giovedì 9 novembre 2017

Repubblica 9.11.17
Sarajevo
I 25 anni di governo del partito etnico dei musulmani hanno provocato l’islamizzazione forzata di una società orgogliosa della propria laicità
Moschee piene, alcolici e sexy shop bosniaci tra devozione e finzione
Improbabili fedeli affollano i luoghi di culto per non rischiare di perdere il posto di lavoro in un Paese dove il novanta per cento degli impieghi sono pubblici Nulla scalfisce il regno dinastico degli Izetbegovic famiglia chiacchierata ma intoccabile, con lo scettro del comando passato dal defunto Alija al figlio Bakir
di Gigi Riva

SARAJEVO FU all’inizio dell’ultimo Ramadan che Azra dovette ammettere a se stessa quello che si rifiutava di vedere. Era metà mattina, nel suo ufficio al ministero dell’Interno di Sarajevo, e aveva proposto alle colleghe come al solito di consumare con lei la pausa per il caffè, il caffè lungo bosniaco, e la sigaretta. Nessuna la volle seguire con i pretesti più fantasiosi. Non capiva. Finché l’amica più fidata la prese in disparte e le spiegò: «Non veniamo non perché siamo diventate di colpo credenti, ma perché qualcuno potrebbe vederci e sarebbe a rischio il posto di lavoro». Tanto hanno potuto i 25 anni consecutivi al governo del partito etnico dei musulmani: è in atto, in Bosnia-Erzegovina, una islamizzazione degli usi e costumi e l’ipocrita condiscendenza finisce per corrodere una società civile che menava vanto, con Tito e nel primo post-Tito, della propria laicità. Era successo qualcosa di molto simile dopo il 1463 e l’invasione ottomana quando molti slavi per compiacere il sultano di Istanbul ne abbracciarono la religione in cambio di prebende e favori.
I paragoni sono tutti zoppi ma è impossibile non notare una postura identica tra gli attuali abitanti del Paese e i loro avi. La sottomissione a un potere longevo è caratteristica di ogni latitudine, ma qui il parallelismo risale i secoli e si accentua a causa dall’identica (finta) scelta confessionale. Tuttavia non si può chiedere a un popolo intero di essere ancora eroe, più di quanto lo fu durante i conflitti degli Anni Novanta. Non si può se l’eterno dopoguerra non ha mai prodotto una concreta ricostruzione, se i salari medi non arrivano a 500 euro (poco più della metà nel settore amministrativo), se i posti di lavoro sono al 90% pubblici e se su una popolazione di 3 milioni e mezzo di persone i disoccupati sono oltre mezzo milione, in maggioranza donne.
Così ogni giorno, quando Sarajevo alza la saracinesca è come a teatro, va in scena la grande finzione. Nella Bascarsija, il cuore antico della capitale, niente vino e superalcolici dove fino a ieri era un proliferare di beoni. Solo birra analcolica. Con strappi alla regola se si conosce il proprietario e basta una strizzata d’occhio d’intesa per avere un cartoccio che cela il liquido proibito. Tutto occultato anche per non alienarsi la sempre più folta clientela araba che altrimenti non ci metterebbe piede (sarebbero 40 mila gli stranieri provenienti dal Golfo e inurbati a Sarajevo, i turisti dalla stessa area sono cresciuti nell’ultimo anno del 200 per cento, attratti da un luogo «fresco, con tanto verde, molti corsi d’acqua e dove però ci sono i minareti»). Una legge prevede del resto che non si possano vendere alcolici “nelle vicinanze delle scuole”: cioè in nessun luogo nei centri urbani. Durante il Ramadan, l’hotel simbolo della città, luogo di convegni e incontri anche della comunità internazionale, col nome che è anche un’aspirazione, “Europa”, non si poteva nemmeno fumare, quando solitamente chi siede tra i tavoli è avvolto in nuvole grigie: nessuna norma vieta ancora il fumo.
Stupisce allora notare sulla Ferhadija, l’arteria principale pedonale che prende nome dalla moschea più bella, una seppur minuscola insegna con una freccia che indica la strada per un “Sexy shop” però nascosto dentro un androne. La giovane impiegata non ha mai dovuto lamentare intrusioni di una inesistente polizia della morale e anzi rivela divertita: «Il momento di maggior afflusso nel locale è il venerdì dopo la preghiera quando sono proprio i più apparentemente religiosi a farmi visita. All’inizio sono timorosi, io li incoraggio spiegando che il sesso non è contro l’Islam, ma è un modo più completo e gioioso di vivere l’intimità. È un gioco delle parti, ne so- no già convinti...».
Le moschee già vuote durante la Repubblica socialista (e anche quello era un modo opposto per ingraziarsi il partito) si riempiono di improbabili fedeli senza dimestichezza con il Corano. Improvvisano litanie a bassa voce, mostrano contrizione e all’uscita tirano un sospiro di sollievo come per una seccatura superata. Luoghi di culto sono spuntati anche sui quartieri di collina, come Kosevsko Brdo, finanziati soprattutto dai Paesi del Golfo sunniti, al contrario dell’ultima guerra quando fu l’Iran sciita, soprattutto, a correre in soccorso dei “correligionari” balcanici con rifornimenti di armi. I minareti hanno mutato lo skyline di una capitale mai prima troppo sviluppata in altezza. Ci si appalesa davanti all’imam per acquisire una benemerenza, come timbrare un cartellino.
E non sono esclusi dal rituale professori universitari che allargano le braccia davanti a colleghi stranieri che li conoscevano per impenitenti miscredenti: «Che ci volete fare, altrimenti mi cacciano dalla cattedra ». E hanno anche molti problemi a contrastare proposte lanciate sui media di regime per “bonificare” i programmi scolastici ed espungere, ad esempio, Darwin. Per non parlare dell’intenzione manifestata dai più fanatici di introdurre la poligamia.
Alla farsa della sottomissione si sottraggono i giovani. Con l’unica arma a disposizione: emigrare. Si calcola che in 150 mila abbiano lasciato il Paese mentre 4 su 5, l’80%, di chi non è espatriato vorrebbe andarsene ma non ne ha le possibilità economiche. Quelli che rimangono, per citare il premio Oscar Danilo Tanovic (“No man’s land”), cercano la felicità scindendo nettamente la loro esistenza dalla politica incapace di offrire una prospettiva di futuro. E corrotta. Stando ad alcuni diplomatici europei «servirebbe una Tangentopoli sul modello di quella italiana e ripartire da zero ». Una sorta di palingenesi che però non è alle viste. Salvo qualche sporadica iniziativa della magistratura per dare una parvenza di efficienza. Da qualche giorno è iniziato il processo al segretario generale dell’Sda (il partito al potere) Amir Zukic e ad altri otto accoliti accusati di associazione per delinquere: vendevano posti di lavoro nell’Azienda elettrica pubblica (Elektroprivreda) a prezzo variabile tra i 16 e i 19 mila KM (marco convertibile con un rapporto di cambio fisso con la nostra moneta fissato a 1,955 ogni 1 euro). Nulla che scalfisca tuttavia il regno dinastico degli Izetbegovic, con lo scettro del comando passato dal padre Alija, scomparso nel 2003, al figlio Bakir, 61 anni, e già si prevede che sarà la di lui moglie Sebija, originaria del Sangiaccato, regione della Serbia a maggioranza musulmana, ironicamente ribattezzata “Elena Ceausescu”, a raccoglierne l’eredità. La “famiglia” resta intoccabile. Chiacchierata ma intoccabile. E provoca solo ironia ma non l’intervento dei giudici la mirabolante ascesa dei profitti della “Bihexo”, società di proprietà di Mirsad Berberovic, cognato di Bakir perché marito di sua sorella Sabina: ha vinto tutte 37 le gare d’appalto per la ristrutturazione della rete idrica della capitale, gestita da una municipalizzata nel cui consiglio d’amministrazione siedono naturalmente dirigenti dell’Sda.
Bakir Izetbegovic ama farsi fotografare con Recep Tayyip Erdogan mentre mostrano insieme le quattro dita alzate, simbolo dei Fratelli musulmani, gli rende costantemente visita e si commuove quando in tv svela una confidenza del presidente turco: «Tuo padre, prima di morire mi ha detto: ti affido la Bosnia, abbine cura». A Istanbul hanno dedicato ad Alija un parco e prodotto una serie tv sulla sua vita. La Bosnia dell’islamizzazione cosmetica risale un tornante della sua storia assieme al nuovo sultano.