dell’arte? L’Italia dell’arte venduta, di Fabio Isman (Il Mulino, pp. 296, euro 16) è un libro sulla disfatta del patrimonio italiano, sul valore dell’opera non per l’artista, ma agli occhi del Belpaese che l’ha generata.
UNA DIASPORA finora ignota, perché le indagini sulla compravendita delle opere sono scomode – in Italia il bene artistico è da sempre pubblico – ma che andava ricostruita, per leggere una certa ipocrisia del sistema dell’arte: il traffico artistico clandestino è il terzo al mondo, dopo armi e droga.
Isman presenta la controversia fra Source Nations, luoghi d’origine e conservazione del patrimonio, e Market Nations, luoghi di mercato e di internazionalismo della cultura (John H. Merryman): una risposta unica alla domanda se la presenza di capolavori italiani all’estero sia giusta o ingiusta non esiste. L’autore arriva a dimostrare che l’Italia, nei secoli, ha perduto i pezzi migliori della propria arte. E non per necessità, catastrofi naturali, guerre o razzie. Molti tesori assenti compongono i «musei della nostra cattiva coscienza»: di chi è stato avido di denaro, frivolo perché ha ceduto per seguire nuove mode o vile di fronte all’insistenza di antiquari e intermediari (Bernard Berenson prendeva commissioni del 25% sugli «affari» conclusi).
IL VALORE RICONOSCIUTO dagli altri ai nostri beni – musei come il Louvre, il Prado, il Getty, il Met, l’Ermitage, le National Gallery di Londra e di Washington si sono formati con arte italiana e vantano queste loro collezioni – non è il medesimo con cui le riconosciamo noi. Il primo è ancora oggi un valore culturale e intersoggettivo, il secondo è meramente di scambio. Dal sottosuolo italiano è stato estratto furtivamente oltre un milione e mezzo di reperti, subito avviati all’estero e ai maggiori musei. Gran parte del nostro patrimonio è stato trattato come merce, con prezzi in aumento, più della droga, passando di mano in mano.
Chi ha abitato o visitato l’Italia fino alla metà del Settecento ha visto ciò che gli uomini non vedranno mai più: una moltiplicazione di splendori inimmaginabili. Ma già nel 1729 Montesquieu invocava una legge a Roma affinché «le statue non potessero essere vendute che con i palazzi dove sono, sotto pena della confisca dell’edificio». Poi, in carenza di norme, il XIX secolo ha svuotato il Paese, che pure annoverava modelli virtuosi come lo Statuto di Siena, 1309 – «primo dovere di chi governa è la bellezza» – in largo anticipo sulle nozioni di «contesto» e di «intangibilità del patrimonio culturale»: un’opera d’arte non può essere sradicata dalla storia di cui è il prodotto (Quatremère de Quincy, 1796).
ISMAN PROCEDE non in ordine cronologico ma per curiosità, seguendo traversie e parabole di beni italiani che si sono involati: tele arrotolate in finti tubi di scappamento (i van Dyck da Genova), opere smembrate come carne da macello (La Maestà di Duccio da Buoninsegna, 1308, impossibile da ricomporre), vendute «a rate» cioè acquistabili a pezzi o amputate per ricavarne dettagli appetitosi. La Serenissima ha perduto il 93% delle antichità accumulate nei secoli d’oro e quasi l’intera produzione di Tiziano, incluso il quadro che teneva stretto in punto di morte, la Maddalena penitente (1565), oggi all’Ermitage.
A MANTOVA I GONZAGA vendono i 1800 dipinti della «celeste Galleria», procurandosi copie per salvare le apparenze. Gli originali sono a Londra. A Firenze è dispersa la raccolta della famiglia Strozzi, ma due Prigioni (1513) di Michelangelo vengono regalati a Francesco I di Francia nella speranza di un «golpe» contro i Medici. Restano un blasone del Louvre. A Modena, nel 1746, gli Este liquidano i loro 100 quadri migliori con la «vendita di Dresda», senza risparmiare la Madonna Sistina (1513) di Raffaello e la Notte (1525) di Correggio.
A ROMA sono «coventrizzate» le collezioni delle famiglie Colonna (4400 pezzi), Barberini, Ludovisi, Monte e Giustiniani, che aliena 15 Caravaggio, mentre nel 1808 il principe Camillo, per diventare governatore transalpino dell’Impero francese, invia a Napoleone l’intero contenuto di Villa Borghese. Perfino il papa ostacola il gesto di «quella famiglia, disonorata in eterno» (Canova a Napoleone). Altrove se ne vanno soffitti – la Visione a Patmos (1547) di Tiziano è alla National di Washington. Si inabissano anche collezioni recenti. Il Nudo sdraiato a braccia aperte (1917) di Modigliani apparteneva alla raccolta Gianni Mattioli, scomparsa dopo il 1971; si trova oggi nel salotto del miliardario cinese Liu Yiqian: nel 2015 lo ha tranquillamente comprato all’asta da Christie’s per 170 milioni di dollari.

La Stampa 1.12.17
Liste di proscrizione e antisemitismo in Rete
di Andrea Palladino

Non si è mai fermato Stormfront, la comunità virtuale neonazista gestita da gruppi suprematisti Usa. Nonostante due inchieste della Procura romana – condotte dal pm Luca Tescaroli – e la condanna definitiva per quattro esponenti dell’organizzazione, il gruppo italiano non ha mai cessato l’attività. Anzi. Da qualche mese sono tornate le liste di proscrizione (lo scorso marzo è stato diffuso un elenco di giornalisti indicati come di religione ebraica) e da alcuni giorni diversi messaggi hanno ripreso a diffondere materiale violentemente antisemita e negazionista.
Immagini crude, fotomontaggi dell’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz, diffusione di pubblicazioni della destra neonazista su Anna Frank, fatte circolare subito dopo il ritrovamento degli adesivi antisemiti nella zona della Curva Sud dello Stadio Olimpico. E ancora, un lungo testo dell’utente «Futurista» (autore di 650 post, attivo dal novembre 2015) intitolato «Le 10 peggiori creazioni ebraiche», pubblicato sul canale «Stormfront Italia». Un testo che si apre con «la Shoah non è mai esistita come tale, e dico purtroppo», per chiudersi con la teoria complottista su «virus modificatori del genoma umano», diffusi per distruggere la «Razza Bianca». La lista di «scrittori e giornalisti ebrei italiani» è stata pubblicata dall’utente «Ataru» e apre un lungo testo che si chiude con l’altra antica ossessione nel nazifascismo: «Zingari e omosessuali».
Il gruppo italiano di Stormfront era stato colpito da una prima indagine della Digos romana nel novembre del 2012, con quattro arresti. Il processo – che si è concluso in Cassazione due anni fa con la conferma delle condanne, in parte alleggerite – è stato il primo caso in Italia ad aver riconosciuto l’istigazione all’odio razziale attraverso Internet. Nel 2012 l’inchiesta si era allargata con 35 perquisizioni e altri indagati. Nella sentenza di primo grado era stato confermato il sequestro preventivo del sito, con il blocco dell’accesso dall’Italia. Oggi continuano a partecipare al gruppo anche utenti indagati nel 2012: «Adesso ricomincio a scrivere col mio account che la Digos conosce benissimo e quindi anche io posso dire: me ne frego!», scriveva la user Joeyskingirl lo scorso agosto.

La Stampa 1.12.17
Sei indagini da Milano a Roma sull’estrema destra italiana
Centinaia le denunce e decine gli arresti tra i militanti di Forza Nuova e CasaPound Manifestazione Pd a Como per il 9 dicembre dopo l’assalto al centro pro immigrati
di Fabio Poletti Michele Sasso

I numeri del Viminale dicono tutto. Tra il 2011 e il 2016 «ben 240 sono stati i deferimenti all’autorità giudiziaria e 10 gli arresti nei confronti di militanti di Forza Nuova». Molto peggio se si guarda a CasaPound. Tra il 2011 e il 2015 «un arresto ogni 3 mesi e una denuncia ogni 5 giorni». Non c’è procura che non si occupi dell’estrema destra che rialza la testa, almeno 6 le inchieste aperte dalla Lombardia al Lazio.Laura Boldrini chiede una mobilitazione civile. Il Pd lancia una manifestazione per il 9 dicembre a Como. Matteo Renzi fa l’indignato: «Intimidazioni e provocazioni fascistoidi vanno respinte senza se e senza ma». Matteo Salvini è indignato di tanta indignazione: «Il problema dell’Italia è Renzi, non il fascismo che non può tornare».
Da Mantova a Como
Ma a guardare la mappa delle violenze e delle denunce sembra che il neofascismo non sia mai scomparso. A Como dopo l’irruzione di martedì sera a «Senza Frontiere» 4 aderenti a Veneto Fronte Skinheads sono stati denunciati per violenza privata. Un episodio analogo era accaduto a Castel Goffredo nel Mantovano lo scorso 27 giugno. Quando lo stesso gruppo, con fumogeni e striscioni contro lo ius soli, aveva interrotto una manifestazione in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. L’inchiesta giudiziaria ancora in corso.
Caccia al bengalese
Nel 2016 si scopre che partivano dalla sede di Forza Nuova di via Lidia a Roma le spedizioni punitive contro cittadini del Bangladesh: 13 militanti accusati di violenze razziali. A compiere i «Bangla Tour» ragazzini adescati sul web. Al grido di «Camerata, azione!», i raid sono andati avanti per un anno a Torpignattara, largo Preneste, Casilino e Pigneto.
Heil Hitler
Le ricorrenze sono sempre molto amate dai nostalgici di estrema destra. A Malnate vicino a Varese lo scorso 21 aprile in occasione del compleanno del Führer si erano trovati in 700 chiamati a raccolta da Dodici Raggi. Tra loro molti dei 20 sotto processo, che nel 2008 si diedero appuntamento in una birreria di Buguggiate per onorare il fondatore del Terzo Reich. A Milano invece si preferisce commemorare i caduti della Repubblica Sociale Italiana. L’appuntamento è nel giorno dei morti al Campo X del cimitero Maggiore con labari e saluti romani. Trenta i denunciati per apologia di fascismo.
Nerissimi stadi
Il peggio che c’è va in onda allo stadio con denunce ricorrenti. Il canto del Verona Hellas non lascia dubbi: «Siamo una squadra fantastica, a forma di svastica». Secondo il Viminale su 382 gruppi ultras 85 si dichiarano di destra e di estrema destra. Ad ogni manifestazione scattano denunce per apologia di fascismo o istigazione all’odio razziale, bersaglio preferito i giocatori di colore. Ma non ci sono solo le parole. Era un naziskin l’ultras romanista Daniele De Santis condannato a 16 anni in appello per aver ucciso il 3 maggio del 2014 il tifoso napoletano Ciro Esposito. Polemiche dopo la decisione del giudice: «Ucciso da una bravata». Altre polemiche per la condanna patteggiata a solo 4 anni di carcere da Amedeo Mancini, l’ultras di estrema destra supporter del Fermo che milita in serie D, colpevole dell’omicidio del nigeriano Emmanuel Chimdi Namdi, massacrato di botte nell’estate 2016 per aver cercato di difendere la moglie che era stata insultata al grido di «scimmia africana». Una pena esigua motivata con l’imputazione di omicidio preterintenzionale e con la caduta dell’aggravante dei futili motivi.

Tutti assolti
Sottigliezze giuridiche che fanno la storia dei processi italiani contro i neofascisti. Emblematico quello iniziato a Verona contro il Veneto Fronte Skinheads. Fin dagli albori i suoi militanti compiono atti di violenza, intimidazioni, pestaggi e aggressioni soprattutto verso i migranti. Nel 1994 la prima grande manifestazione degli skin italiani a Vicenza, con svastiche e braccia alzate. All’epoca fece scalpore perché fu regolarmente autorizzata dalla questura. In 23 finirono a processo, 7 sette in carcere per 3 settimane compreso il leader Piero Puschiavo, per incitamento all’odio razziale. Nel 2004 l’ultimo atto del processo: tutti assolti. Sono passati 13 anni. Siamo allo stesso punto.

Repubblica 1.12.17
La metamorfosi dei fascisti
di Ezio Mauro

Non c’è bisogno di pensare a un impossibile ritorno del fascismo organizzato sulla scena politica italiana, per preoccuparci oggi. Basta chiedersi quanto fascismo disorganico, sciolto, quasi naturale è già ritornato a circolare nella nostra società. Proprio il fatto che sia veicolato dalle notizie di cronaca spicciola dimostra che è tornato a vivere spontaneamente fuori dal Palazzo, qua e là, senza una linea di pensiero teorico che lo indirizzi e lo definisca. Anzi, non ha bisogno del Palazzo, perché si muove sotto la linea d’ombra della politica ufficiale, con blitz situazionisti che testimoniano quasi fisicamente la radicalità di un’alternativa che non ha uguali, perché viene non da un altro schieramento ma da un altro mondo: che consideravamo sepolto dalla storia, mentre improvvisamente ritrova un mercato, più sociale che elettorale.
Proprio questa alterità totale definisce la metamorfosi del fenomeno, diverso dal nostalgismo del dopoguerra, col culto della memoria nei presepi sepolcrali, e dalla marcia dentro Roma attraverso le istituzioni, negli ultimi decenni. La novità del fascismo 2.0 sta nel suo essere pura presenza, azione e antagonismo. Una formula post- politica perfetta per raggiungere le fasce più ribelli della popolazione, convincendole che l’azione è la forma estrema della semplificazione populista dei problemi complessi che il Paese ha davanti. La teoria non serve, nascerà a posteriori dal gesto esemplare, che spiega se stesso mentre si compie.
Denudato a puro gesto, fuori da ogni orizzonte culturale e ogni progetto politico, il fascismo torna così a farsi presenza originaria, senza cautele e senza mimetiche parlamentari. Una citazione esemplare, una derivazione integrale, una riproposizione esplicita, fuori dalla storia dunque al riparo dal giudizio del secolo, dalle sconfessioni della realtà europea, dalla memoria della tragedia italiana. Quello che torna è un fascismo pop, surreale, che cerca una cornice forte per fiammate testimoniali, più che un progetto politico una strumentazione pronta per un conflitto latente, evocato, sceneggiato, predisposto.
Il nemico naturale, simbolico, è naturalmente il migrante. Agendo contro di lui si raccolgono gli istinti, le inquietudini, le pulsioni profonde di una parte della popolazione infragilita dalla crisi e di un’altra parte indurita da una inedita gelosia del welfare. Un risentimento identitario che questo fascismo sparso trasforma in un inedito sentimento indigeno, risalendo istintivamente fino al mito del sangue come garanzia perpetua dell’identità in pericolo, della purezza da preservare contro le contaminazioni, con un concetto di popolo che torna a essere sostanza di carne e di sangue, comunità biologica più che Stato o nazione: infine razza.
Germinando nel conflitto sociale sospeso sulle nostre periferie, questa predicazione istintiva che torna ad unire razza e Patria, contro i “non-popoli”, può trovare spazio in un nuovissimo egoismo del benessere, del lavoro, della salute pubblica, quando lo smarrimento della crisi porta a non voler più dividere nulla di tutto questo, a distinguere tra “ noi” e “ loro”, come se l’uomo bianco fosse l’unico titolare dei diritti umani e civili: non parliamo dei diritti di cittadinanza.
Tutto questo è stato possibile per tre ragioni: il riduzionismo del fascismo storico banalizzato in vizio italiano, trasportato dalla sua eccezionalità novecentesca in un curioso capriccio del carattere nazionale, trasformato in aneddoto, nella citazione “innocente” del “ credere, obbedire, combattere”; mentre parallelamente si demoliva il nesso che collega l’antifascismo della Resistenza alla nascita della Repubblica democratica, proprio per questo non interamente octroyée ma riconquistata. Poi il mancato rendiconto della destra italiana (con l’eccezione di Fini) con l’eredità fascista, nel silenzio della cultura liberale che non ha speso a destra un centesimo del pedagogismo democratico giustamente impiegato per decenni a sinistra con il Pci. Infine, la coscienza ottusa della sinistra italiana, nelle sue ultime incarnazioni, che non ha saputo formulare un’obiezione critica, un dubbio culturale al pensiero dominante durante gli anni della crisi, lasciando così spazio all’idea che l’alternativa può nascere solo fuori dal sistema, nell’antipolitica di Grillo e Salvini, o nella destra di Trump. E ora, di fronte al fascismo che sdogana se stesso, non sa leggere il pericolo, così come non sa leggere se stessa. Quanti centri di solidarietà sommersa esistono nel nostro Paese come quello di Como assaltato dai naziskin, con le macchine da cucire negli scaffali per sistemare gli abiti d’emergenza ai migranti, e i volontari umiliati dalla violenza del blitz? La sinistra lo sa? Bisognerebbe avere il coraggio di dire che è qui e non nel sangue che si forma il tessuto connettivo di una comunità civile, di una democrazia occidentale, della Repubblica.

Repubblica 1.12.17
Fanno paura i pagliacci in camicia nera
risponde Corrado Augias

Gentile Augias, mesi fa un signore della mia età mi disse che il giorno della revanche fascista stava per arrivare. I segnali li percepivo anch’io: saluti romani, raduni di energumeni in camicia nera, slogan in pasto al web, preti benedicenti i “ caduti per la libertà” della Repubblica sociale italiana, proclami antisemiti e anticapitalisti, sovranismo. Vecchi e nuovi “ tromboni” accomunati da ignoranza sintattica e ortografica si radunano e inneggiano al duce del fascismo. La sinistra abbaia alla luna. La destra tace ( nella prossima campagna elettorale vanno bene anche quei voti). Nell’episodio di Como, la cosa notevole è stata la compostezza dei partecipanti alla riunione dell’associazione che si occupa di migranti.
Davanti alla violenza verbale hanno ascoltato un giovane emozionato e grammaticalmente sconnesso che “ declamava” una sfilza di slogan. Ne vedremo ancora.
Basta la cultura per fermare tutto questo? Non sarebbe il caso che chi è preposto a far rispettare le leggi si preoccupi di ripristinare lo stato di diritto, senza trasformare “ analfabeti funzionali” in “ martiri”?
— Piero Orrù — san Giovanni Teatino, Chieti

L’episodio è grave non in sé perché, preso per ciò che è stato, si riduce a poco più d’una minacciosa pagliacciata. La sua gravità deriva da due fattori. Il primo è che si può inserire l’irruzione in una catena di sintomi eloquenti. Ho viva memoria di quando manifestazioni simili da parte di aderenti al movimento neofascista Msi destavano un moderato allarme proprio perché le si sapeva insignificanti rispetto alla temperatura politica generale del Paese. Erano gli anni in cui due partiti di poderosa struttura quali la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista cercavano un qualche avvicinamento senza troppo turbare gli equilibri e la posizione internazionali del Paese, Stati Uniti, Nato ecc. Qualche saluto romano e qualche “me ne frego” venivano valutati più o meno come sfoghi giovanili.
Oggi è diverso non solo perché queste manifestazioni hanno un più marcato carattere aggressivo ma soprattutto perché — è il secondo elemento d’allarme — vanno a insediarsi — e traggono vigore — da uno dei più diffusi sentimenti collettivi: la paura. Sappiamo tutti che uno degli elementi che facilitarono l’affermazione fascista nel 1922 fu la paura suscitata dal famigerato “biennio rosso” seguito alla vittoria nella guerra. La paura, diventata fenomeno sociale e diffusa, si trasforma in un motore politico di forza straordinaria. Su quella stessa paura infatti fondò la sua prima vittoria elettorale Silvio Berlusconi nel 1994. Allora erano in ballo “i comunisti”, oggi c’è un’immigrazione che appare a molti incontrollabile e inarrestabile. D’altronde non succede solo in Italia, molte nazioni europee sono alle prese col problema fino all’isteria dimostrata dai Paesi del patto di Visegrad. Di fronte a un sentimento di tale diffusione le rassicurazioni basate su ragionevoli proposte politiche contano poco. Ecco perché quattro analfabeti in camicia nera possono diventare un monito preoccupante.

Repubblica 1.12.17
Legge sul fine vita via libera a un passo
Martedì i capigruppo del Senato decidono la data dell’arrivo in aula Corsa contro il tempo per approvare il provvedimento in tre sedute
di Tommaso Ciriaco,

Parte il rush finale per il biotestamento. La riforma sarà calendarizzata martedì prossimo nella riunione dei capigruppo del Senato. E approderà nei giorni successivi in Aula. Subito, se il Pd deciderà di accelerare. Comunque entro il martedì successivo, 12 dicembre. Da quel momento, si giocherà tutto in tre sedute. Una corsa contro il tempo, prima che la manovra economica torni a Palazzo Madama.
L’appuntamento è per il 5 dicembre, quando Piero Grasso riunirà i gruppi. I cinquestelle spingono per affrontare il dossier immediatamente. E attaccano i dem: «Il Pd e la maggioranza vogliono approvare il biotestamento, sì o no? » . Si potrebbe partire subito, anche perché con questa legge Matteo Renzi intende completare la sfida sui diritti in questa legislatura. Ma l’ipotesi più probabile è che il testo approdi in Aula il martedì successivo.
Il calendario più probabile, infatti, prevede questa scaletta: due giorni dedicati alla riforma dei regolamenti, poi la pausa per le festività di Sant’Ambrogio e dell’Immacolata. Quindi il biotestamento. Ci sarebbe anche la riforma della cittadinanza, ma nessuno scommette più sulla possibilità di approvare lo Ius soli. Al massimo, sarà messo in calendario come segno di buona volontà per favorire l’intesa tra Pd e Campo progressista.
La finestra temporale per il biotestamento è dunque strettissima. Per portare a casa il provvedimento, già approvato a Montecitorio, bisognerà blindarlo con il “canguro”, che salta gli emendamenti. A dire il vero, ci sarebbe un’altra possibilità, che si fa strada nel Pd. Ipotizza il ricorso alla fiducia, anche su un tema così delicato. Avrebbe il vantaggio di accorciare i tempi, ma spingerebbe i Cinquestelle a tirarsi indietro.
La strategia sarà decisa da Paolo Gentiloni, al ritorno dal suo viaggio intercontinentale. La priorità, sollecitata informalmente dal Colle, resta quella di tenere al riparo l’esecutivo dai pericoli della sfiducia. Proprio il premier, intanto, si prepara ad affrontare la sfida della manovra, approvata ieri in prima lettura con la fiducia a Palazzo Madama. «Risorse per il lavoro dei giovani – elenca su Twitter - la lotta alla povertà, le imprese 4.0, il rinnovo dei contratti statali, le famiglie, gli investimenti. Fiducia per la crescita».

La Stampa 1.12.17
La Russia resta senza figli
Putin lancia il bonus bebè
Piano da 7,2 miliardi per tre anni per fronteggiare la crisi demografica
di Giuseppe Agliastro

La Russia scivola di nuovo verso una graduale quanto inesorabile riduzione della sua popolazione. Vladimir Putin vuole cercare di metterci una pezza con una serie di misure a sostegno delle nascite che costeranno allo Stato 7,2 miliardi di euro nel prossimo triennio. Ma per molti quello del leader del Cremlino non è altro che populismo pre-elettorale.
La maggiore novità è un bonus bebè di circa 150 euro al mese per i genitori meno abbienti che hanno il loro primo figlio. L’assegno sarà pagato fino a quando il bambino avrà raggiunto un anno e mezzo e alle casse dello Stato costerà due miliardi di euro in tre anni. Gli aiuti prevedono però anche il prolungamento fino alla fine del 2021 del versamento di 6500 euro per le madri che danno alla luce il loro secondo o terzo bambino, e persino aiuti statali per pagare gli interessi sul mutuo per la casa.
Ma si tratta davvero di misure efficaci? Su questo punto non tutti sono d’accordo. E molti esperti ritengono che quella di Putin sia in realtà l’ennesima - e azzeccata - mossa elettorale in vista delle presidenziali di marzo. «In quanto a propaganda, Putin ha già vinto la campagna elettorale», ha commentato il politologo Valery Solovey, professore dell’Istituto statale di relazioni internazionali di Mosca, che evidentemente non ha alcun dubbio sul fatto che l’attuale presidente russo intenda correre per un altro mandato di sei anni, anche se ufficialmente non si è ancora candidato.
Il nuovo pacchetto di aiuti alle famiglie con bambini stona innanzitutto con i recenti tagli alla spesa pubblica in un paese in cui la povertà è in aumento, e con il mancato adeguamento all’inflazione delle già troppo spesso misere pensioni. «Non ci sono soldi, ma lei resista», aveva detto un anno e mezzo fa il premier Medvedev a una vecchietta che si lamentava per le basse pensioni. Parole che avevano scatenato ilarità e indignazione. Ma se la patria ha bisogno di figli, i soldi improvvisamente saltano fuori.
Secondo Tatyana Maleva, direttrice dell’Istituto di Analisi e previsioni sociali dell’Accademia nazionale dell’Economia, la situazione demografica non è delle migliori non solo a causa della bassa natalità ma anche e soprattutto per l’alta mortalità. Anche se la speranza di vita in Russia è aumentata - spiega - per risolvere il problema demografico bisognerebbe prima di tutto migliorare la qualità dei servizi medici e promuovere stili di vita più sani. Anche perché - dice con sarcasmo - non hanno ancora inventato sussidi per lottare contro la morte.
Anche il direttore dell’Istituto di demografia della Scuola superiore di economia, Anatoly Vishnyevsky, nutre seri dubbi sull’efficacia del nuovo pacchetto per aumentare la natalità. La recente riduzione delle nascite - spiega - è dovuta al calo delle donne in età fertile: a sua volta una diretta conseguenza del crollo della natalità nei terribili Anni Novanta. Insomma, se 25 anni fa la tremenda crisi economica seguita al disfacimento dell’Urss portò le coppie ad avere meno figli, adesso logicamente ci sono meno donne che hanno l’età per diventare madri. «Se ci sono meno mamme ci sono meno bambini e non è possibile aumentare il tasso di natalità al punto da compensare questa riduzione», dice ancora Vishnyevsky criticando i nuovi provvedimenti.
Tra gennaio e ottobre, in Russia sono nati un milione e 420 mila bambini, il 10,7% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. La riduzione naturale della popolazione in 10 mesi è stata pari a 115.000 persone. In pratica così è stata subito cancellata tutta la crescita del triennio 2013-2015, di cui andava tanto fiero il governo russo. «La riduzione andrà avanti forse per 15 anni», sostiene Vyshnyevsky. Il motivo? Le donne tra i 18 e i 35 anni - ovvero l’età in cui si concentra il 90% delle maternità - erano 18,9 milioni nel 2016, saranno 16,9 milioni nel 2018 e scenderanno a 15 milioni nel 2024.
Non tutti però nutrono perplessità sulle misure per incentivare le nascite. Secondo l’economista Nikita Krichevsky, si tratta di «aiuti molto sostanziosi» per le famiglie, che possono servire a «raggiungere risultati efficaci». «Dal punto di vista materiale - dice - lo Stato fa quello che può, e per questo non possiamo che ringraziarlo».
Il rischio per la Russia è che la popolazione in età lavorativa si riduca di 600.000 persone l’anno nei prossimi sei anni. Eppure Mosca non fa che abbassare il numero di immigrati che possono entrare nel paese con un permesso di soggiorno temporaneo: nel 2016 erano 126.000 l’anno, nel 2018 saranno appena 90.000. Gli immigrati forse fanno bene all’economia, ma non portano voti.

Repubblica 1.12.17
Migranti
L’Europa scrive il nuovo piano per i campi nascosti in Libia
Per Bruxelles sono 42, ma non si sa dove siano Sarà la prima spesa del fondo per l’Africa “Servono più soldi”
di Alberto D’Argenio

BRUXELLESSarà un lavoro titanico svuotare i campi di detenzione in Libia. Sono le cifre a dirlo. Secondo l’Unione africana i migranti detenuti ( « in condizioni disumane » ) sono tra i 400 e i 700mila. A Bruxelles sono consapevoli della sfida e lo staff dell’Alto rappresentante Federica Mogherini lavora a tempo pieno per predisporre il piano che l’Europa ha concordato al vertice di Abidjan con partner africani e Onu. Sono almeno 42 i campi sparsi sul territorio libico, di molti di questi non si sa nulla, nemmeno la posizione precisa. Tanto che l’Organizzazione mondiale dei migranti, insieme agli esperti Ue, si sta attrezzando per andare a cercarli.
Si partirà evacuando 15mila persone entro febbraio. Sono i detenuti dei campi ufficiali nella zona di Tripoli. I soli dei quali c’è conoscenza certa. Per farlo serviranno 60- 80 milioni. Una prima fase del piano di per sé complessa considerando che l’Europa ha rimpatriato dalla Libia 13mila migranti da gennaio a oggi. Ora una cifra superiore andrà rimandata nel proprio paese, reintegrata (anche con un lavoro) entro tre mesi. Certo, dopo il video della Cnn sui lager libici i governi africani hanno deciso di aprire le porte alle persone di ritorno (alcuni come il Ruanda allestiranno anche campi di transito) e grazie all’expertise e ai soldi Ue l’obiettivo è raggiungibile. Il denaro arriverà dal Trust Fund Africa da 2,9 miliardi varato nei mesi scorsi ma ora Bruxelles sprona i governi a mettere più soldi: l’Italia è il primo contributore con 92 milioni, poi la Germania con 33 ma ci sono capitali che pur rifiutando di ospitare i richiedenti asilo e chiedendo che i migranti vengano bloccati in Africa non hanno praticamente messo un centesimo ( l’Ungheria di Orban: 50mila euro). Si spera in nuovi contributi entro il summit Ue di metà dicembre.
Anche perché la seconda parte del piano umanitario sarà ancora più complessa e costosa. Gli europei per ora non confermano i numeri dell’Unione africana (fino a 700mila) sui migranti detenuti in Libia. Si limitano a parlare di decine di migliaia, se non centinaia, di persone da trovare e salvare. I campi andranno cercati — anche in zone poco sicure — e svuotati uno ad uno. I migranti verranno rimpatriati, chi avrà diritto alla protezione internazionale potrà invece contare sul programma di ingresso in Europa già varato da Bruxelles per 50mila persone. Intanto si proverà a chiudere le rotte che portano alla Libia e si andrà in pressing sulle autorità locali perché chiudano i campi cambiando la legge che prevede la detenzione per tutti i migranti illegali, altrimenti si corre il rischio di trovarli di nuovo pieni dopo che sono stati svuotati.
C’è infine il piano Marhall per l’Africa: si parte con i 44 miliardi di investimenti raccolti da Bruxelles per creare un’economia africana capace di trattenere i giovani. Poi si punta, nel bilancio Ue post 2020, a trovare 30- 40 miliardi che grazie ai privati lievitino a 350- 400 miliardi per rilanciare il continente nei prossimi decenni e bloccare i flussi. Questa è la scommessa. Vitale per Africa ed Europa.

Repubblica 1.12.17
Federico Soda, Oim
“È dura sgombrare quelle prigioni In gioco ci sono troppi soldi”
di Vladimiro Polchi

ROMA «Attorno ai campi di detenzione libici girano troppi soldi, sono un’attività economica importante, svuotarli non sarà facile». Federico Soda, italocanadese, direttore dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni), invita alla cautela: «Molti migranti oltretutto si trovano in un limbo, non hanno diritto all’asilo e non possono tornare a casa, per loro non resta che la pericolosa rotta del Mediterraneo centrale».
Come valuta il piano di evacuazione dei campi libici?
«Le condizioni di vita dei campi sono orribili. L’Onu e le altre organizzazioni internazionali da tempo ne chiedono la chiusura.
Noi siamo pronti a rafforzare i nostri interventi sul territorio».
Cosa fa oggi l’Oim in Libia?
«Abbiamo 160 uomini che si occupano di assistenza umanitaria nei campi di detenzione ufficiali, spesso provvedendo pure al cibo. Non solo. Siamo impegnati a organizzare i rimpatri volontari: già ne abbiamo effettuati 13mila, di cui quasi un terzo di nigeriani.
Ma dobbiamo avere accesso a tutti i campi presenti e oggi questo non accade».
Cosa cambierà col piano di evacuazione?
«Dovranno aumentare i rimpatri volontari di chi non ha diritto all’asilo, mentre dovranno essere stabilite nuove procedure in luoghi sicuri per verificare chi ha diritto alla protezione internazionale».
È un piano realizzabile sul territorio libico?
«Indubbiamente difficile. Ricordo che la Libia non ha formalmente alcun dovere nei confronti dei rifugiati, perché non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra del 1951. Inoltre l’instabilità del governo locale rende problematica ogni operazione».
I governi Ue cosa dovrebbero fare?
«Devono innanzitutto aumentare le quote per il resettlement, ossia per il trasferimento di rifugiati dalla Libia in modo sicuro, senza rischiare la vita in mare e ingrossare il business dei trafficanti di esseri umani.
Purtroppo oggi le quote sono bassissime. L’Europa invece sta mettendo il carro davanti ai buoi: prima prevede di avviare uno screening di chi ha diritto all’asilo e poi si preoccuperà, speriamo, di creare canali di ingresso legali per queste persone».

Repubblica 1.12.17
Classici
Quanto è dionisiaco questo Apollo
di Pietro Citati

Scalo a Delfi, nel cuore della religione ellenica e del culto di Febo. Raccontato da un grande viaggiatore nella sua “Guida alla Grecia”: Pausania
In questi giorni viene pubblicato il decimo e ultimo libro della Guida della Grecia di Pausania, benissimo curato da Umberto Bultrighini e Mario Torelli (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, pagg. 560, euro 35). Esso è dedicato alla Focide, e specialmente a Delfi, cuore della religione e della civiltà greca.
Pausania nacque nella parte occidentale dell’Asia Minore, e visse nella seconda parte del Secondo secolo dopo Cristo.
Per lui, erano tempi tristi. La vera Grecia era un ricordo. I luoghi famosi spopolati: molte città abbandonate: le regge carbonizzate, le tombe sconvolte, le colonne dei templi a metà abbattute; Delfi priva, o quasi, di oggetti preziosi, sebbene gli edifici fossero gli stessi di un millennio prima. Tra il 118 e il 125 dopo Cristo, l’imperatore Adriano era stato arconte delfico, cercando di riportare quella terra spopolata all’antico splendore. Tutto esisteva sotto il segno di Roma: Pausania pensava che Roma rispettasse o addirittura venerasse la Grecia, che aveva così influenzato la sua storia e i suoi pensieri. Amo molto Pausania. Senza leggerlo, non possiamo conoscere la Grecia: dobbiamo portarlo con noi, nei nostri viaggi ad Atene e nel Peloponneso. Era documentatissimo: aveva viaggiato molto, in Siria, Palestina, Egitto, Roma, Campania, con fonti e informatori eccellenti. Narra benissimo, con in mente il grande modello di Erodoto. Quando abbandona la sua abituale concentrazione, scrive con piacevolezza ed incanto. Percorre le strade principali della Grecia, quelle secondarie e minime, a volte scegliendo tradizioni e itinerari sconosciuti. Verso il mito, il suo atteggiamento è molteplice.
Talora è assolutamente certo: venera Omero senza discussioni ; come dicono le Peliadi, «Zeus c’era, c’è, ci sarà». Coltiva tutto ciò che è oracolare: i misteri eleusini «più di tutti i misteri di pietà religiosa»; i riti, gli eventi singolari, i prodigi, i fatti dietro i quali sospetta la presenza degli dei. Ma, a volte, rivela un profondo scetticismo: cerca di essere scrupoloso, preciso, minuzioso (assai più di Plinio il vecchio). Ama la verità (o ciò che crede essere la verità): ma non racconta tutto, perché vuole scegliere o è pieno di dubbi.
Alla fine sembra incerto, inquieto, perplesso: questo non è l’ultimo motivo del fascino che esercita su di noi. Come Erodoto, ama la storia totale. Non gli basta narrare i fatti storici e religiosi della Grecia, perché all’improvviso racconta di Cartagine o della Corsica. Coltiva il piccolo, il minimo, ma anche le grandiose cosmogonie, convinto che l’onfalo di Delfi si trovi al centro dell’universo. Descrive con competenza i fatti tecnici: specialmente le scoperte che, ai suoi tempi, si erano perdute.
Invece di parlare ancora una volta di cose conosciute, insegue quelle poco note o in apparenza insignificanti, persuaso che il mondo sia, nella sua essenza, incomprensibile e irraggiungibile.
Ma non si perde mai nei dettagli: vuole che la sua opera, dal primo al decimo libro, sia una totalità.
Sullo sfondo, per lui come per ogni greco, stanno il destino e gli dei, i quali si identificano con il destino – più, forse che nell’Iliade: «Il destino che assegna in egual misura la buona e la cattiva sorte».
Ma biasima coloro che credono di vedere dovunque gli dei, sia pure in sogno: ciò spetta, semmai, ai sacerdoti. Gli dei non si rivelano volentieri. Pausania indugia su molti temi: Eracle, Achille, Neottolemo, Dioniso, Iside, le Muse, Ulisse, Olimpia, la fonte Castalia, la fonte Cassiopide, Edipo, il quale, forse, lo affascina più di ogni altra figura.
Pausania non ha vere antipatie o veri odi per nessuno – tranne, forse, per Sparta: pensa che la guerra del Peloponneso sia stata esiziale per la Grecia. Parla di Sifni e dei suoi meravigliosi tesori delfici: «L’isola dei Sifnii aveva molte miniere d’oro, e il dio insegnò loro di riservare a Delfi la maggior parte delle entrate; essi allora costruirono il tesoro e cominciarono a versare la decima.
Ma quando per la loro insaziabilità tralasciarono di versarla, il mare allagò e fece sparire le miniere».
Siamo a Delfi, dove la figura principale è Apollo. Ecco il dio atasthalos, temerario, sfrenato, empio, accecato: egli non conosce nessuna delle verità che proprio da lui vennero chiamate apollinee; la serenità, il rispetto per la legge, l’armonia, la moderazione. Il dio che avrebbe presieduto alla misura della Grecia pecca di dismisura. Forse era necessario un dio violento, sfrenato, peccatore, assassino, per diffondere sulla terra l’equilibrio nella morale, il rispetto del limite, la quiete dello spirito, il gesto che pacifica e contiene. A Delfi Apollo incontra la Dracena: «Un mostro vorace, grande, selvaggio», figlio della Terra, che ne condivide il santuario oracolare, divorando uomini e animali. Con una freccia Apollo colpisce la Dracena, che cade a terra ansando e contorcendosi, e gettando un urlo soprannaturale, finché muore con un soffio sanguinoso. Il corpo imputridisce, dando il nome al luogo, Pito, e al dio, Apollo pitico.
Apollo aveva obbedito a un ordine di Zeus, che voleva costruire a Delfi il suo santuario. Eppure commette una colpa: anche gli dei commettono colpe: ha paura; in un luogo che dal suo nome, è chiamato Phobos, terrore, vien assalito dall’angoscia di sentirsi impuro e dalla follia; contamina e diffonde attorno a sé la contaminazione, come all’inizio dell’Iliade. Fugge. Si rifugia nella valle di Tempe, oppure espia presso gli Iperborei, una popolazione ai confini del mondo.
Poi torna a Delfi, incoronato di alloro, tenendo nella mano un ramo di alloro. Come dice Eraclito, Apollo non parla in modo diretto, o in epifanie, ma attraverso segni, o i versi della Pizia, “l’ape delfica”.
Pausania ama le digressioni. La più vasta e drammatica è dedicata all’invasione in Grecia dei Celti (Galati) nel 279-277 prima di Cristo. L’oracolo rispose ai Delfi, terrorizzati, che egli si sarebbe preso cura di sé stesso e di loro.
Nella prima invasione i Celti si arrestano perché sono pochi. Nella seconda invasione Brenno e i Celti attaccano i Greci con una rabbia e un furore non accompagnati dalla ragione.
Pausania li esecra, specialmente perché non danno sepoltura ai morti in battaglia. Mai si erano sentite atrocità simili o simili furori; i Celti bevevano il sangue delle donne e dei bambini. Ma nessuno di loro tornò salvo in patria. Il decimo volume della Guida della Grecia finisce quasi all’improvviso, con la storia del santuario Asclepio a Naupatto.
Non sappiamo con certezza se l’opera sia o no incompiuta. Ma, probabilmente, Pausania finisce così, con una conclusione in minore. Vuole imitare Erodoto. Gli piace moltissimo questa conclusione che conclude e non conclude, lasciando l’opera aperta all’infinito: come, forse, sono tutti i grandi libri. Noi torniamo a leggere e risaliamo al principio, provando una specie di nostalgia.
Contempliamo di nuovo il più bel paesaggio della Grecia che abbiamo mai conosciuto.

Corriere 1.12.17
Firenze Il ministero non paga più l’affitto alla Curia per il locale dove si consultano i preziosi manoscritti
Crisi alla Biblioteca Laurenziana A rischio la sala per gli studiosi
di Antonio Carioti

Tutti coloro che nel mondo studiano la tradizione classica e umanistica considerano un punto fermo la Biblioteca Laurenziana di Firenze, che raccoglie tra l’altro le collezioni dei Medici, per l’eccezionale ricchezza del suo patrimonio di manoscritti e papiri, con opere di Virgilio, di Saffo, dei tragici greci, per non parlare del Corpus Iuris di Giustiniano. Ma adesso il lavoro degli specialisti su quei tesori, paragonabili a quelli della Biblioteca Vaticana, rischia di diventare disagevole per difficoltà di natura economica e burocratica.
«Tutto nasce dai tagli alla spesa pubblica per gli affitti», dichiara al «Corriere» il professor Rosario Pintaudi, docente di Papirologia all’Università di Messina, che da lunghi anni lavora come volontario alla Laurenziana. Infatti la Biblioteca occupa locali della Basilica di San Lorenzo: la gran parte degli spazi è in enfiteusi (uso perpetuo), ma per altri pagava un affitto di 50 mila euro alla Curia fiorentina.
«Quando il ministero dei Beni culturali ha tagliato la somma stanziata a questo scopo — racconta Pintaudi — il priore della Basilica, monsignor Marco Domenico Viola, ha chiesto la restituzione degli spazi di proprietà ecclesiastica. Ma mentre per i locali dell’economato si è trovata una soluzione, trasferendo il servizio altrove, il problema spinoso riguarda la sala studi: se la Biblioteca dovesse rinunciarvi, non sarebbe più in grado di fornire agli utenti una struttura adeguatamente attrezzata per le loro ricerche, con un danno enorme, sostanziale e d’immagine, per la Laurenziana e per l’Italia».
Da parte sua monsignor Viola concorda sulla gravità della situazione: «Capisco bene le esigenze della Laurenziana, tanto è vero che dall’inizio dell’anno le rinnoviamo la possibilità di rimanere nei locali che avrebbe dovuto lasciare. Tra l’altro la sala studi è interclusa, si trova all’interno della Biblioteca, e per potervi accedere liberamente, in quanto di nostra proprietà, toglieremmo libertà e sicurezza a un’istituzione così importante. Ma il contratto d’affitto è stato disdetto dal ministero, forse senza rendersi conto delle conseguenze».
Di certo tra gli studiosi si è diffuso un certo allarme, segnalato da Luciano Canfora e da altri specialisti del settore. «Da qualche mese — riferisce Pintaudi — ci sono delle trattative in corso, ma finora dal ministero non sono arrivati segnali d’interesse concreto». La direttrice della Biblioteca, Ida Giovanna Rao, preferisce non parlare della questione con la stampa, mentre monsignor Viola si dice disponibile a raggiungere un’intesa: «Si tratterebbe di realizzare un cambio di locali: noi potremmo lasciare la sala studi alla Laurenziana e come corrispettivo acquisire spazi del chiostro di San Lorenzo che attualmente sono in uso alla Biblioteca. I rapporti con la direttrice sono ottimi, è il governo centrale che finora non ha dato risposte».
A Roma la vicenda è stata presa a cuore dal presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, Giulio Volpe, che assicura l’intenzione del ministero di occuparsene presto: «Assolutamente gli spazi per lo studio non devono essere sacrificati, specie in un’istituzione prestigiosa come la Laurenziana: il problema è certamente risolvibile con un accordo tra le parti, a costi sostenibili. Purtroppo negli anni scorsi il patrimonio bibliotecario è stato trascurato, ma oggi c’è una sensibilità nuova da parte del ministro Dario Franceschini».
Una piena conferma viene da Nicola Macrì, che attualmente svolge le funzioni di direttore generale per le biblioteche e gli istituti culturali: «Sto seguendo il caso in prima persona e lunedì incontrerò a Roma la direttrice Rao per esaminarne tutti gli aspetti. Ma posso assicurare che la sala studi resterà di pertinenza della Laurenziana».