Repubblica 9.11.17
La resa di Prodi sinistra in panne “Tragedia Italia”
Così il padre dell’Ulivo si chiama fuori “Siamo un Paese senza un progetto” Sicilia, agli arresti neoeletto dell’Udc
di Marco Damilano
IERI
mattina alle 12, quando Romano Prodi è sceso dal Frecciargento che lo
portava da Bologna a Roma, ad accoglierlo al binario 3 ha trovato un
operaio in tuta arancione che lo ha inseguito speranzoso: «Professo’,
così nun potemo annà avanti...». Il lavoratore è in buona compagnia, è
solo l’ultimo a strattonare l’ex premier, il fondatore dell’Ulivo, a
chiedergli un impegno diretto per evitare che il Pd e il centrosinistra
si infrangano alle elezioni del 2018 sulla catastrofe della divisione
annunciata.
Prodi è a Roma, ieri un giro intorno alla Camera, una
tappa dal barbiere, qualche incontro riservato. Oggi parteciperà a un
dibattito sull’Europa con il ministro Carlo Calenda e il presidente del
Parlamento europeo Antonio Tajani, aperto da Paolo Gentiloni. Convegni,
seminari, presentazioni di libri. Niente politica, però. Il Professore
resiste, è sfuggito al pressing della minoranza Pd di Andrea Orlando che
gli chiedeva una presa di posizione dopo il risultato delle elezioni
siciliane: «Se dicessi anche una sola sillaba verrebbe interpretato come
un mio desiderio di tornare in campo». In privato, confida la sua
preoccupazione. «È una tragedia», dice agli amici più stretti. Parla
dell’Italia, non del Pd, ma chissà che le due cose non coincidano.
«Quale progetto ha l’Italia in Europa, nel Mediterraneo? Ne parlerà
qualcuno nella prossima campagna elettorale? Qualche giorno fa un
investitore di un importante fondo di Singapore mi domandava notizie su
quello che succederà, ma tutto questo nel dibattito non entra, non
esiste ».
La tenda prodiana resta piantata lontana dalle vicende
interne del centrosinistra. Almeno in apparenza. In realtà, c’è stato un
momento prima dell’estate che sembrava potesse realizzarsi l’operazione
nuovo Ulivo: un listone con il Pd di Renzi, la formazione di Giuliano
Pisapia e gli scissionisti di Mdp (escluso D’Alema) per puntare al
premio di maggioranza che sarebbe scattato superando la soglia del 40
per cento, prevista nella legge elettorale in vigore in quel momento, il
Consultellum. Del nuovo Ulivo Prodi avrebbe fatto il padre nobile. Di
questo avevano parlato il Professore e Arturo Parisi con Renzi il 16
giugno, l’ultimo faccia a faccia tra l’ex premier e il segretario del
Pd. Renzi si era impegnato a tentare, poi è calato il gelo. La tenda di
Prodi si è allontanata. E il Professore ha cominciato ad assistere con
pari disincanto agli altri tentativi di cui pure qualcuno gli
attribuisce la paternità: Pisapia e la sua lunga assenza dalla scena,
Bersani e la sua voglia di rivalsa su Renzi, un’ipotetica lista
europeista di Emma Bonino. L’approvazione del Rosatellum ha fatto il
resto: «Non ci saranno coalizioni, ma al massimo apparentamenti »,
osserva deluso Parisi. «Ci riproveranno a chiedere l’appoggio di Romano.
Ma non c’è più tempo. E non c’è fiducia. Renzi non si fida troppo di
noi e noi non ci fidiamo di lui», dice un prodiano di rango. Per ora,
dunque, Prodi resta fuori. Al pari degli altri nomi che contano del
ristretto club dei fondatori del Pd: Walter Veltroni, Enrico Letta.
Una
sfiducia partita almeno un anno fa. Il 14 novembre 2016, nella Sala
della Maggioranza in via XX Settembre, nel cuore del ministero
dell’Economia, per commemorare Carlo Azeglio Ciampi a due mesi dalla
scomparsa si riunì un parterre di relatori composto da Prodi, Mario
Draghi, Giorgio Napolitano, Giuliano Amato, il ministro Pier Carlo
Padoan, il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco, di fronte a
Sergio Mattarella. C’era ancora il governo Renzi, ma nessun renziano di
rango era presente in sala, nessun ministro tranne il padrone di casa
Padoan e l’allora sottosegretario Claudio De Vincenti. Dal tavolo una
commemorazione non formale. «Per decidere bisogna conoscere, per
discutere bisogna accettare di essere messi in discussione », disse
Prodi. «Chiesi a Ciampi di entrare nel governo con profondo imbarazzo,
perché era già stato presidente del Consiglio, lui accettò di scendere
uno scalino, cosa non facile». Draghi elogiò il metodo Ciampi di
leadership, «un particolare modo di gestire il governo, di lealtà e di
rispetto tra i ministri», esaltando i risultati raggiunti dal governo
Prodi. E Amato «la competenza tecnica e l’acume politico ». Al
referendum sulla Costituzione mancavano ancora due settimane, ma in
quegli interventi c’era già il passo successivo, l’identikit e il
profilo di un governante molto lontano da Renzi, più simile semmai a
quello di Gentiloni, come se la vittoria del No fosse già stato
acquisita. Lo strappo tra Renzi e un pezzo di establishment legato al
centrosinistra e i padri fondatori del Pd si è consumato in quelle
settimane. È prevedibile che nei prossimi giorni il pressing su Prodi si
farà asfissiante, da parte di Renzi e dei bersaniani che lanciano
Pietro Grasso. Ma la coalizione per ora non si vede ed è lontanissima
dal nuovo Ulivo vagheggiato mesi fa. Non c’è un candidato premier e non
c’è un’alleanza. E in tanti scommettono che la prossima legislatura sarà
breve, brevissima, forse più corta di quelle 1992-94, 1994-96,
2006-2008. È più opportuno restare in attesa di un secondo giro, che
potrebbe portare il nome di Mario Draghi. L’operaio del treno, insomma,
dovrà ancora portare pazienza, e non solo lui. Sempre che, intanto, non
venga giù tutto.