giovedì 9 novembre 2017

Repubblica 9.11.17
Freud e gli altri “maestri del sospetto” ci insegnano che inseguire modelli troppo ordinati produce danni. Psicologici ma anche politici
Elogio del caos la forza della vita contro l’algoritmo
di Massimo Recalcati

L’uomo, scrive Freud in una celebre metafora, «non è padrone nemmeno in casa propria ». Con questa affermazione egli si pone in continuità con Darwin e con Copernico: il primo frustra il narcisismo umano mostrando che la nostra forma di vita non deriva da Dio ma dai primati; il secondo lo frustra mostrando che la terra
non è affatto al centro dell’universo ma ruota attorno al sole. Spetta però al padre della psicoanalisi intaccare il punto di maggior prestigio dell’uomo: la padronanza di se stesso, la proprietà della sua “casa” interna. L’illusione del governo di sé che aveva ispirato la saggezza greca e l’etica giudaico- cristiana e che aveva orientato la ragione filosofica moderna da Descartes in avanti, viene meno.
In primo piano è l’esperienza dell’ingovernabile che si rivela innanzitutto nella non coincidenza tra la vita del soggetto e quella della sua coscienza. È la lezione che Freud eredita da Schopenhauer e da Nietzsche: la forza pulsionale della vita trascende la coscienza, la quale non è altro che una formazione reattiva e difensiva nei confronti del carattere debordante di quella forza. Siamo agiti da una spinta che non possiamo domare né con la nostra ragione, né con la nostra volontà. Ogni sogno di padronanza dell’Io deve essere abbandonato. Tutte le forme delle cosiddette dipendenze patologiche — dal sesso, dal gioco, dalle sostanze, dagli oggetti tecnologici — offrono un ritratto estremo ed inquietante dell’ingovernabile: il giocatore d’azzardo, come il tossicomane o l’alcolista, non possono resistere alla spinta maledetta che li incatena perversamente alla loro passione. Questa dimensione dell’ingovernabile contraddice un certo ideale superomistico di cui il nostro tempo sembra vantarsi. Contraddice l’ideale ipermoderno di una vita compiuta, sufficiente a se stessa, computerizzata, autonoma, capace di governare con sicurezza il proprio destino. Ma la vita non è mai riducibile a un algoritmo. Il caos non è l’opposto gnostico del cosmos, ma la sua matrice, la sua ombra, il suo sangue. Sempre la vita contiene un eccesso che ci sgomenta. Niente, scriveva Lacan, fa più paura della «sensazione della vita». La vita che vuole vivere è una marea montante che sembra spazzare via ogni intento educativo. Di fronte a questa marea sappiamo, tra l’altro, che quanto più il discorso educativo prova a divenire normativo nell’illusione di disciplinarla, tanto più esso rischia di fomentarne il carattere sterilmente distruttivo. Un grande psichiatra francese dell’Ottocento — Charles Lasegue — ha coniato a questo proposito una massima luminosa: «L’insistenza genera sempre resistenza». La sua applicazione è sotto gli occhi di tutti. Se gli educatori insistono troppo nei loro divieti: «Stai fermo!» «Studia! » «Mangia!», rischiano di ottenere il contrario di quello che avrebbero voluto ottenere, generando, appunto, iperattività, difficoltà di apprendimento, anoressia.
L’ineluttabilità della morte è un’altra immagine forte dell’ingovernabile. I progressi della medicina, sostenuti dalla scienza e dalla tecnica, non ci renderanno mai immortali. L’inizio della vita porta già con sé il dramma della sua fine. I sofismi filosofici che vorrebbero ridurre la morte a una apparizione estranea alla vita si sciolgono di fronte all’evento sempre «prematuro» e «innaturale », come direbbe Simone de Beauvoir, della morte.
Ma cosa fare allora con l’ingovernabile? Si tratta di negarne l’esistenza coltivando l’illusione di un mondo a nostra disposizione? Di imporre un ordine ideale che escluda ogni forma di disordine? Possiamo pensare davvero che la salute di una città o di un corpo sia garantita da un’azione di governo o di cura che escluda per principio il disordine dell’ingovernabile? La vita della polis — come quella del corpo — fronteggia sempre qualcosa che sfugge al controllo e alla padronanza: flussi migratori, violenza, criminalità, conflitti insanabili, odio e invidie sociali. L’illusione di un governo totale del mondo ha animato i deliri dei sistemi totalitari del Novecento e sostiene oggi i suoi rigurgiti fondamentalisti. Il sogno totalitario è sempre un sogno di piena padronanza: la città ridotta al monolinguismo di una etnia, di una razza, di un solo popolo, di una sola religione, dell’identità del sangue e del suolo, di una sola versione possibile della vita. Ma esiste anche una versione più soft di esclusione dell’ingovernabile; per esempio la medicalizzazione sospinta della vita, il corpo ridotto a un ingranaggio massimamente efficiente che dominano il nostro tempo. È il mito ipermoderno dell’uomo-macchina regolato dal principio di prestazione.
Vivere facendo amicizia con l’ingovernabile è una promessa impossibile? Un giusto governo della città — come quello di un corpo — non può non implicare il vortice del cambiamento, la pluralità irriducibile degli interessi particolari, la polifonia delle culture e delle etnie differenti. Non si tratta di eliminare il disordine ma di dare al disordine una giusta forma.
L’impatto con l’ingovernabile ci costringe a convivere, a fare amicizia con lo straniero. Questo comporterebbe un cambiamento radicale di mentalità. Non si tratta affatto di rassegnarsi alla potenza del Male o del Caos, ma di fare spazio a una vulnerabilità condivisa. Le arti della poesia e della scrittura offrono già un esempio illuminante di quanto sia necessario accogliere l’esposizione all’ingovernabile per rendere possibile la creazione. Anche dalla psicoanalisi può venire un’indicazione preziosa: l’accanimento nella volontà di governo che pretende di sopprimere il disordine tende sempre a rovesciarsi nel suo contrario; un ordine ottenuto con l’applicazione crudele del potere è peggio del male che vorrebbe curare; ogni volta che l’ambizione umana cerca di realizzare un ordine senza disordine si scontra fatalmente con delle manifestazioni straripanti e anarchiche del disordine. Il governo giusto non è quello che persegue lo scopo di annullare l’ingovernabile, ma quello che lo sa ospitare. Vale per la vita del corpo come per quella della città. Non a caso è lo stesso problema che fronteggia la grande arte di tutti i tempi.

IL FESTIVAL Da domani a domenica 12, alla Mole di Ancona, si svolgerà la prima edizione del Kum! Festival. Curare, Educare, Governare. Il direttore scientifico della manifestazione, Massimo Recalcati, terrà una lectio magistralis domenica alle 12, all’Auditorium Orfeo Tamburi, dal titolo Volti dell’ingovernabile nell’esperienza della psicoanalisi.
Fra i tanti ospiti Stefano Bartezzaghi, Andrea Bajani, Franco Cardini, Gad Lerner. Info: www.kumfestival.it

Corriere 9.11.17
Soldi e misteri in Vaticano
La trattativa con i pm del caso Orlandi. La denuncia di abusi tra i chierichetti di San Pietro
Il nuovo libro di Gianluigi Nuzzi è un viaggio dentro i misteri del Vaticano.
di Gian Antonio Stella

«Allo Ior dovresti evitare assolutamente di conoscere i nomi dei correntisti…». «E se invece dovessi chiedere i nomi dei clienti?». «A quel punto, amico mio, avrai quindici minuti per mettere in sicurezza i tuoi figli. A presto caro…».    Basta questo scambio di battute tra Ettore Gotti Tedeschi sul punto di essere nominato presidente della Banca Vaticana e l’«apprezzato uomo delle istituzioni pragmatico e soprattutto molto ascoltato» che scodella al banchiere l’affettuoso «consiglio» dalle sfumature mafiose, a gettare una lama di luce sul nuovo libro di Gianluigi Nuzzi.
Si intitola «Peccato originale», è edito da Chiarelettere e in 352 pagine il giornalista e scrittore, autore dei bestseller «Vaticano S.p.A.», «Sua Santità» e «Via Crucis» cerca di rispondere a sette domande rimaste in sospeso. Domande che, proprio perché irrisolte, vanno indietro anche di mezzo secolo. «È stato ucciso Albino Luciani? Chi ha rapito Emanuela Orlandi? Se la ragazza ormai “sta in cielo”, come afferma papa Francesco, il Vaticano ha delle responsabilità nell’omicidio, e quali sono? Perché le riforme per la trasparenza della curia, avviate prima da Joseph Ratzinger e adesso da Bergoglio, puntualmente falliscono o rimangono incompiute? Cosa blocca il cambiamento? E ancora: i mercanti del tempio continuano a condizionare la vita della Chiesa dopo aver avuto un ruolo nella rinuncia al pontificato di Benedetto XVI? Infine, la questione più drammatica: lo stallo nel quale sono cadute le riforme di Francesco è dovuto a chi non vuole questo Papa, dentro e fuori i sacri palazzi, e dunque ne ostacola l’opera riformatrice?». Per rispondere, spiega, ha seguito tre fili rossi: i soldi, il sangue, il sesso. Fili che «annodandosi tra loro costituiscono una fitta trama d’interessi opachi, violenze, menzogne, ricatti, e soffocano ogni cambiamento».
E c’è davvero di tutto, nel libro. Dai conti correnti allo Ior di Eduardo de Filippo o di Anjezë Gonxe Bojaxhiu, (suor Teresa di Calcutta) alla dettagliata ricostruzione della riservatissima trattativa tra i vertici della magistratura romana e gli altissimi prelati che fecero sapere al procuratore Giancarlo Capaldo, che da anni indagava sulla scomparsa della Orlandi, del loro imbarazzo per la crescente «tensione massmediatica» a causa della presenza nei sotterranei di sant’Apollinare della tomba di Enrico «Renatino» De Pedis, il boss della banda della Magliana sospettato d’aver avuto un ruolo centrale nella sparizione della ragazza e sepolto lì in cambio di una donazione, pare, di 500 milioni di lire. Insomma, il «disagio» per «sospetti» e «pettegolezzi» era tale che se i giudici si fossero presi la briga di rimuover loro la salma, come raccontava il film di Roberto Faenza «La verità sta in cielo», il Vaticano dopo anni di reticenze avrebbe discretamente fornito tutto ciò che sapeva. Un patto che dopo la traslazione della salma e l’esame di 409 cassette e 52.188 ossa umane per cercare eventuali tracce della quindicenne sparita, sfumò com’è noto nel nulla.
Come nel nulla erano finiti i dubbi, le discussioni e le polemiche sulla morte di Albino Luciani, il «Papa che sorrise solo 33 giorni». Fu avvelenato? Probabilmente no, dice Nuzzi: piuttosto fu «schiacciato» dal peso dei problemi e più ancora dalla «verità tragica e indicibile» di quanto avveniva dentro lo Ior. Che lui avrebbe voluto riformare fin dal ‘72, quando da Patriarca di Venezia aveva avuto il primo scontro col potentissimo e spregiudicato cardinale Paul Marcinkus. Il quale, si legge in «Peccato originale», avrebbe liquidato sei anni dopo il neoeletto Giovanni Paolo I con parole sprezzanti: «Questo pover’uomo viene via da Venezia, una piccola Diocesi che sta invecchiando, con 90.000 persone e preti anziani. Poi, all’improvviso, viene catapultato in un posto e nemmeno sa dove siano gli uffici. (…) Si mette a sedere e il segretario di Stato gli porta una pila di documenti, dicendo: “Esamini questi!”. Ma lui non sa neppure da dove cominciare».
In verità, i pasticci, le scatole cinesi e i labirinti azionari erano tali che avrebbe faticato a capirci non solo un Papa santo ma un revisore dei conti provetto. Basti dire che uno dei numerosi documenti in appendice al libro, del 23 marzo 1974, è la «contabilizzazione assegno n. 0153 s/FNCB NY, del valore di 50.000 dollari, emesso all’ordine: “S.S. Paolo VI per erogazione in relazione Esercizio 1973”. In basso nel documento si riporta il relativo addebito sul conto n. 051 3 01588, intestato “Cisalpine Fund”, che potrebbe far riferimento alla banca panamense Cisalpine, nel cui cda siederanno Paul Marcinkus con Roberto Calvi e Licio Gelli». Banca tirata in ballo in un incontro con Nuzzi dalla stessa vedova di Roberto Suárez Gómez, il «re della cocaina»: «Mio marito Roberto era felice di aver incontrato in Venezuela Calvi, perché disponendo di un garante di questo livello gli affari sarebbero andati molto meglio... con la cocaina immagino, non fu esplicito ma immagino fosse così... Calvi era socio di mio marito...».
Ma le pagine destinate a sollevare più polemiche sono quelle dedicate al sesso. Dove sono ricostruiti gli scandali recenti come il gay party a base di cocaina interrotto dai gendarmi vaticani in un appartamento nello stesso palazzo del Sant’Uffizio o le confidenze di Elmar Theodor Mäder, l’ex comandante delle guardie svizzere («Esiste in Vaticano una lobby gay talmente potente da essere pericolosa per la sicurezza del pontefice») o ancora le amarezze di papa Francesco: «In Vaticano esiste una lobby gay. Nella curia ci sono persone sante, davvero, ma c’è anche una corrente di corruzione. Si parla di una lobby gay ed è vero, esiste».
Ma Nuzzi va oltre. Pubblica un’intercettazione telefonica ad esempio tra il rettore della basilica di Sant’Apollinare all’epoca della scomparsa della Orlandi e un giovane seminarista nato in Birmania. Intercettazione strapiena di allusioni sessuali a dir poco imbarazzanti. Più ustionante ancora la testimonianza di un polacco (con nome, cognome e copia della lettera di denuncia) entrato dodicenne nel pre-seminario San Pio X a palazzo San Carlo (lo stesso in cui vivono cardinali come Tarcisio Bertone) dove le Diocesi indirizzano i ragazzini che «manifestano una predisposizione per il sacerdozio» e «partecipano come chierichetti alle funzioni religiose nella basilica di San Pietro». Incluse quelle celebrate dal Papa. E dove, stando a quanto raccolto in «Peccato originale», sarebbero avvenuti abusi denunciati ai superiori, su su nella scala gerarchica, senza che certe cose, purtroppo, venissero radicalmente cambiate. A essere allontanato, scrive anzi il giornalista, fu il chierichetto che chiedeva di allontanare chi molestava lui e il suo compagno di stanza. Accuse assurde? Si vedrà. Certo colpiscono le risposte rasserenanti e sdrammatizzanti di certi prelati chiamati a intervenire dopo queste denunce. Su tutte una «raccomandazione» al giovane polacco: «Ti auguro di riprendere serenità e docilità».

La Stampa 9.11.17
Bambini maltrattati negli asili
Ogni giorno tredici denunce
Crescono le famiglie che accusano le maestre di presunte vessazioni
di  Elisa Forte

Maltrattamenti psicologici e fisici. Schiaffi, strattoni, insulti. Bambini legati alle sedie con lo scotch e infanti «shakerati» e derisi. Piccoli innocenti lasciati senz’acqua per giornate intere. E ancora: percosse, trascinamenti, calci, colpi dietro la nuca. Corpicini inermi spinti contro i muri e piccole teste sbattute sui banchi.
È successo. Succede ancora: da Bari a Busto Arsizio, da Milano a Napoli. Al centralino dell’associazione La Via dei Colori Onlus di Pistoia arrivano segnalazioni ogni giorno. Lo scorso anno tra richieste di aiuto, di consulenze e denunce sono stati 5 mila i contatti con l’associazione giunti da tutta Italia, una media di 13 al giorno.
I maltrattamenti sui piccoli degli asili nido e della scuola dell’infanzia sono in crescita. La onlus, l’unica sul territorio nazionale ad occuparsi di minori, anziani e disabili vittime di maltrattamenti in struttura, è nata il 2 dicembre del 2010, lo stesso giorno ed esattamente l’anno dopo in cui la Corte di Cassazione ha scritto l’ultima parola sulla storia dell’asilo lager Cip & Ciop di Pistoia condannando - per la prima volta alla pena più alta in Italia - le due maestre, Anna Laura Scuderi (6 anni e 4 mesi) ed Elena Pesce (5 anni).
Le richieste di aiuto al numero verde 800984871 attivo 24 ore su 24 non si arrestano. C’è voglia di denunciare, ma si teme ancora di rimanere soli. Allo sbando. Sono già cento in soli sette anni i processi che La Via dei Colori segue con il suo staff di dodici legali. Trentuno i fascicoli di indagine al vaglio delle Procure italiane, seicento le parti offese. E a queste famiglie che hanno riconosciuto storie di maltrattamenti a scuola e hanno voluto denunciare maestre e istituti continuano ad unirsi nuovi genitori di piccolissime vittime. Già, le vittime: nell’80 per cento dei casi hanno meno di 6 anni. Sono proprio i più piccoli, i più indifesi ad aver incontrato al nido o nella scuola materna chi, invece di proteggerli, ha alzato le mani, ha strillato oltre ogni limite, li ha puniti. Ha chiuso la porta alle emozioni e ha fatto crescere la paura.
Le maestre incriminate spesso tornano al loro posto. E questo proprio non va giù alla comunità dei genitori delle vittime degli abusi nelle scuole. Un tema che scotta. Da sempre. Ma non si risolve. L’avvocato Giulio Canobbio è il direttore del comitato scientifico dell’associazione La Via dei Colori. Coordina lo staff legale (dei processi civili si occupa l’avvocato Andrea Moretti) e sa bene che le seicento parti offese che assistono si sono trovate, e si ritroveranno ancora, dinanzi a questo problema. «Il tema c’è – sottolinea – e anche l’ultimo passo legislativo fatto di recente che innalza il divieto di esercitare la professione da 3 mesi a un anno di fatto nulla risolve. Abbiamo assistito a casi che si sono chiusi con condanne 2 anni e 8 mesi nei confronti della maestra incriminata, anche in presenza di video con immagini di maltrattamenti sui bambini che in confronto i film di paura sono una passeggiata». C’è poi l’incidente probatorio, questo sconosciuto. In molti casi non viene concesso. Questo è un altro scoglio per chi difende le famiglie delle vittime. «Ci sarebbe necessità di approfondire, di capire quali lesioni sono state inflitte, tenendo conto che per lesioni intendiamo sia quelle del corpo sia quelle della mente».
Insomma, la strada è in salita. Di maestre a colori, perbene, affettuose, ce ne sono tante. Ma le altre, quelle che insegnano paura e angoscia non sono ancora del tutto sconfitte. «Sono una minima parte rispetto a chi insegna con passione e dedizione. Si sono macchiate del reato peggiore. Sono pagate dallo Stato per servire la comunità e invece di aiutarci a crescere i nostri figli creano danni perpetui a decine di bambini», raccontano distrutti alcuni genitori. Stanno ancora vivendo il lungo e difficile travaglio del processo nei confronti delle maestre dei loro figli. Mentre provano a ricostruire una nuova vita a colori in famiglia.

Corriere 9.11.17
Quell’intercettazione su Emanuela: «Devi dire che non sappiamo niente»

(...) Tra i diversi episodi, un’imbarazzante intercettazione telefonica del 12 ottobre 1993 tra il gendarme vaticano Raul Bonarelli e un uomo da lui chiamato «Capo», identificato poi in Camillo Cibin, ispettore del corpo della Gendarmeria, che all’epoca si chiamava Vigilanza del Vaticano. È una giornata cruciale, siamo alla vigilia dell’interrogatorio che Bonarelli deve rendere all’autorità giudiziaria italiana sulla vicenda Orlandi.
Cibin: Ho parlato con Sua Eccellenza Bertani... E dice... per testimone, e dici quello che sai... che sai della Orlandi? Niente! Noi non sappiamo niente!... Sappiamo dai giornali, dalle notizie che sono state portate fuori! Del fatto che è venuto fuori di competenza... è... dell’Ordine Italiano.
Bonarelli: Ah, così devo dire?
C.: Ebbè, eh... che ne sappiamo noi? Se te dici: io non ho mai indagato... l’Ufficio ha indagato all’interno... questa è una cosa che è andata poi... non dirlo che è andata alla segreteria di Stato.
B.: No... no, noi io all’interno non devo dire niente.
C.: Niente.
B.: Devo dire, io all’interno non devo dire niente, all’esterno è stata...
C.: All’esterno però, quando è stata la magistratura vaticana... se ne interessa la magistratura vaticana... tra di loro, questo qua... niente dici, quello che sai te, niente!
B.: Cioè, se mi dicono però se sono dipendente vaticano, che mansioni svolgo, non lo so, mi dovranno identificare, lo sapranno chi sono.
C.: Eh, sapranno, perché che fai, fai servizio e turni e sicurezza della Città del Vaticano, tutto qua?
B.: Eh... Va bene, allora domani mattina vado a fare questa testimonianza, poi vengo, vero?
C.: Poi vieni, sì, sì.
B.: Va bene.

Corriere 9.11.17
La chat con le foto di 63 liceali nude «Ho paura, i miei non sanno nulla»
Modena, lo scambio di immagini su WhatsApp finisce in Rete. «Era solo un gioco»
di Elena Tebano

«Abbiamo iniziato la chat dopo la fine della scuola, durante le vacanze estive, un po’ per noia, un po’ per divertirci, ma pensavamo rimanessero solo fra noi, per scherzare e ridere, non avremmo mai fatto scatti da distribuire in giro». «Noi» sono 63 ragazze tra i 16 e i 17 anni della provincia di Modena e Reggio Emilia, studentesse nella stessa scuola, e a parlare è una delle 17enni: per mesi, tra maggio e settembre, si sono scambiate messaggi e foto sempre più intime, alcune a sfondo sessuale. Che poi sono state in parte «rubate» e spedite senza il loro consenso su WhatsApp, Instagram, Snapchat a compagni di scuola. Il fenomeno del «sexting», scambio di messaggi e foto erotiche, è diffuso tra gli adolescenti, ma in questo caso colpisce il numero di ragazzine, tutte femmine, coinvolte.
La vicenda è emersa quando il fidanzatino di una di loro si è rivolto all’associazione antipedofilia «La Caramella Buona», che ne ha dato notizia su Il Resto del Carlino . Adesso, attraverso l’associazione, una delle giovani racconta al Corriere cosa è successo. «Io non conosco tutte le ragazze del gruppo WhatsApp, solo 4 o 5, delle altre ho visto le fotografie e i video — spiega —. Le mie clip non sono esagerate, ma qualcuna è andata oltre».
In una dinamica tipica dei gruppi chiusi, dalle prime «normali» foto in costume le adolescenti sono passate a immagini sempre più esplicite, fino a mostrare atti sessuali. In tutto un giga di dati. A un certo punto gli scatti sarebbero stati intercettati da un coetaneo che li ha diffusi tra i ragazzi della zona — come e perché lo chiarirà la magistratura che ha aperto un’indagine. «Nei giorni scorsi a scuola ci siamo accorte che qualcosa di strano era successo — dice ora la 17enne —. Ci è voluto poco a capire cosa. Io mi sono spaventata. Ho pensato ai miei genitori, al fatto che potevano reagire malissimo e sono entrata nel panico, come le altre».
Una reazione comprensibile ma che ha reso più difficile fermare la diffusione delle foto: «Devo ancora dirlo ai miei — ammette la ragazza —, non so che fare. Nel gruppo qualcuna, come me, deve decidere; altre se ne fregano, non vogliono dirlo a nessuno: sostengono che tanto viene tutto cancellato. Io non ci credo».
«I giovani sono molto bravi a utilizzare i dispositivi che hanno a disposizione, ma hanno difficoltà a proiettare nel futuro e oltre lo spazio della loro camera, del telefono o del pc le conseguenze di ciò che fanno — conferma Nunzia Ciardi, direttore del Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni —. Invece devono sapere, al di là del caso specifico, che le foto di una minorenne nuda sono materiale pedopornografico: è un reato sia scaricarle che diffonderle».
E una volta finite online, anche se su un gruppo chiuso che illude di controllarle, possono essere diffuse all’infinito: «Gli adolescenti pensano che il materiale condiviso con WhatsApp rimanga congelato — spiega il presidente di «La Caramella Buona» Roberto Mirabile — oppure che basti un semplice click per eliminarlo. Purtroppo non è così».

La Stampa 9.11.17
Foto osé di minorenni rubate dalla chat
Si teme finiscano online
di Franco Giubilei

Centinaia di foto e decine di filmati osé, alcuni con scene di autoerotismo esplicite, sono stati trafugati da una chat di WhatsApp, dove venivano pubblicati da una sessantina di studentesse di liceo, e hanno cominciato a circolare fra i compagni di scuola. L’autore non è ancora stato individuato, potrebbe trattarsi del fidanzato di una delle ragazzine, che ha ammesso di aver scaricato il materiale, 1,15 giga di dati, ma ha negato di averlo messo su internet. In ogni caso, da adesso e per anni le giovanissime dovranno convivere con l’incubo che quelle immagini vengano tirate fuori per ricattarle, per non parlare dei pedofili che setacciano la rete alla ricerca di questi materiali.
La vicenda è stata svelata grazie al ragazzo di una 17enne del gruppo il quale, venuto a conoscenza della storia, tenuta segreta dalle studentesse per paura che la sapessero amici e famiglie, si è rivolto all’associazione anti-pedofilia La Caramella Buona. Il presidente, Roberto Mirabile, racconta: «Se la vicenda è venuta a galla è grazie al fidanzatino di una delle ragazze, che ha capito la gravità della situazione e mi ha contattato prima via mail e poi al telefono, per mettermi infine in contatto con la sua ragazza, una delle 62 coinvolte». A rendere ancora più preoccupante la fuga di immagini, la circostanza che le adolescenti vi sono indicate per nome e cognome.
In attesa che il link dal quale accedervi sia bloccato dalla polizia postale, che sta compiendo verifiche insieme alla procura dei minori di Bologna, Mirabile mette in guardia dai pericoli di un fenomeno tutt’altro che limitato: «E’ molto più diffuso di quanto si possa immaginare, anche fra ragazzine molto piccole. Quando iniziano a conoscere il sesso, si filmano e poi capita che qualcuno diffonda video o foto». Ma c’è anche un’altra questione, legata al fatto che il materiale erotico della chat delle liceali, opportunamente archiviato da qualcuno, possa essere tirato fuori anche a distanza di anni: «Si pensi al video porno di Belen, che è uscito dopo molto tempo», aggiunge Mirabile. Una spada di Damocle con cui dovranno abituarsi a convivere e che porta ai consigli utili per limitare possibili danni futuri, un comportamento finalmente ragionevole ma tutt’altro che scontato, per la delicatezza dell’argomento: «La raccomandazione è che, superando i sensi di colpa, raccontino tutto ai loro genitori». Le famiglie, in realtà, sono l’altra grande incognita di storie come queste: hanno idea i genitori di quel che possono combinare le loro figlie (o figli) con uno smartphone e una connessione a internet?

La Stampa 9.11.17
La potenza delle parole al femminile
di Federico Taddia

«Perché ripeti sempre bambine e bambini quando ci parli?». Me lo ha chiesto all’improvviso Sofia alla conclusione di un incontro in una scuola elementare, così come a nove anni sanno essere diretti e spontanei i bambini e le bambine. Le ho spiegato che mi sembrava giusto, bello e rispettoso rivolgermi in quel modo alla classe, visto che c’erano sia maschietti che femminucce.
E lei, con la semplicità e l’assenza di filtri che solo a nove anni hai, con il ditino alzato perché ha capito che stava facendo una piccola lezione a un adulto, mi ha espresso il suo pensiero tutto d’un fiato: «Ma no, sbagli. Io anche se sono una bambina, mi puoi chiamare bambino: sono i bambini che non puoi chiamare bambine». Non sarebbero state contente le 314 insegnanti francesi contrarie alla norma per cui il maschile prevale su quello femminile, ultima protesta a favore della nuova grammatica a favore della parità. Io, nel mio piccolo, ho cercato di scalfire l’assoluta certezza di Sofia con altri esempi, tentativo fallito dal suono della campanella della ricreazione. Lei si sentiva bambina, appartenente alla categoria dei bambini. Tutto normale, certo. Ma indicativo nel nostro chiacchierare quotidiano. Le parole non sono solo un suono. Le parole creano identità. Contenuto. Differenze. E pregiudizi. Le parole non sono neutre e i linguisti ben lo sanno. Ma basta un «sindaca», un «ministra», un «ingegnera» a superare un uso del linguaggio dove la donna pare sovente in posizione di sottomissione e a modificare un vocabolario orientato al maschile? Ovviamente no, anche se la questione è analizzata da vari decenni, nel nostro Paese, a partire dal saggio «Il sessismo nella lingua italiana» di Alma Sabatini, pubblicato nel 1987. Riflessioni accademiche che faticosamente hanno varcato gli ambienti del femminismo, tanto che in uno scritto datato 2008 del Parlamento europeo si dice: «In Italia il dibattito su un uso non sessista della lingua è ancora agli esordi, e nella lingua correntemente usata dai media, e in particolare dalla stampa, nonché nel parlato e nello scritto, si utilizzano a tutt’oggi pochissimi neologismi e si tende a usare il maschile con funzione neutra». Parole nuove per definire ruoli vecchi, ma in un modo diverso: questa è l’urgenza, per alimentare una cultura paritaria. La lingua però non è un algoritmo che si può modificare con un software. Non bastano le leggi, i documenti della pubblica amministrazione riscritti con acrobazie lessicali, imporre vocaboli non discriminanti algidi e astratti. Il boldrinismo insegna: il mantra ossessionante della «presidenta», ripetuto, ostentato e alzato a bandiera, non fa altro che mettere in secondo piano una finalità urgente e condivisibile, generando distacco, incomprensione e antipatia. Che da «il governante» a «la governante» nel percepito comune ci sia un abisso nessuno lo mette un dubbio e chiunque capisce quanto la lingua possa essere ingannevole e perfida. Limitarsi a correggere il dizionario è una scorciatoia pericolosa. Non sono i biglietti da visita a rivoluzionare una società: servono trasformazioni radicali, moderne. Ad ogni livello. In un’Italia fatta di sindache, assessore, presidentesse e ministre tutti metterebbero le vocali giuste al posto giusto. «Margherita, cosa scrivo nella tua biografia: direttore o direttrice dell’Osservatorio di Trieste?» – ho chiesto un giorno alla Hack. Lei mi ha fissato, con il suo solito sorriso, e nel toscano più stretto mi ha risposto: «Metti donna. Su quello nessun bischero avrà da ridire».

Repubblica 9.11.17
Dallo strapotere dei gruppi criminali allo scioglimento del municipio Ma il gesto di ieri è un salto di qualità. Che potrà scatenare la reazione
Il pestaggio che ora può costare caro ai padroni del quartiere senza Stato
di Carlo Bonini

ROMA. Ci sono municipi, a Roma, che si annunciano con un murales, una targa rionale, uno sberleffo o semplicemente con il raggelante nulla dei falansteri in cemento armato. E poi ce ne è uno — Ostia — su cui da tempo immemore la città e la sua pubblica amministrazione hanno perso ogni sovranità. Che parla un’altra lingua. Quella di chi di Ostia è uno dei padroni. La lingua dell’adesivo — «Kittesencula» — che addobba le chiappe delle Vespe o i posteriori di qualche Suv. Dei roghi della Mafia dei chioschi sul lungomare. Della coca e dell’hashish a quintali che arriva dalla Spagna e che viene “spinta” in ogni angolo della città. La lingua di Roberto Spada e del suo clan di antica e ormai sbiaditissima origine Sinti. «Nummene fotte ‘n cazzo», dice al giornalista di Nemo Daniele Piervincenzi, prima di “partirgli di capoccia” e spaccargli il setto nasale perché «so’ du’ ore che stai a rompe co’ le domande».
Già, «Fatte li cazzi tua», a Ostia, è innanzitutto un consiglio, prima ancora che una minaccia. Un buffetto che anticipa di un istante la capocciata o il colpo di spranga. È saggezza mafiosa dispensata a chi fa domande sulle famiglie della zona a un cameriere in un bar (accadde nella centralissima gelateria “Sisto” nel lontano 2012, durante il lavoro di ricerca per il libro “Suburra”) e, a maggior ragione, al cronista che non abbassa lo sguardo (la nostra Federica Angeli, sotto scorta da anni, e i cui figli sono stati minacciati di morte proprio da Roberto Spada). Perché, a Ostia, i giornalisti sono appena un gradino sotto «le guardie » e uno sopra gli «infami». Sempre e comunque «mmmerde », come amabilmente chiosa la claque social che, puntualmente, a ogni aggressione, a ogni intimidazione, si stringe solidale sui profili Facebook intorno all’aggressore. A maggior ragione se porta quel cognome. Spada. A maggior ragione se abita in quel ghetto nel ghetto alle spalle del Porto turistico di Roma, che porta il nome di “Nuova Ostia”, sul lungomare di Ponente. Nei casermoni anni ’70, dove le assegnazioni e gli sfratti non li decide il Comune ma gli Spada, appunto.
A Ostia — trenta chilometri in linea d’aria dal Quirinale, Montecitorio, Palazzo Madama — lo Stato, la Politica, la pubblica amministrazione, sono un simulacro. Il che ne spiega il suo scioglimento per mafia e il suo successivo commissariamento. A Ostia, il Mondo di Sotto si è mangiato da un pezzo quello di Mezzo e quello di Sopra. Rompendo, se necessario con le armi, fragili paci e instabili equilibri raggiunti con le organizzazioni criminali tradizionali, ‘Ndrangheta e Cosa Nostra. E questo mentre la giustizia penale ha discettato per lustri — e tutt’ora discetta — se si tratti o meno di Mafia.
Già, dici Spada e pensi ai Casamonica della Romanina, con cui sono imparentati. Dici Ostia e pensi ai Fasciani e al narcotraffico. Dici Spada e capisci perché nel giorno del voto per il rinnovo del consiglio e della Presidenza del Municipio sono rimasti a casa due abitanti di Ostia su tre. Perché qui tutti hanno un prezzo e tutto ha un prezzo. E la politica, storicamente dal voto “nero”, non solo non ha mai conosciuto la lettera maiuscola, ma ha sempre parlato il linguaggio del baratto. Cominciò Gianni Alemanno promettendo casinò e una pista da sci artificiale sul mare. Ostia come Atlantic City. Poi arrivò Ignazio Marino, «er marziano », che di Ostia conosceva «le splendide dune» e immaginava oasi naturalistiche in casa dei diavoli. E poi Virginia Raggi, che non pensava assolutamente nulla, buona per qualche comparsata, e a cui, non più tardi dell’aprile scorso, una cittadina, Carmela De Marco, proprio dalle colonne di Repubblica, scriveva: «Cara sindaca, lei è venuta ad Ostia e ha detto che va tutto bene. Ma lei è per caso il sindaco di New York? È venuta a 400 passi dal mio bar finito otto mesi fa nelle mani degli Spada e della rete dei loro complici e si permette di dire che va tutto bene?».
Appena il 4 ottobre scorso, per il racket delle case popolari di Nuova Ostia sette maschi del clan Spada si sono presi condanne in primo grado dai 5 ai 13 anni con l’aggravante del metodo mafioso. In gennaio, Armando Spada, cugino del capo del clan (Carmine, condannato a 10 anni nel 2016 per estorsione con l’aggravante mafiosa), ne aveva avuti 6 di anni per essersi appropriato «con metodo mafioso» di uno stabilimento. «Embé», devono aver pensato i maschi rimasti in libertà. Perché in fondo, a Ostia, è sempre girata così. Un po’ di casino e poi buonanotte al secchio. Almeno fino alla capocciata di Roberto. Perché forse — come confidava ieri sera uno sbirro che a Ostia ne ha viste tante, forse troppe — «stavolta l’hanno proprio fatta fuori dal vaso ». Un po’ come il funerale dei Casamonica sotto una pioggia dal cielo di petali di rose elitrasportate. Che, detta così, è una cosa che dovrebbero capire anche a Nuova Ostia.

La Stampa 9.11.17
Racket di case popolari, usura e intimidazioni
Il litorale ostaggio dei boss
Così la criminalità controlla la periferia di Roma
di Federico Capurso

A Ostia la chiamano solo «la Piazza». Le case popolari, fitte, l’una sull’altra, creano un muro di mattoni rossi che circonda il cuore del regno del clan Spada, piazzale Lorenzo Gasparri. Le persiane sono quasi tutte chiuse. Solo qualche spiraglio, a intermittenza, si apre dai piani più alti che affacciano sul mare di Roma.
Gli Spada sono cresciuti all’ombra del clan Fasciani, vero mammasantissima del litorale. E lo hanno fatto in fretta, togliendo spazio all’altro clan, quello dei Triassi, legato a Cosa Nostra tramite la cosca Caruana–Cuntera, di Agrigento. Tra Spada e Triassi, adesso, sembrerebbe sia stato stretto una sorta di patto di non belligeranza, benedetto dai Fasciani, e che nonostante qualche fibrillazione continua a reggere grazie agli interessi economici in gioco.
Ma la famiglia Spada non nasce dal nulla. Dietro di loro c’è l’appoggio dei cugini, i Casamonica, con cui condivide le origini rom. Il clan dei Casamonica, considerato uno dei più potenti di Roma, con i suoi oltre mille affiliati controlla il quadrante Est della Capitale, dalla periferia fino ai Castelli Romani. E grazie agli Spada, proteggendone la crescita, ha trovato uno sbocco sul mare e l’affermazione del proprio potere criminale.
Queste sono due settimane importanti per le famiglie mafiose di Ostia. Il nervosismo è alto perché il futuro degli affari dipenderà, in parte, dal risultato elettorale che il prossimo 19 novembre vedrà affrontarsi al ballottaggio le candidate del M5S, Giuliana Di Pillo, e della coalizione di centrodestra, Monica Picca. Uno dei punti più importanti, per i progetti del clan Spada, riguarda proprio il business degli alloggi popolari. Poche settimane fa il tribunale di Roma ha condannato in primo grado sette esponenti della famiglia a sette anni di carcere per il reato di estorsione, con l’aggravante del metodo mafioso, proprio per il racket degli alloggi popolari. Una gestione – secondo quanto emerge dalla prima sentenza di condanna - fatta di vere e proprie torture, dai tendini della mano tagliati lentamente ai pestaggi in piazza. E dalle intercettazioni emerge persino l’utilizzo, dal forte sapore medioevale, dell’«untore»: un ragazzo sieropositivo inviato per minacciare con il proprio sangue infetto chi non volesse piegarsi alle richieste del clan. «Ma qui nessuno parla mai di mafia», si ripete, a bassa voce, nel quartiere.
È il lato di ponente del litorale. Ostia Nuova, la chiamano, come se nel nuovo dovesse nascondersi una speranza. E invece è la periferia della periferia, dove i ragazzi con le creste o i capelli rasati corrono veloci, sugli scooter, dalle palestre di boxe ai bar illuminati fino a notte fonda. Ronde chiassose, con le marmitte bucate e le felpe sgargianti, simboli di controllo del territorio. E poi c’è l’altro mondo del clan, quello dei social. Lì, i legami e gli intrecci tra famiglie – sembra quasi con noncuranza – vengono portati alla luce del sole. Spada, Casamonica, De Silvio, la vita privata dei componenti più giovani dei clan è online. Le foto dei salotti con i grandi troni dorati, le tv al plasma, gli abiti griffati, i video delle feste sfarzose e degli incontri di boxe, le simpatie vecchie per i Cinque Stelle e quelle nuove per l’estrema destra di CasaPound.

Repubblica 9.11.17
La storica / Eva Cantarella
“Lo studio degli antichi ci salva dal razzismo”
di Cristina Nadotti

ROMA. «Ha sempre senso fare il classico!» garantisce categorica la storica dell’antichità Eva Cantarella.
Perché, professoressa?
«Rispondo con una frase di Arnaldo Momigliano: “Là dove la civiltà è minacciata, la conoscenza delle radici della civiltà è essenziale. Non avere contezza del passato del mondo è come essere ammalati di Alzheimer, si perde coscienza di sé, si va a tentoni».
Ma per conoscere la storia è indispensabile imparare la grammatica greca?
«Metto insieme greco e latino e le dico che sono un dono in più che ci fa il classico. Inoltre la conoscenza di queste lingue arricchisce il nostro lessico e aiuta a penetrare nel pensiero degli antichi. Sforzarsi di capire cosa e come pensavano i nostri antenati è avvicinarsi alla diversità e in un’epoca come la nostra è un baluardo contro il razzismo».
Eppure obiezione diffusa per non scegliere il classico è che le lingue morte non servano.
«Perché la nostra società è permeata dall’idea dell’utilità pecunaria. È lecito sperare di trovare un lavoro grazie ai propri studi, ma la scuola non serve soltanto a questo, serve a formare la persona. Cancellare i classici è un appiattimento sul presente che non aiuta a progettare il futuro. In più, le dirò che i classici sono un investimento per il futuro: in tarda età ritornare ai classici dà grandissima gioia e soddisfazione».
Però spesso ci viene rimproverato di essere ignoranti in ambito scientifico.
«Per fortuna ora i licei classici curano anche le materie scientifiche. Io stessa rimpiango di aver imparato male matematica e fisica».

Repubblica 9.11.17
La resa di Prodi sinistra in panne “Tragedia Italia”
Così il padre dell’Ulivo si chiama fuori “Siamo un Paese senza un progetto” Sicilia, agli arresti neoeletto dell’Udc
di Marco Damilano

IERI mattina alle 12, quando Romano Prodi è sceso dal Frecciargento che lo portava da Bologna a Roma, ad accoglierlo al binario 3 ha trovato un operaio in tuta arancione che lo ha inseguito speranzoso: «Professo’, così nun potemo annà avanti...». Il lavoratore è in buona compagnia, è solo l’ultimo a strattonare l’ex premier, il fondatore dell’Ulivo, a chiedergli un impegno diretto per evitare che il Pd e il centrosinistra si infrangano alle elezioni del 2018 sulla catastrofe della divisione annunciata.
Prodi è a Roma, ieri un giro intorno alla Camera, una tappa dal barbiere, qualche incontro riservato. Oggi parteciperà a un dibattito sull’Europa con il ministro Carlo Calenda e il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, aperto da Paolo Gentiloni. Convegni, seminari, presentazioni di libri. Niente politica, però. Il Professore resiste, è sfuggito al pressing della minoranza Pd di Andrea Orlando che gli chiedeva una presa di posizione dopo il risultato delle elezioni siciliane: «Se dicessi anche una sola sillaba verrebbe interpretato come un mio desiderio di tornare in campo». In privato, confida la sua preoccupazione. «È una tragedia», dice agli amici più stretti. Parla dell’Italia, non del Pd, ma chissà che le due cose non coincidano. «Quale progetto ha l’Italia in Europa, nel Mediterraneo? Ne parlerà qualcuno nella prossima campagna elettorale? Qualche giorno fa un investitore di un importante fondo di Singapore mi domandava notizie su quello che succederà, ma tutto questo nel dibattito non entra, non esiste ».
La tenda prodiana resta piantata lontana dalle vicende interne del centrosinistra. Almeno in apparenza. In realtà, c’è stato un momento prima dell’estate che sembrava potesse realizzarsi l’operazione nuovo Ulivo: un listone con il Pd di Renzi, la formazione di Giuliano Pisapia e gli scissionisti di Mdp (escluso D’Alema) per puntare al premio di maggioranza che sarebbe scattato superando la soglia del 40 per cento, prevista nella legge elettorale in vigore in quel momento, il Consultellum. Del nuovo Ulivo Prodi avrebbe fatto il padre nobile. Di questo avevano parlato il Professore e Arturo Parisi con Renzi il 16 giugno, l’ultimo faccia a faccia tra l’ex premier e il segretario del Pd. Renzi si era impegnato a tentare, poi è calato il gelo. La tenda di Prodi si è allontanata. E il Professore ha cominciato ad assistere con pari disincanto agli altri tentativi di cui pure qualcuno gli attribuisce la paternità: Pisapia e la sua lunga assenza dalla scena, Bersani e la sua voglia di rivalsa su Renzi, un’ipotetica lista europeista di Emma Bonino. L’approvazione del Rosatellum ha fatto il resto: «Non ci saranno coalizioni, ma al massimo apparentamenti », osserva deluso Parisi. «Ci riproveranno a chiedere l’appoggio di Romano. Ma non c’è più tempo. E non c’è fiducia. Renzi non si fida troppo di noi e noi non ci fidiamo di lui», dice un prodiano di rango. Per ora, dunque, Prodi resta fuori. Al pari degli altri nomi che contano del ristretto club dei fondatori del Pd: Walter Veltroni, Enrico Letta.
Una sfiducia partita almeno un anno fa. Il 14 novembre 2016, nella Sala della Maggioranza in via XX Settembre, nel cuore del ministero dell’Economia, per commemorare Carlo Azeglio Ciampi a due mesi dalla scomparsa si riunì un parterre di relatori composto da Prodi, Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Giuliano Amato, il ministro Pier Carlo Padoan, il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco, di fronte a Sergio Mattarella. C’era ancora il governo Renzi, ma nessun renziano di rango era presente in sala, nessun ministro tranne il padrone di casa Padoan e l’allora sottosegretario Claudio De Vincenti. Dal tavolo una commemorazione non formale. «Per decidere bisogna conoscere, per discutere bisogna accettare di essere messi in discussione », disse Prodi. «Chiesi a Ciampi di entrare nel governo con profondo imbarazzo, perché era già stato presidente del Consiglio, lui accettò di scendere uno scalino, cosa non facile». Draghi elogiò il metodo Ciampi di leadership, «un particolare modo di gestire il governo, di lealtà e di rispetto tra i ministri», esaltando i risultati raggiunti dal governo Prodi. E Amato «la competenza tecnica e l’acume politico ». Al referendum sulla Costituzione mancavano ancora due settimane, ma in quegli interventi c’era già il passo successivo, l’identikit e il profilo di un governante molto lontano da Renzi, più simile semmai a quello di Gentiloni, come se la vittoria del No fosse già stato acquisita. Lo strappo tra Renzi e un pezzo di establishment legato al centrosinistra e i padri fondatori del Pd si è consumato in quelle settimane. È prevedibile che nei prossimi giorni il pressing su Prodi si farà asfissiante, da parte di Renzi e dei bersaniani che lanciano Pietro Grasso. Ma la coalizione per ora non si vede ed è lontanissima dal nuovo Ulivo vagheggiato mesi fa. Non c’è un candidato premier e non c’è un’alleanza. E in tanti scommettono che la prossima legislatura sarà breve, brevissima, forse più corta di quelle 1992-94, 1994-96, 2006-2008. È più opportuno restare in attesa di un secondo giro, che potrebbe portare il nome di Mario Draghi. L’operaio del treno, insomma, dovrà ancora portare pazienza, e non solo lui. Sempre che, intanto, non venga giù tutto.

Repubblica 9.10.17
Da quando è diventato il candidato in pectore della sinistra in molti bussano alla porta del presidente del Senato
Lui ripete la sua idea di uguaglianza e cita il prete di Barbiana: “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali tra disuguali”
Tutti in fila da Grasso, ragazzo di sinistra “Giustizia sociale come dice Don Milani”
di Liana Milella

ROMA. Sulla scrivania di Piero Grasso l’ultimo libro di Gianni Cuperlo. E quello di Romano Prodi. Sul suo comodino Exit West, il romanzo shock di Mohsin Hamid, drammatica storia di migrazioni. Sintonie a sinistra quelle del presidente del Senato che, da quando ha annunciato le dimissioni dal gruppo parlamentare Pd, si è trasformato in una sorta di calamita. La rottura, per la nettezza con cui è avvenuta, ha provocato effetti a cascata, che forse neppure Grasso aveva previsto così immediati ed espliciti. Il «ragazzo di sinistra», come si è autodefinito, esercita un’indubbia forza attrattiva. Tant’è che il suo telefono ha iniziato a squillare di continuo con attestati di solidarietà e continue richieste di incontri. A palazzo Giustiniani, due giorni fa, è arrivato Giuliano Pisapia. E ieri ecco prima Cuperlo, con cui c’è stata grande sintonia sull’analisi della situazione, e poi assieme Roberto Speranza, Nicola Fratoianni, Pippo Civati, Ciccio Ferrara, Tommaso Montanari, Anna Falcone.
Nelle mani di Grasso, ufficialmente, ora c’è il programma comune dei gruppi che per la prima volta insieme lanciano la sfida della nuova sinistra di cui proprio Grasso potrebbe essere il leader. Ma il tuttora presidente del Senato ufficialmente non si sbilancia, ascolta le diverse visioni e vede le differenti sensibilità sulla situazione attuale e futura. Anche se, già adesso, risulta lampante la sintonia tra le proposte del documento – lotta alle disuguaglianze, nuove politiche del lavoro contro la disoccupazione, azzeramento del Jobs Act, grande piano per gli investimenti pubblici – e quello che proprio Grasso ha detto a Camogli il 7 settembre al festival della Comunicazione. Un manifesto politico che della politica dice: «Come l’acqua, la politica è un bene comune, riguarda tutti, innerva ogni momento della nostra vita, incide sull’ambiente e sullo sviluppo, ha bisogno di manutenzione, di essere difesa, pulita, potabile ». Mentre ironizzava sui “nasoni” di Roma, condannati ad agosto alla chiusura, Grasso già lanciava strali contro la politica a colpi di tweet. E il suo era già un manifesto anti-Renzi. Bocciando «la tentazione dell’uomo solo al comando, del super eroe che nel breve spazio di un tweet ha pronta la soluzione per problemi difficili e stratificati».
Se Mdp, Sinistra italiana e Possibile di Civati parlano di «ricostruire lo Stato e di avvicinare istituzioni e cittadini» ecco che Grasso a Camogli cita Don Milani e un suo passaggio assai noto, «non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali tra disuguali ». «Questa frase rappresenta il cuore della giustizia sociale » chiosa l’ex pm e ex procuratore nazionale Antimafia, ex giudice del maxi processo che scrisse le motivazioni della sentenza contro Cosa nostra, l’amico di Giovanni Falcone che tuttora porta sempre in tasca l’accendino Dunhill che gli regalò. E dice: «Bisogna riscoprire il sistema del welfare per mantenere unita la nostra comunità nazionale e rimuovere gli ostacoli sociali ed economici che limitano l’uguaglianza dei cittadini». Un Grasso che chiede di «finanziare le politiche sociali» e di «contrastare l’evasione fiscale che impoverendo i conti dello Stato influisce sulla qualità e sulla quantità dei servizi da destinare a ciascun cittadino». La sintonia con chi gli ha fatto visita in questi giorni sta in quelle sue parole, anche se Grasso non ha un profilo tipico della sinistra. E non ha neppure una storia di partiti alle spalle, né di laceranti scissioni, è libero dai rancori che si rinfacciano gli uni e gli altri. Un atout a suo vantaggio.
La storia di Grasso è quella di un uomo che ha servito le istituzioni per tutta la vita, il magistrato antimafia che poi si è spostato in politica alla ricerca di quella libertà di parola che per i 43 anni di magistratura aveva dovuto mettere da parte. Ci ha ironizzato su alla prima cerimonia del ventaglio: «Speravo, entrando in politica, di poter dire la mia su tutti i temi, ma dopo la campagna elettorale più breve della storia, adesso da presidente del Senato sono di nuovo in un ruolo superpartes».
Anche se Grasso non rinuncia affatto a togliersi i famosi sassolini dalle scarpe. Come quelli contro Renzi. Frecciate subliminali come questa: «Nella mia vita ho sempre cercato di apprendere. Ciascuno di noi ha qualcosa da insegnare e moltissimo da imparare. Diffidate di chi utilizza l’espressione “non accetto lezioni”, perché è un atteggiamento sbagliato, la radice di tanti errori che potrebbero essere evitati ». Giusto qualche giorno fa il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky lo ha definito «un buon leader» per la sinistra. Lui, Grasso, consiglia di «invertire la rotta che ha portato alla diffidenza verso gli intellettuali». Come non leggerci la bacchettata a chi, vedi Renzi, proprio dei “professoroni“ come Zagrebelsky non vedeva l’ora di liberarsi?

Repubblica 9.11.17
L’attendismo dei “padri nobili” e l’urgenza di una svolta salva-sistema
Senza fare la guerra al leader, chi ha fondato i dem dovrebbe trovare una terza via per rinvigorire quel progetto politico
di Stefano Folli

NELLA LUNGA campagna elettorale di cui il voto a Ostia costituisce una tappa intermedia, peraltro significativa, fa irruzione la violenza. Lo stile è antico, di tipo fascista: bastonate a un giornalista, naso rotto con un colpo da picchiatore, tentativo di distruggere la telecamera. Succede appunto sul litorale romano, dove CasaPound è l’ago della bilancia nella contesa fra M5S e Fratelli d’Italia. Un duello da cui il Pd è escluso, in uno scenario che potrebbe prefigurare quello che accadrà in molti collegi delle prossime elezioni politiche: alleanza di destra contro Cinque Stelle, con il centrosinistra ristretto in un ruolo subordinato, vittima e non beneficiario del “voto utile”.
Tra l’infelice esito siciliano e le note cupe di Ostia, il Pd sta vivendo uno psicodramma fatto di isolamento. Una condizione vissuta nell’ansia di non sapere cosa fare per invertire la tendenza al declino. Il presidente del partito, Orfini, dice che è bene costruire delle coalizioni, ma non a qualunque costo. Il che equivale quasi ad ammettere che il Pd oggi non ha alleati né è in grado di procurarseli. Si avverte uno stato d’animo fatto di nervosismo e di inquietudine, la sensazione di un disastro possibile, forse addirittura inevitabile. Quell’affermazione di Renzi («prenderemo il 40 per cento») sembra un tentativo non troppo riuscito di esorcizzare la paura dell’ignoto. Perché realmente il centrosinistra si trova davanti a prospettive inedite per una forza abituata a considerarsi l’asse del sistema. Oggi non è più così e la campagna elettorale potrebbe sancire giorno dopo giorno, in un percorso tormentato, questa nuova realtà.
A essere isolato è Matteo Renzi, s’intende, e in forme che rasentano lo psicodramma. Ma ormai il destino del segretario è un aspetto del problema più generale che riguarda l’intero Partito Democratico. La storia e persino le cronache recenti in Europa sono piene di esempi che raccontano il collasso inesorabile di forze che hanno perso in poco tempo il consenso e il ruolo pubblico. Viene subito alla mente il partito socialista francese di Hollande, ma anche l’omologo spagnolo. Senza dimenticare la sconfitta della socialdemocrazia tedesca e l’Austria in cui il prossimo governo nascerà dall’accordo fra un centrodestra e una destra propriamente detta.
E in Italia? Si direbbe che tutti siano alla finestra in attesa che si compia il destino di Renzi. Walter Veltroni dichiara di non essere interessato ad assumere responsabilità politiche; Enrico Letta insegna a Parigi; e Romano Prodi, da tanti invocato, è seduto sulla riva del fiume, come spiega Marco Damilano qui sopra. Ognuno aspetta, convinto in cuor suo che la prossima legislatura sarà breve e ingovernabile. Poi si vedrà.
L’attendismo è una tattica normale in politica, spesso foriera di successo. Tuttavia viviamo tempi particolari, per cui c’è da sperare che stavolta non si tratti di un calcolo sbagliato. Nella vecchia Prima Repubblica si poteva attendere che un rivale si cuocesse a fuoco lento: i conflitti politici si svolgevano dentro una cornice salda e i tempi lunghi erano la norma. Oggi il sistema scricchiola e la crisi potrebbe sfuggire di mano. Non è detto che la pera cada dall’albero giusto nelle mani di chi è seduto ad aspettare. Forse i Prodi, i Veltroni, i Letta farebbero meglio a farsi coinvolgere fin d’ora e a interrogarsi sulle sorti di un partito che in varie forme hanno contribuito a fondare e a costruire.
Non si tratta, è ovvio, di muovere guerra al leader. Ma fra il conflitto e il restare ai margini in modo ostentato esiste una terza via. C’è un progetto politico che ha bisogno di essere rinvigorito con l’apporto di tutte le energie disponibili. Certo, Renzi ha fatto di tutto per isolarsi e trasformare il Pd in un partito personale, secondo la celebre immagine di Ilvo Diamanti. E ancor oggi il segretario esita a rinunciare all’illusione di Palazzo Chigi, accettando a denti stretti e in forma ancora ambigua che l’uomo giusto sia Gentiloni. Tuttavia la situazione è talmente grave che nessuno può essere sicuro di salvarsi, e di ricominciare a tessere il filo della politica, se Renzi affonda trascinando con sé il partito.

Repubblica 9.11.17
Roma
Simbolo del femminismo la sede ha 800mila euro di arretrati L’appello: “Salvate 30 anni di storia”
“Pagate i debiti o fuori” ora la sindaca sfratta la Casa delle Donne
di Alessandra Longo

ROMA. «Vi concediamo un mese di tempo per gli arretrati». Con il linguaggio caldo che può avere un ufficio del Patrimonio, il Comune di Roma di fatto decreta lo sfratto della Casa Internazionale delle Donne, da 30 anni un centro di elaborazione politica e culturale del femminismo, cuore pulsante dell’associazionismo femminile a Trastevere. Un progetto unico al mondo, ospitato nel palazzo monumentale del Buon Pastore, restaurato dalle giunte Rutelli-Veltroni, arioso con i suoi laboratori d’arte, solidale con i suoi centri di assistenza legale, psicologica, antiviolenza, gioioso con il suo giardino d’estate attorno alla corte seicentesca, contenitore di spettacoli ed eventi. Tutto per le donne e con le donne. Impresa certo ambiziosa, e perciò piegata da debiti difficili da ripianare. Sono 833 mila euro, dice il Campidoglio attraverso l’assessora Rosalba Castiglione: «Ma è un sollecito, sono pronta a un incontro».
Già Ignazio Marino aveva cercato un percorso di regolarizzazione con la Casa delle Donne e altre realtà convenzionate e in sofferenza. Poi la giunta era caduta e le trattative sono riprese con i 5Stelle. Sembrava ci fossero degli impegni già presi in sede istituzionale per non far morire una storia così lunga e intensa. E invece, poche ore fa, la doccia fredda.
Raccomandata con avviso di pagamento. O paghi (cosa impossibile nei tempi dati) o, in sostanza, te ne vai. C’è chi ha notato, e non per ossessione di genere, che lo «sfratto» alle donne arriva dalla prima sindaca donna della capitale. Le consigliere del Campidoglio parlano di «umiliazione della città» e chiedono a Virginia Raggi di manifestarsi: «Intende o no far qualcosa per salvaguardare un’esperienza che appartiene alla memoria collettiva delle donne e offre ancora oggi servizi importanti? ». L’incontro con la sindaca è stato chiesto ma, nel frattempo, è arrivata quella raccomandata. Lo stesso stile usato per l’inquilino abusivo, il negozio o l’azienda morosa. «Ma questo è un luogo che profuma di libertà - dice Monica Cirinnà, che l’ha visto nascere - il luogo delle donne, della cultura, dell’elaborazione. Il Comune non può trattare la Casa delle Donne come fa con gli occupanti abusivi. A Trastevere si fa politica bella, che aiuta le persone. Il debito è sempre stato un problema. Quando ero presidente della Commissione delle Elette, all’epoca di Veltroni, già c’era il problema del rosso. Non a caso avevamo concesso alla Casa delle Donne il canone agevolato per gli spazi sociali... Questa raccomandata rivela invece un approccio devastante, per di più a firma di una donna che forse non sa che al Buon Pastore sono passate generazioni di donne che hanno inseguito e promosso un sogno collettivo di libertà, di autonomia ».
Come dire: i debiti vanno pagati, magari a rate e con una trattativa seria. Ma non si può trattare un luogo di aggregazione ed elaborazione culturale come un covo di antagonisti. Possibile che non ci siano alternative alla messa in mora? Possibile, dicono dal Buon Pastore, che non possa essere riconosciuto il valore sociale dei servizi che offriamo? Già in altre occasioni la giunta Raggi non sembra aver messo in campo distinzioni di alcun tipo. Ha mandato sfratti alla scuola di musica popolare di Testaccio, si è intestardita sull’asilo multiculturale Celio Azzurro, ha fatto sloggiare da sedi storiche il Pd e la destra.
La direzione della Casa delle Donne, incassata la botta, si è chiusa a riccio. Oggi uscirà un comunicato, il 13 novembre ci sarà un’assemblea delle 40 associazioni ospiti della Casa nella quale saranno discusse le iniziative a difesa del mondo che ruota intorno al Palazzo di Trastevere. Il 14 novembre Laura Puppato (Pd) è ospite annunciata di un evento sul disegno di legge che alza le pene a chi sfigura le donne. Commenta la raccomandata: «Sono dei barbari, non si può agire così».

Repubblica 9.7.17
I conti di Boschi senior con un imprenditore indagato per riciclaggio
I pm di Napoli scavano negli affari della camorra in Toscana Il gip boccia le accuse all’ex socio del padre della sottosegretaria
di Dario Del Porto

NAPOLI. Il nome di un ex socio di Pierluigi Boschi finisce in un’inchiesta della Procura di Napoli sugli investimenti immobiliari della camorra in Val d’Arno. Il papà della sottosegretaria alla presidenza del Consiglio non è in alcun modo coinvolto nelle indagini. È accusato di riciclaggio, invece, un imprenditore di Montevarchi, Mario Nocentini, per il quale il gip ha bocciato la richiesta di sequestro dei beni avanzata dal pubblico ministero escludendo che sia coinvolto nell’iniezione di capitali sporchi nelle casse di due società considerate controllate dal potente clan Mallardo.
Nella richiesta di sequestro dei pm, vengono indicati anche numerosi conti correnti di Nocentini, accesi presso diversi istituti di credito, Montepaschi e Banca Etruria comprese. Due di questi conti risultano aperti presso la Banca del Valdarno e intestati, oltre che all’imprenditore di Montevarchi, anche a Boschi senior. Il primo conto è intestato a Nocentini, al papà della esponente del Pd e ad altri quattro imprenditori florovivaistici toscani. Secondo quanto ricostruito da Repubblica, si riferisce a una società denominata “L’Orcio” che, agli inizi degli anni 2000, quando Pierluigi Boschi era ai vertici della Coldiretti locale, si proponeva di realizzare un campeggio. Iniziativa poi mai decollata per mancanza di fondi. Il conto fu aperto per poter accedere a un finanziamento che ora gli ex soci stanno restituendo. Il secondo conto figura come intestato solo a Boschi e Nocentini. Repubblica ha provato a contattare Pierluigi Boschi, sia al telefono, sia via sms e whatsApp, senza ricevere risposta.
L’indagine, coordinata dalla Procura di Napoli e condotta dalle squadre mobili di Napoli e Firenze con lo Sco della polizia, non riguarda in ogni caso i rapporti fra Boschi senior e Nocentini ma solo il ruolo rivestito da quest’ultimo nel periodo in cui, fra il 2005 e il 2007, ha finanziato la società Edil Europa 2, finita insieme alla Valdarno costruzioni srl nel mirino dell’anticamorra napoletana. Le società con sede a Figline Valdarno, scrive il giudice, «sono state create e stabilmente utilizzate per circa un decennio ai fini di riciclaggio e reimpiego in attività economiche lecite dei capitali provenienti dalle casse del clan Mallardo». Investimenti effettuati attraverso operazioni finanziarie tuttora sotto la lente della Procura diretta da Giovanni Melillo, che indaga sulle ramificazioni della camorra nei grandi affari. Sostiene il pentito Giuliano Pirozzi che Antimo Liccardo, considerato il referente dell’organizzazione nella Valdarno, gli avrebbe confidato «di avere ottime entrature anche presso le banche in Toscana ». Istituti di credito che, a dire del collaboratore di giustizia, lo avrebbero «agevolato nell’ottenimento dell’apertura dei mutui e nell’erogazione di finanziamenti per realizzare le speculazioni edilizie sul posto». Rilevano i magistrati che le due società, dalla data di costituzione alla crisi del mercato immobi-liare, tra il 2002 e il 2011, hanno acquisito tra le province di Arezzo e Firenze immobili e terreni per un valore dichiarato di oltre 2 milioni e 200 mila euro, venduto lotti di terreno e abitazioni per circa 8 milioni e mezzo e ottenuto mutui agevolati da parte delle banche per complessivi 9 milioni e mezzo.
Ma con riferimento a Nocentini, spiega il giudice, «non è stato acquisito alcun elemento che possa consentire di ritenere che Nocentini fosse consapevole» dei rapporti fra l’amministratore della società e i presunti camorristi. Inoltre, spiega il giudice, «i finanziamenti personalmente operati da Nocentini sono perfettamente tracciabili» e l’imprenditore toscano «non ha materialmente concorso alle immissioni di capitali di provenienza delittuosa» effettuate nella Edil Europa 2. Da qui la decisione di respingere la richiesta di sequestro.

il manifesto 9.11.17
L’ex premier israeliano Barak aiutò Weinstein
di Michele Giorgio

Era in evidenza su tutti i giornali israeliani ieri la notizia del coinvolgimento di ex agenti del servizio segreto Mossad nell’inchiesta sulle violenze sessuali su numerose attrici compiute dal produttore cinematografico americano Harvey Weinstein. È emerso, grazie alla tv Canale 2, che fu l’ex primo ministro laburista Ehud Barak a consigliare a Weinstein il nome della “società di sicurezza” israeliana incaricata di trovare il modo per diffamare e intimidire Rose McGowan e altre attrici pronte ad accusare il produttore di stupro.
È stato il The New Yorker a rivelare che Weinstein si era rivolto alla israeliana “Black Cube” e ieri Barak ha ammesso di averlo aiutato senza però sapere i suoi obiettivi. «Più di un anno fa, Weinstein mi chiese se conoscevo una società di sicurezza israeliana che avrebbe potuto aiutarlo per una questione collegata al suo lavoro, non ero consapevole dei suoi scopi», ha spiegato l’ex premier attraverso un portavoce. Un chiarimento che molti hanno trovato poco convincente. Il The New Yorker ha rivelato che gli agenti ex Mossad si sono serviti di false identità per ottenere informazioni riservate sulla vita di Rose McGowan, allo scopo di persuaderla a non denunciare Weinstein.

il manifesto 9.11.17
Grasso riceve i ’big’ di sinistre e civici. E ora prova a ripescare Pisapia
Elezioni&alleanze. Il no del Prc: «Non vi sono condizioni per convergere». Critica anche L’Altra Europa. Il comunista Acerbo: «Non consegnamoci a D’Alema» . Malumori e dissensi nell’area del Brancaccio
di Daniela Preziosi

Dalle dieci di mattina sono quasi delle consultazioni ufficiose quelle che vanno in scena a palazzo Giustiniani, nello studio del presidente del senato. Per primo arriva Gianni Cuperlo, tormentato esponente di minoranza del Pd dato in uscita dal partito.
Alle due del pomeriggio salgono i tre capofila della futura lista unitaria: Roberto Speranza (Mdp), Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) e Pippo Civati (Possibile). Dopo poco si aggiungono Anna Falcone e Tomaso Montanari, esponenti civici dell’area ‘del Brancaccio’. «Abbiamo portato un documento condiviso da tutti che segna l’avvio di un percorso comune cui ci piacerebbe prendesse parte», gli spiegano. Dall’entourage di Grasso si sottolinea che il presidente del senato resta nel suo abito istituzionale almeno fino alla fine della sessione di bilancio, e cioè fino a fine novembre. Anche se l’abito che gli viene confezionato dai promessi alleati è quello da leader.
LUNEDÌ IL PRESIDENTE ha visto anche Giuliano Pisapia, martedì il suo ambasciatore alla Camera Ciccio Ferrara. Con nessuno Grasso fa mistero di due punti fondamentali per il suo eventuale impegno politico: l’idea di un’alleanza «larga e inclusiva» e il no alla coalizione con il Pd. Ormai lo sanno anche i ’trattativisti’ dem, che infatti hanno tentato un approccio solo per mettere a verbale di averci provato.
ORA STA A PISAPIA battere un colpo per rientrare in famiglia con Mdp e Sinistra italiana dopo la rottura degli scorsi mesi. Pisapia potrebbe accettare se fosse esplicita la collocazione di «centrosinistra». Quella che però lo aveva reso indigesto in primis ai civici. La via è stretta, funestata da rancori e conflitti recenti e antichi. Ma ancora non del tutto sbarrata: «Siamo interessati a costruire un nuovo centrosinistra. Al momento non ci sono le condizioni per farlo con il Pd, ma non cederemo a una ridotta», spiega un dirigente di Campo progressista, «La nostra linea rimane la stessa: un campo largo, plurale, in cui abbiano spazio la cultura ecologista, i radicali, il civismo, la sinistra e il cattolicesimo democratico. Se il Pd domani sarà quello di oggi, lo faremo senza il Pd». Ma la parola finale spetta all’ex sindaco, che ieri notte è arrivato a Roma e stamattina riunisce i suoi. E domenica mattina terrà la sua assemblea, presente anche Laura Boldrini, la presidente della camera. «Una leadership collettiva di Grasso, Boldrini e Pisapia sarebbe un messaggio chiaro di una coalizione aperta e non una ridotta della sinistra», spiegano ancora da Cp.
CHE CI SIA O NO PISAPIA, all’uscita di Palazzo Giustiniani fra i cinque promessi alleati circola ottimismo. «Avevo detto che l’ultimo uscito dal Pd sarebbe stato il primo», scherza Civati. Speranza riferisce ai suoi di Mdp. Come per Sinistra italiana, il documento della lista comune, concordato virgola per virgola fra le quattro componenti, sarà approvato dalle rispettive assemblee di partito già convocate in parallelo a Roma per il 18 novrembre. Non si prevedono colpi di scena.
NON COSÌ PER I CIVICI e per la loro l’assemblea convocata il 18. Ieri sull’Huffington post campeggiava la soddisfazione di Montanari per i primi passi verso la lista unitaria. Ma non tutte le assemblee dei territori condividono lo stesso sentimento. L’Altra Europa per Tsipras, l’associazione nata alle scorse europee e oggi confluita nell’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza (il vero nome dei civici) chiede chiarimenti (la lettera aperta è a pag. 15 del manifesto di oggi).
È INVECE UN NO QUELLO DEL PRC, il il partito della Rifondazione comunista, che confida nel confronto del 18 per un cambio di rotta radicale: nel documento, dice un comunicato, «non vi sono condizioni per una nostra convergenza». È durissima l’analisi del segretario Maurizio Acerbo: «Non c’era bisogno di scomodare migliaia di persone in decine e decine di assemblee per fare una lista tra Mdp, Possibile e Si», «Se volevamo contrattare qualche seggio in una lista con la vecchia leadership del centrosinistra telefonavamo a D’Alema e Bersani», e infine, «Ci interessa un processo che motivi all’impegno e al voto i tanti elettori di sinistra rivolti al M5S o verso l’astensionismo. Consegnare il Brancaccio a Bersani e D’Alema non ne riconquisterà nemmeno uno ma di certo farà allontanare proprio quel poco di sinistra sociale che in questi anni ha contrastato il neoliberismo e difeso diritti e beni comuni».

Il manifesto 9.11.17
Internazionale  
Riscossa dem nel voto locale, De Blasio a valanga
Stati uniti. Il sindaco di New York riconfermato, guida la rivincita elettorale: ora politiche ancora più di sinistra. Repubblicani battuti praticamente ovunque. Governatori, sindaci, referendum, procuratori... Nel bottino anche due seggi statali nella super conservatrice Georgia. Vincenti ben oltre le previsioni, i democratici rovinano il primo "compleanno" dell’amministarzione Trump
di Marina Catucci

NEW YORK A un anno esatto dall’elezione di Trump, che si è portato a casa la presidenza grazie a un sistema elettorale che lo ha eletto nonostante i 3 milioni di voti in meno rispetto alla sfidante Hillary Clinton, gli Stati uniti sono tornati a votare per le amministrazioni locali, cambiando drasticamente rotta. È il primo test elettorale dal quale Trump e i repubblicani escono malamente sconfitti, mentre i democratici hanno vinto oltre le più rosee previsioni.
SI VOTAVA PER GOVERNATORI, sindaci, qualche referendum, qualche procuratore e non ci si aspettava che i democratici vincessero praticamente ovunque, inclusi due seggi statali in Georgia, stato tradizionalmente super conservatore.
La rielezione del sindaco socialista di New York, Bill De Blasio, come quella di Martin J. Walsh a sindaco democratico di Boston, erano scontate, anche se è la prima volta dopo oltre 30 anni che un sindaco democratico nella grande mela viene eletto due volte di seguito; De Blasio ha vinto con il 79% nel Bronx e assestandosi ovunque sul 72%. Ha vinto tassando i ricchi, costruendo asili gratuiti, case a prezzo calmierato, istituendo assistenza legale gratuita per gli immigrati: sono state proprio le minoranze, il punto di forza di De Blasio e della sua campagna, sostenuta da due dei principali sindacati americani.
DAL PALCO DELLA VITTORIA elettorale il neo rieletto sindaco ha promesso una svolta ancora più a sinistra e opposta a Trump, con tasse più alte per i super ricchi in modo da costruire una città più equa.
Più in bilico l’elezione del nuovo governatore della Virginia, il cui risultato era il più importante di questa tornata, in quanto la gara tra il democratico Ralph Northam e il repubblicano Ed Gillespie era talmente sul filo da far estremizzare le posizioni di entrambi, in special modo quelle di Gillespie che ha però perso (45,1% contro il 53,7% di Northam).
Vittoria anche in New Jersey con il 56% dell’ex banchiere di Wall Street, Philip D. Murphy, che ha convinto gli elettori con un programma inaspettato per un candidato dell’establishment: difesa degli immigrati, salario minimo a 15 dollari l’ora, legalizzazione della marijuana, difesa dell’ambiente, controllo delle armi.
MA LA VERA SPINTA ARRIVA dalle miriadi di piccole amministrazioni locali dove c’è stata una pioggia di voti di vera sinistra. In Virginia i democratici al Congresso locale hanno battuto tutti i candidati repubblicani non solo con uomini di partito ma con molti giovani attivisti sandersiani o addirittura dichiaratamente socialisti; nuovi membri del Congresso sono donne afroamericane; per la prima volta è stata eletta una donna ispanica, e la 33enne Danica Roem sarà la prima deputata statale transgender della Virginia, avendo sconfitto il 73enne Bob Marshall, famoso proprio per la sua lotta volta ad impedire ai i transgender di usare i bagni del genere in cui si riconoscono.
LA CITTÀ DI HOBOKEN in New Jersey ha eletto per la prima volta un sindaco indiano Sikh, Ravi Bhalla; il bianchissimio Montana ha per la prima volta un sindaco afroamericano, Wilmot Collins, a Helena; a Charlotte, North Carolina, dove tre mesi fa il Kkk faceva fiaccolate, è stata eletto sindaco la prima donna afroamericana, Vi Lyles. A Somerville in Massachusetts tutti i 7 candidati di Sanders al consiglio comunale hanno vinto battendo i repubblicani. E come nuovo procuratore distrettuale di Philadelphia hanno eletto Larry Krasner, noto per il suo supporto a Black Lives Matter.
TRAMITE REFERENDUM il Maine ha approvato l’estensione del programma governativo di copertura sanitaria destinato alle persone più povere, il Medicaid, riaffermando uno dei punti più importanti della riforma sanitaria di Obama, che a causa di una sentenza della Corte Suprema è opzionale per i singoli stati. Il governatore repubblicano del Maine, Paul LePage, si è sempre opposto, ma in questo referendum i favorevoli all’estensione hanno vinto, e quindi altre 89m ila persone in quello Stato usuifriranno del programma sanitario governativo e gratuito.
LA VICENDA più tristemente bella in questa profusione di piccole storie americane di svolta a sinistra arriva dalla Virginia, dove il democratico Chris Hurst, un ex giornalista televisivo, ha corso con i democratici e ha vinto; si era molto parlato di lui nel 2015 quando la sua fidanzata e collega, insieme al loro amico cameraman, erano stati uccisi a colpi di pistola mentre stavano lavorando, poche settimane prima del matrimonio dei due giornalisti.
Da quel giorno Hurst si è battuto per una politica di controllo delle armi, ed è stato eletto dopo una lunga campagna elettorale incentrata sul gun control. Ora Hurst potrá portare questa lotta dentro la Camera dei deputati della Virginia.

La Stampa 9.11.17
De Blasio riconquista New York
grazie al voto degli afroamericani
Il sindaco in carica doppia la rivale nonostante il crollo di popolarità
di Simona Siri

La prima pagina del «New York Post» il giorno dopo l’elezione che regala a Bill de Blasio il suo secondo mandato come sindaco di New York si apre così: «Ops, l’abbiamo fatto di nuovo». E poi, sotto: «Siamo incastrati con Bill». Certo, il «New York Post» non è tra i suoi sostenitori, ma la sensazione è comune: anche questa volta De Blasio vince quasi suo malgrado, più per mancanza di avversari che per altro. Nel 2013 il grande favorito era Anthony Weiner, crollato sotto il peso di uno scandalo sessuale a pochi giorni dal voto, lasciando così via libera al suo avversario il cui più grande merito, fino ad allora, era di essere l’esatto opposto del sindaco uscente Michael Bloomberg: non ricco, di Brooklyn, sposato con una afroamericana, molto amato dalle minoranze e dai sindacati. Che De Blasio avrebbe vinto anche questa volta era chiaro fin da maggio, quando i sondaggi davano la sua popolarità in discesa al 42%, ma senza che all’orizzonte si vedesse un avversario degno di questo nome. A ottobre, a un mese dalle elezioni, il suo indice di approvazione era cresciuto: secondo un sondaggio della Quinnipiac University il 61% degli elettori si era espresso per lui, sebbene solo per il 57% meritava la rielezione. Vincitore quindi, ma non popolare. Almeno non quanto dovrebbe esserlo un sindaco che vince con queste cifre: 73% nel 2013, 66% nel 2017. Lo zoccolo duro della sua vittoria sta oggi dove stava ieri: nella comunità afroamericana che lo sostiene e lo ama, nei sindacati che lui difende a spada tratta, nel crimine che è sceso, nell’economia che va bene, nell’aver mantenuto importanti promesse elettorali. Prima fra tutte quella che va sotto il nome di Universal Pre-K 4 ovvero rendere gratuito l’accesso all’asilo ai bambini di 4 anni, una iniziativa che oggi vuole ripete con i bambini di 3 anni. Nel 2013 questa proposta fu al centro della sua campagna e il fatto che abbia funzionato così bene - le iscrizioni sono passate dal 19 mila a 53 mila nel settembre del 2014 e a 68 mila l’anno dopo - lo ha reso un politico credibile.
Le critiche però non mancano. A parte l’inchiesta federale sulla raccolta fondi che lo ha visto assolto, a una certa parte di elettorato continua a non piacere il così detto «stile De Blasio». O la mancanza di esso. Ovvero, il fatto che arrivi sempre tardi alle riunioni, che abbia iniziato una rivalità non necessaria con il governatore Andrew Cuomo, che, anche se non lo dice apertamente, abbia evidenti mire a livello nazionale. L’interrogativo che in molti si fanno oggi è se De Blasio possa addirittura arrivare a candidarsi presidente. Alcune sue scelte sembrerebbero indicare di sì: in questo ultimo anno il suo vero avversario, più che la candidata repubblicana Nicole Malliotakis che si è fermata al 28%, è stato Donald Trump. Ad ogni iniziativa impopolare della Casa Bianca che fosse il Muslim ban o la sospensione del programma per gli immigrati arrivati negli Usa da bambini, De Blasio è stato tra i primi a opporsi, facendo diventare New York il simbolo della lotta al trumpismo. E il 2020 non è così lontano.

Repubblica 9.11.17
Case, asili, verde: così de Blasio ha fatto il bis

Lo hanno votato due terzi dei newyorchesi (poco meno della “valanga” che lo aveva scelto nel 2103) e diventa il primo democratico dopo tre decenni - l’ultimo era stato Ed Koch negli anni Ottanta - a conquistare un secondo mandato come sindaco della Grande Mela. «È una buona serata per i progressisti». Bill de Blasio ringrazia i suoi sostenitori festeggiando a Brooklyn (dove ha casa), il borough di New York City che (insieme al Bronx) veglia su un sindaco mai troppo amato e in qualche area di Manhattan (quelle della finanza e l’East Side dei milionari) piuttosto detestato.
Alle urne sono andati in un milione, circa un quarto degli aventi diritto, ma anche quattro anni fa l’affluenza fu bassa e del resto per le elezioni del sindaco i newyorkers ultimamente non si scaldano più di tanto. Sono lontanissimi i tempi in cui votava tutta la metropoli (nel 1953 affluenza al 93 per cento), sono lontani anche quelli dello ‘sceriffo’ Rudolph Giuliani (1993, 57 per cento) e anche per Michael Bloomberg, il più amato
mayor dai tempi di Fiorello La Guardia, si scomodava solo un terzo della città.
Bill de Blasio stenta ad avere un’immagine di sindaco “popolare” ma i numeri (oltre il 66 per cento dei suffragi) dicono che New York è con lui. In questi quattro anni di governo ha avuto successi e rovesci, ha goduto di buona e (soprattutto) cattiva stampa, ma diverse promesse le ha mantenute: ha aggiunto 100mila unità abitative al suo piano edilizio, ha dato l’accesso al pre-asilo ai bambini di tre anni, sta forzando i proprietari di casa (e dei grandi edifici) a ricostruire e a modernizzare per rendere i building più ecologici, ha proposto di aumentare le tasse dei ricchi (e a New York c’è una grande concentrazione) per pagare le riparazioni di una metropolitana efficiente ma disastrata. In altri campi non ha avuto successo: i senzatetto sono in aumento, gli aiuti finanziari agli studenti poveri non sono migliorati di molto, le carceri di New York continuano ad essere degli inferni.
La sua ambizione è la Casa Bianca, la sua agenda liberal sulla carta potrebbe essere vincente nell’America di e contro Trump. I suoi scontri con il governatore Andrew Cuomo (anche lui vorrebbe candidarsi alla presidenza nel 2020) e con i “moderati” del partito non sembrano aiutarlo. Lui resta sicuro di sé: «Oggi è l’inizio di una nuova era per la leadership democratica progressista».
( a. f. d’a.)

il manifesto 9.11.17
Trump presidente, un anno di guerra interna
Protesta contro il Muslim Ban
di Guido Moltedo

Il T-Day di un anno fa è una di quelle giornate della storia recente americana paragonabile – per il trauma provocato e per le conseguenze – solo all’11 settembre 2001. Con la differenza che all’attacco alle Torri gemelle, l’America trovò il modo di reagire unendosi.
Pur essendo già allora molto polarizzata, già allora c’era un presidente che molti consideravano illegittimamente eletto e portatore di un’ideologia di guerra. Il Trump-Day, l’8 novembre 2016, di quella divisione è il frutto maturo, una presidenza destinata a scavare ulteriormente il fossato che divide le due Americhe, anzi ad avere la sua stessa ragione esistenziale nell’allargarlo e approfondirlo, il fossato.
È un bel segnale che le elezioni di martedì in tre stati scandiscano l’anno trascorso dall’elezione di Trump con un considerevole successo dei democratici, ottenuto peraltro nella contrapposizione proprio ai principali temi politici sui quali Trump lo scorso anno aveva costruito la sua campagna alla conquista del voto bianco di estrema destra. Ed è significativo che l’ex-presidente Barack Obama abbia avuto una parte importante in questa campagna elettorale.
La riscossa democratica segna dunque l’inizio di una fase destinata a culminare nella riconquista della maggioranza parlamentare nel 2018? È la domanda che tutti si fanno, e se la fanno soprattutto i repubblicani. Le variabili sono numerose, per potere fare previsioni adesso, certo il vento va in quella direzione. Ma questo significa che intanto la frattura del paese, esaltata dall’avvento di Trump, è destinata ad aggravarsi nell’anno che ci divide dal voto di medio termine. Trump non prende lezioni dalle sconfitte, e numerose ne ha collezionate in questi mesi. Al contrario, la sua reazione è il rilancio. Anche stavolta. Al povero Ed Gillespie, lo sconfitto in Virginia, un repubblicano moderato che aveva fatto sua la dottrina Trump nella speranza di vincere, il lunatico presidente ha dedicato un tweet in cui lo liquida accusandolo di non aver abbracciato né la sua agenda né lui, The Donald.
Si ripete da tempo che i sondaggi di Trump sono i più bassi per un presidente eletto solo da un anno. Vero. Ma è importante per Trump? Quel 40% oltre il quale non riesce ad andare è la sua base, l’unica America che conti per lui, e che non l’abbandonerà.
Se si pensa anche ai primi mesi di questa presidenza, non è stata una luna di miele. Era stato così per tutti i suoi predecessori all’avvio del nuovo mandato. Non per Trump. Non c’è stata la luna di miele, perché ha scelto deliberatamente la strada della contrapposizione con chi non l’aveva votato. In un anno non si contano le decine di tweet ostili verso Hillary Clinton. Evidente lo scopo, non porre mai fine alla campagna elettorale, anzi continuarla dallo studio ovale, facendo della sua rivale il simbolo del Partito democratico, l’effigie che diventa un bersaglio facile da colpire al cospetto della sua platea.
Così finché non ci sarà una figura «presidenziale» tra i democratici, quello schema continuerà a tenere banco nei calcoli di Trump. Ma c’è da scommettere che nel mirino, con sempre maggiore intensità, finiranno i capi del Partito repubblicano. Steve Bannon è molto chiaro da tempo su questo punto. L’ideologo di Trump, che con il presidente mantiene un dialogo costante, nonostante l’estromissione dalla Casa Bianca, considera l’establishment repubblicano il problema principale, colpevole di non aver portato avanti con la necessaria determinazione e convinzione la sua agenda conservatrice e, soprattutto, di avere consentito che l’indagine sul Russiagate prendesse il via e si sviluppasse, senza mai provare poi a fermare il procuratore Mueller.
Il voto di martedì è allarme rosso per i repubblicani, ma oseranno distanziarsi dal presidente in vista del 2018? Qualcuno l’ha già fatto, altri seguiranno. Molti però non lo faranno.
Perché le milizie di Bannon sono già sul piede di guerra per mettere fuori gioco i repubblicani che cercano la rielezione e sono considerati a rischio di autonomia dal presidente.
Conflitti su tutti i fronti, dunque. E, alla luce di un anno di presidenza, si può dire che Trump è un leader riluttante a fare guerre perché impegnato in una permanente guerra domestica. Può essere una coincidenza. Può esserci invece un’interazione tra le due cose, su cui però nessuno ha finora indagato. Fatto sta che, finora, con questo presidente, le contraddizioni interne americane, sebbene esplosive, non si sono risolte in guerre esterne. Finora.

Corriere 9.11.17
«L’America ha un leader senza una vera dottrina Neanche i generali possono controllarlo»
Il direttore dell’Atlantic, Goldberg: sull’attacco decide lui
di Giuseppe Sarcina

WASHINGTON Jeffrey Goldberg, 52 anni, è uno degli analisti di politica estera più sofisticati di Washington. «Ho sempre cercato di comprendere “la dottrina” dei presidenti americani. Ma con Donald Trump sono in grande difficoltà». Dall’ottobre del 2016 Goldberg dirige The Atlantic, la rivista di politica e cultura che ora fa capo a Laurene Powell Jobs, la vedova di Steve Jobs.
Come si sta muovendo Trump nel viaggio in Asia?
«Vedo una grande confusione. Faccio fatica a capire quale sia la strategia del governo. Ci sono i tweet del presidente, poi c’è la linea del segretario di Stato, Rex Tillerson. Ho impiegato molto tempo per cercare di capire quale fosse la “dottrina”, la visione del mondo, dei diversi presidenti. Ma stavolta non riesco a comprenderla: forse mi sfugge qualcosa o forse semplicemente non esiste».
Nei discorsi e nelle posizioni di Trump emerge una costante: le pressioni sulla Cina per «aiutare gli Usa» ad arginare la minaccia nucleare della Corea del Nord…
«Sì, ma che cosa significa “lavorare” o “non lavorare” con la Cina? Non è chiaro. E per altro non credo che la Cina decida di fare o non fare qualcosa solo perché glielo chiede Trump. Certo, bisogna anche essere corretti con l’attuale presidente. Anche prima che lui arrivasse alla Casa Bianca in quell’area non è che le cose andassero bene per gli Stati Uniti».
Lo scontro con la Corea del Nord è inevitabile?
«In fondo proprio l’imprevedibilità di Trump può spingere gli interlocutori alla moderazione. Se il regime della Corea del Nord si dovesse convincere di avere a che fare davvero con un “pazzo”, potrebbe fermare l’escalation. Ma purtroppo non sono certo nemmeno di questo».
Molti, negli Stati Uniti come nel mondo, fanno affidamento sui generali. I due alla Casa Bianca, John Kelly e Herbert Raymond McMaster, e il capo del Pentagono, James Mattis. Secondo il senatore Bob Corker «stanno evitando il caos»…
«Sì, vedo che è diffusa la convinzione che i generali possano controllare o almeno contenere il comportamento del presidente. Può essere vero, ma fino a un certo punto. Non possiamo dimenticare un particolare fondamentale: alla fine anche questi militari lavorano per Trump, sono alle sue dipendenze. Gli Stati Uniti sono una democrazia, ma nello stesso tempo anche una monarchia assoluta, specie in politica estera. La decisione ultima di lanciare un attacco, anche con le armi nucleari, non spetta ai generali, ma al presidente e solo a lui».
Non vede la possibilità di un’evoluzione di metodo e di contenuti?
«Fino a adesso non c’è stata alcuna evoluzione. In Giappone, in Corea del Sud il presidente ha letto dei discorsi preparati meticolosamente. Ha anche funzionato. Ma non significa molto. Mi resta sempre la sensazione che Trump non conosca bene ciò di cui sta parlando. E non vedo un presidente impegnato in processo di apprendimento».
Cominciano a concretizzarsi segnali di disagio tra gli elettori repubblicani. I candidati conservatori hanno perso le elezioni per la carica di governatore sia in Virginia che in New Jersey…
«Certo, questa sconfitta dovrebbe indurre qualche riflessione, anche se la Virginia è uno Stato da sempre in bilico. Ma con Trump sono saltati tutti gli schemi. In Virginia ha subito scaricato la responsabilità su Ed Gillespie, il candidato sconfitto. Penso che Trump continuerà come prima. Lo dico con umile cautela. Io ero uno di quelli che sostenevano che non sarebbe mai arrivato alla Casa Bianca. Solo tre anni fa, chiunque l’avesse detto sarebbe stato preso per matto. Ora mi guardo bene dallo scrivere il suo necrologio politico solo perché i repubblicani hanno perso in Virginia o nel New Jersey».

il manifesto 9.11.17
Tappeto rosso per The Donald alla corte di Xi

Accoglienza in pompa magna nella Città Proibita e tè «informale» nella Sala dei Tesori, con video condiviso di Arabella (figlia di Ivanka e Jared Kushner) che recita antichi poemi cinesi in mandarino. Se ne va così il primo giorno a Pechino di Donald e Melania Trump, ricevuti dal presidente cinese Xi Jinping e dalla first lady Peng Liyuan (foto Xinhua). Vistoso il tappeto rosso, negato a Obama. Da oggi si dovrebbe fare sul serio: sul tappeto ci finiscono i temi clou del vertice: Nord Corea e rapporti economici tra i due giganti.

La Stampa 9.11.17
Così Xi vuole isolare Trump in Oriente
di Gianni Riotta

Il presidente americano Donald Trump e il presidente cinese Xi Jinping arrivano al loro secondo summit con umori diversi. Xi appena rieletto leader della potenza che lo studioso Ian Bremmer, dalla copertina di Time, considera «vittoriosa» del XXI secolo, con lo «Xi-pensiero» materia di laurea in 20 università, tra cui la prestigiosa Renmin di Pechino.
Solo Mao ebbe questo onore, un corso in «Deng-pensiero» fu offerto solo dopo la morte di Deng Xiaoping. Trump arriva invece con l‘inchiesta su Russiagate addosso a tre consiglieri, il ministro del Commercio Ross impigliato in paradisi fiscali, le brusche sconfitte elettorali di Virginia e New Jersey.
La posta si alza repentina, entrambi i leader devono portar a casa il risultato, Xi per mostrare di non aver strafatto accumulando potere e non perdere il buon rapporto con Washington, Trump per offuscare le cattive notizie e rilanciare la manifattura americana. Il primo summit, in primavera, andò bene come feeling, Trump non diede la stura alla polemica sul commercio contro Pechino, i cinesi - dai tempi di Confucio maestri di diplomazia - offrirono concessioni minori, importazioni di carne, pagamenti elettronici, gas naturale, registrando in Cina, giusto durante il vertice, tre nuovi brand per le aziende della First Daughter Ivanka.
Venne poi approvata un’ambiziosa agenda dei «100 giorni», che non ha avuto alcun successo, troppo complesso il business globale che porta a un deficit commerciale di 347 miliardi di dollari (299 miliardi di euro) a vantaggio dei cinesi. Alla vigilia della partenza di Trump, Robert Lighthizer, rappresentante Usa per il Commercio, denuncia «Da 25 anni negoziamo, se stiamo ai patti dei cinesi presto il deficit commerciale sarà di 750 miliardi!».
Xi vuol rimandare Trump contento alla Casa Bianca, Cina e America hanno troppo bisogno l’una dell’altra per strappare, e quindi ecco che il gruppo di ecommerce cinese JD.com acquista carne bovina e suina del Montana per 1,2 miliardi di dollari, grazie ad alcuni divieti cancellati da Xi, la Viroment, trattamento acque, firma contratti per 800 milioni di dollari e alla fine il discusso Ross potrà vantare affari per 9 miliardi, alla delegazione guidata da manager Boeing e DowDuPont.
Ma le speranze parallele, per Trump summit da Re del negoziato che sa creare lavoro, per Xi summit da Imperatore del «Sogno cinese» garante della pace mondiale, sono frustrate dalla perenne agitazione nucleare del dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Trump ha pronunciato in Sud Corea una severa requisitoria contro le violazioni dei diritti umani del regime di Pyongyang, «toni mai usati da un presidente, mi son venute le lacrime agli occhi» dice Jeong Kwang-il, dissidente detenuto in gulag da Kim, ora attivista nel gruppo «Niente Catene in Nord Corea», e chiede a Xi di pressare sul vassallo coreano, limitando l’emigrazione di lavoratori e mettendo sanzioni sul petrolio. Trump lamenta a Xi il silenzio totale di Kim per non disturbare il Congresso del Partito comunista, ma la diplomazia cinese resta persuasa che solo un’intesa globale, Cina, Sud Corea, Usa, Russia, Paesi asiatici e Onu, possa «vedere» il bluff nucleare di Kim. Trump e i suoi consiglieri dichiarano che «non tollereranno una Corea nucleare», Kim è persuaso che solo la bomba atomica lo sottrarrà alla «minaccia Usa» che già suo nonno aveva combattuto lungo il Trentottesimo Parallelo, i cinesi non vogliono missili Usa al confine ma detestano l’instabilità. Il secondo summit prenderà dunque ancora tempo, ma il tempo stringe per Trump, che vuole successi prima dell’incerto voto di midterm 2018, mentre gioca a favore di Xi, appena rinominato. «L’arte del negoziato» dei best seller di Trump prevede anche la possibilità di «ribaltare il tavolo», Confucio e Mencio insegnano a Xi a negoziare senza mai deadline: vedremo quale strategia avrà più campo.

La Stampa 9.11.17
Trump-Xi, prove di forza dietro l’intesa sul commercio
Il presidente Usa accolto con tutti gli onori nella città proibita. Siglati accordi per 9 miliardi Ma la partita si gioca su Nord Corea, controllo del Mar Cinese ed economia
di Paolo Mastrolilli

Le immagini dei coniugi Trump e Xi, sorridenti ieri sera nella città proibita di Pechino, erano esattamente il messaggio che voleva trasmettere il leader cinese, per sedurre il collega americano con effetti speciali. Conoscendo la sua vanità, gli aveva promesso una visita di Stato in taglia plus. Dietro le quinte dell’amicizia pubblica, però, si gioca in privato una resa dei conti bilaterale, che va oltre la crisi nordcoreana e riguarda il ruolo globale delle due potenze.
Il personaggio chiave per capire cosa sta accadendo si chiama Matthew Pottinger, direttore della Cina al Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Quando faceva il giornalista, Pottinger era stato aggredito dalla polizia della Repubblica popolare a causa di un’inchiesta fastidiosa. Dopo l’11 settembre 2001 si era arruolato nei Marines, aveva servito in Afghanistan e Iraq, ed era finito nel reparto di intelligence militare comandato da Michael Flynn. Il generale lo aveva portato alla Casa Bianca, dove Matt è sopravvissuto alla sua cacciata. Gestendo il portafoglio cinese, si è convinto che la linea dell’ingaggio con Pechino non ha funzionato. La Repubblica popolare ne ha approfittato, diventando sempre più arrogante tanto nei commerci, quanto sul piano militare. Xi vuole dare al mondo la sensazione che stia avvenendo una inesorabile transizione del potere dagli Usa alla Cina. In questo quadro la Corea del Nord è solo una pedina, che Pechino usa per complicare la vita a Washington, anche se dà l’impressione di fare la sua parte appoggiando le sanzioni all’Onu. Pottinger pensa che sia arrivato il momento di rispondere, spingendo indietro la Repubblica popolare. A partire da Pyongyang, che Trump dovrebbe rimettere nella lista dei Paesi sponsor del terrorismo entro la fine del viaggio asiatico, anche perché la Casa Bianca ha spiegato ieri che Kim usa le armi nucleari come forma di ricatto, per allontanare le truppe Usa dalla penisola e riunificarla sotto il suo potere. Ma Washington non permetterà che ciò accada, rifiutando quindi la proposta di Pechino di congelare il programma atomico del Nord, in cambio della fine della presenza militare americana al Sud. Sul piano strategico, poi, bisogna iniziare a controbattere l’espansionismo di Xi nel Mar Cinese Meridionale, aumentando i pattugliamenti anche con i Paesi alleati. Sul piano commerciale è necessario non solo riequilibrare il deficit di bilancio da 347 miliardi di dollari, ma anche pretendere la reciprocità, ad esempio sulla licenza per le compagnie americane di operare nella Repubblica popolare. Ancora oggi Twitter e Facebook restano inaccessibili; i cinesi possono comprare i grandi media americani, senza che avvenga l’inverso; e le istituzioni finanziarie Usa sono tenute al guinzaglio. Poi Washington è stanca della regola che impone alle sue aziende di cedere la propria tecnologia a Pechino come condizione per entrare nel Paese, per non parlare dei furti di proprietà intellettuale già messi sotto inchiesta, e dei limiti imposti ai visti anche per le visite accademiche. Equità e reciprocità sono le parole chiave, e se la Cina non è disposta a concederle, è arrivato il momento di negarle tutti i vantaggi di cui ha approfittato finora.
I contrasti dunque sono molto più ampi della crisi nordcoreana, riguardano l’intero ruolo geopolitico della potenza emergente e di quella in declino, e Pottinger avrebbe convinto Trump che è venuto il momento di reagire. L’incognita però è lo stesso Trump, notoriamente ondivago e imprevedibile. Il presidente è arrivato a Pechino nell’anniversario della sua vittoria elettorale del 2016, ma indebolito dalle sconfitte subite martedì dai repubblicani in Virginia e New Jersey. Il collega Xi invece ha appena chiuso in maniera trionfale il suo congresso, assumendo poteri che non si vedevano dai tempi di Mao. Il capo della Casa Bianca poi è perseguitato dall’inchiesta del procuratore indipendente Mueller sulla collusione con Mosca, e questo non sfugge né al leader cinese, né a Putin, che dovrebbe incontrare in Vietnam. Dunque il timore di Pottinger, e degli alleati regionali come il Giappone, è che Trump faccia uno scherzo come quello di Nixon negli Anni Settanta, ma al ribasso. Pur di rivendicare un qualche successo, potrebbe accettare il poco che Xi è disposto a dargli in termini di contratti commerciali e pressione su Kim, deragliando il riequilibrio nella sfida epocale fra vecchia e nuova potenza.

La Stampa 9.11.17
Le tre mosse di Pechino per allontanare l’America dall’Estremo Oriente
Pressioni economiche su Taiwan, pugno di ferro sui diritti umani a Hong Kong e sostegno diplomatico al regime di Pyongyang
di Francesco Radicioni

È stata un’accoglienza senza precedenti quella che le autorità cinesi hanno riservato a Donald Trump. Appena atterrato a Pechino, il presidente Usa, accompagnato dalla moglie Melania, è stato accolto da Xi Jinping e dalla first lady cinese, Peng Liyuan, per un tour della Città Proibita, il complesso nel cuore della capitale che per secoli è stata la residenza degli imperatori.
Trump e Xi hanno poi cenato all’interno del Palazzo Jianfu - un’ala della Città Proibita costruita sotto l’Imperatore Qianlong nel XVIII secolo - che fin dalla fondazione della repubblica popolare non aveva mai fatto da scenografia a cene ufficiali con leader americani. I funzionari cinesi lo avevano detto che sarebbe stata «una visita di Stato plus». Un’accoglienza - si mormora a Pechino - che certo mira a lusingare l’ospite prima di affrontare dossier difficili, ma che vuole anche ricordare come la Cina sia stata e rimanga una grande potenza. La stampa di Pechino annota che Trump è il primo capo di Stato straniero ad arrivare a Pechino dopo il Congresso del Partito Comunista, un evento che ha rafforzato la leadership di Xi e rilanciato la retorica del «grande Rinascimento della Cina». Nel corso della visita, il presidente cinese proverà a tratteggiare quello che dovrebbe essere nei prossimi anni lo status dei rapporti tra la prima e la seconda economia del mondo. Xi tornerà quindi a enfatizzare i principi che Pechino vuole mettere alla base delle relazioni sino-americane: rispetto reciproco, cooperazione vantaggiosa per tutti e risoluzione pacifica delle controversie.
Al di là della retorica, a Washington si teme che dietro queste formule si nasconda il tentativo cinese di premere sull’amministrazione americana affinché riconosca che l’Asia è parte della sfera d’influenza della Cina. Xi Jinping proverà anche a convincere gli Usa a rispettare quelli che Pechino considera i propri interessi fondamentali e ad evitare ingerenze su Taiwan, Hong Kong e sui diritti umani. Nei palazzi del potere di Pechino si guarda con una certa preoccupazione alla nuova retorica scelta dall’amministrazione americana, che da alcune settimane pone particolare enfasi sulla «regione dell’Indo-Pacifico libera e aperta». Tra gli analisti cinesi si teme che dietro questa formula si nasconda un nuovo tentativo di Washington di contenere l’ascesa della Cina nell’Oceano Indiano e nel Mar Cinese Meridionale, anche attraverso il rafforzamento dell’alleanza con le democrazie marittime della regione: Giappone, Australia, India. Pechino sospetta insomma la riproposizione sotto altro nome della strategia del «pivot to Asia» voluto da Barack Obama. Anche se, all’inizio del mandato, Trump aveva deciso di ritirare gli Stati Uniti da quello che era il pilastro economico dell’iniziativa della precedente amministrazione: la Trans-Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio che univa Washington con 11 economie della regione, esclusa la Cina. Difficile che Trump possa strappare alla leadership cinese impegni sostanziali in materia di restrizioni all’accesso al mercato, reciprocità negli investimenti e pratiche economiche sleali. Ieri, alla presenza del Segretario al Commercio, Wilbur Ross, e il vice-premier Wang Yang, sono stati firmati accordi commerciali per un valore di 9 miliardi di dollari, mentre altri sono previsti per oggi.
Accordi e memorandum di intesa che consentono a Pechino di dimostrare buona volontà nel colmare l’enorme deficit commerciale che esiste tra Cina e Stati Uniti e che ammonta a 347 miliardi di dollari, evitando però di affrontare i problemi strutturali nelle relazioni economiche bilaterali. Poche le aspettative anche sulla Corea del Nord. Pechino ha ribadito che la Cina applica «in modo pieno e rigoroso» le sanzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tuttavia gli analisti cinesi sono convinti che difficilmente la politica di Trump della «massima pressione» su Pyongyang possa dare i suoi frutti. In questi mesi i diplomatici cinesi hanno ripetuto più volte che l’obiettivo deve essere riportare il regime di Kim Jong-un al tavolo dei negoziati e che per farlo l’unica soluzione è quella della «doppia sospensione»: lo stop alle esercitazioni militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, in cambio del congelamento del programma nucleare e missilistico di Pyongyang. Una proposta che Washington non ha mai preso in considerazione.

Repubblica 9.11.17
La Cina mostra i muscoli Il vertice del sorpasso tra Xi Jinping e Trump
Rapporti di forza capovolti nel summit tra i due presidenti Usa in crisi di leadership e Pechino allarga la sua influenza
Gli occupati cinesi sono 776 milioni: più dell’intera popolazione europea Ma l’America può contare ancora su una forza militare che non ha rivali
di Federico Rampini

PECHINO. Nel primo vero summit fra Donald Trump e Xi Jinping, cominciato ieri, va in scena un ribaltamento di forze spettacolare. La forza è passata di mano? La scenografia del padrone di casa è imperiale, comincia dalla passeggiata dentro la Città Proibita, monumento a una civiltà pluri-millenaria. Anche in Occidente si diffonde una narrazione: è Xi il più forte dei due, il leader che ha il pieno controllo di una superpotenza in ascesa e tesse nuove reti di alleanze planetarie. Trump è indebolito in casa, isolato in molte parti del mondo. La coreografia maestosa di Pechino vuole sancire la parità assoluta tra le due nazioni, ma non nasconde un implicito senso di superiorità. Primo leader cinese dopo Mao Zedong ad avere “consacrato” la sua dottrina nella Costituzione, Xi teorizza apertamente che il modello confuciano, autoritario e paternalista della sua governance garantisce stabilità, progetti di lungo periodo, mentre la liberaldemocrazia occidentale è il regno del caos. Magnanime, cita la guerra del Peloponneso e la “trappola di Tucidide” per ammonire l’America a non cercare lo scontro: nella sua visione del mondo c’è posto anche per noi, è “win-win”, tutti possono guadagnarci. Sottostando alle regole cinesi. Il tempo lavora per loro. Ma è così semplice? Siamo già passati dal secolo americano al secolo cinese, e questo vertice consacra un sorpasso?
LE FORZE CINESI
Xi ha un’economia che continua a crescere a ritmi annui superiori al 6%, l’occupazione cinese a quota 776 milioni ha sorpassato l’intera popolazione europea, è due volte quella americana. Non più solo competitività da bassi salari ma tanta ricerca, infrastrutture modernissime, eccellenze tecnologiche, economia digitale. Dalla ricchezza si estrae il soft power: già a Davos il presidente cinese si presentò come il difensore della globalizzazione, di un mondo aperto, una diga contro i protezionismi. Ha mantenuto l’adesione agli accordi di Parigi sul clima. Con la Nuova Via della Seta (Belt and Road) propone al resto del mondo un titanico progetto di infrastrutture per facilitare gli scambi: autostrade e ferrovie, porti e aeroporti, oleodotti, fibre ottiche. E tanti capitali per finanziare le costruzioni anche a casa degli altri. Dall’Asia centrale all’Europa all’Africa.
LE FORZE AMERICANE
Gli Stati Uniti restano ancora la prima economia mondiale e la crescita accelera al 3%, la piena occupazione è vicina, le Borse alle stelle: Trump non si stanca di ricordarlo a chi prevedeva l’Apocalisse dopo la sua elezione. La forza militare Usa resta ineguagliata, la Cina è ancora lontanissima dall’avere una rete di basi in quattro continenti o una capacità di proiezione su teatri di conflitti remoti. L’America ha raggiunto l’autosufficienza energetica e mantiene un vantaggio nell’innovazione tecnologica, nella capacità di attirare talenti.
I PUNTI DEBOLI DI TRUMP
La fragilità più evidente degli Stati Uniti è nella leadership: un presidente al 36% nei sondaggi, ha appena perso due test elettorali in Virginia e New Jersey. L’incapacità di venire a capo della minaccia nucleare in Corea del Nord segnala i limiti della potenza militare. Scandali a ripetizione, l’indagine del Russiagate, fanno già di questo presidente una “anatra zoppa”. Se perdesse le legislative di mid-term tra un anno perfino l’impeachment diventerebbe meno fanta-politico.
LE FRAGILITÀ NASCOSTE DI XI
Un debito pubblico superiore al 300% del Pil. Un sistema bancario opaco e malato di dirigismo. Un eccesso di capacità produttiva in troppi settori, costretti a esportare alimentando macro- squilibri commerciali col resto del mondo. Troppa concentrazione di potere personale in capo a Xi: è una forza che tradisce insicurezza, scarsa fiducia nella sua stessa nomenclatura. Così come la censura su Internet, sui social media, sulle tv e sui giornali. Nell’Asia vicina è palpabile il “bisogno di America” per controbilanciare l’espansionismo cinese: le tappe di Trump a Tokyo e Seul sono andate bene, proprio per questo. Il Giappone spinge per includere l’India (“Indo-Pacifico”) in un cordone di democrazie.
I RISCHI PER L’OCCIDENTE
Trump ha intuito che la superpotenza economica cinese è una “tigre di carta” perché troppo dipendente dall’export, obbligata a riciclare i suoi immensi attivi in buoni del Tesoro Usa. Riecheggia critiche di sinistra (Bernie Sanders) e di vari premi Nobel (Stiglitz, Krugman, Deaton) sull’impoverimento da globalizzazione, sulle regole del gioco truccate a favore dei cinesi. Dumping, aiuti di Stato, furti di proprietà intellettuale: tutte le accuse di Trump sono fondate. Gli manca una proposta organica per riscrivere quelle regole. Rischia di accontentarsi di gesti a effetto, come i 9 miliardi di contratti che Xi ha preparato per le multinazionali Usa. Il presidente americano non sa costruire una coalizione tra i “perdenti della globalizzazione” che costringa i cinesi a negoziare un nuovo assetto del commercio mondiale. E gli uomini della Goldman Sachs che lo circondano qui a Pechino non hanno la stessa agenda dei metalmeccanici che lo votarono un anno fa.

La Stampa 9.11.17
L’uomo di Putin per il web
“Perché ci interessa il M5S”
Shlegel, ex leader dei giovani putiniani: Di Battista e Di Stefano? Ci sono piaciuti
di Jacopo Iacoboni

«Alessandro Di Battista e Manlio Di Stefano? Ci hanno fatto in generale un’impressione positiva, quando ci siamo incontrati. Se l’accordo poi è stato formalizzato? Se c’è stata una forma di aiuto, politico o finanziario? Questo deve chiederlo a Zheleznyak». Il quale, per ora, non ci ha ancora risposto.
Per la prima volta in Italia parla un testimone diretto di alcuni dei contatti russi tra il Movimento cinque stelle e uomini della cerchia stretta di Vladimir Putin. Si tratta di Robert Shlegel, neanche trentacinquenne, fino al 2016 deputato della Duma, dov’è stato capo dell’Expert Council della Commissione parlamentare per le politiche sull’informazione, l’information technology e le comunicazioni, e ex membro influente del gruppo della Duma per la creazione di un parlamento elettronico. Per la prima volta siamo in grado poi di pubblicare anche una foto di uno degli incontri dei grillini con gli uomini di Putin, incontri sempre o negati o estremamente minimizzati, e comunque mai adeguatamente pubblicizzati in Italia (l’incontro qui è con Di Battista e Di Stefano, avvenuto a fine marzo 2016 a Mosca, assieme al potentissimo e discusso Sergej Zheleznyak, uomo nella lista di politici e finanzieri russi sottoposti a sanzioni dall’amministrazione Obama).
Se i contatti dei grillini con Zheleznyak hanno cominciato ad emergere perché rivelati un anno fa dalla Stampa, la presenza e la testimonianza che ci rende Shlegel sono del tutto nuove. Anche Shlegel, sebbene non svolga più ruolo ufficiale, è un uomo assai influente, nel suo ramo. Benché ancora molto giovane, in Russia ha fatto parlare molto di sé perché fu a lungo il capo di Nashi, la gioventù putiniana, impegnata con tecniche sperimentali anche nel costruire eserciti di attivisti online pro Putin. Nel 2006 costruì uno studio di produzioni video dal basso, che faceva agit prop su Internet per Putin, con il meccanismo di video non sempre riconducibili direttamente a qualcuno, ma potentemente virali. Fu lui a suggerire alla Commissione centrale del partito di formare un elenco di blog e siti per condurre operazioni di agitazione su Internet. Sempre lui a creare, in tandem con i vertici di VKontakte – il più grande social network in cirillico – gli account di tutti i deputati del partito di Putin. Il Guardian scrisse che, nell’agosto 2015, Anonymous International pubblicò un carteggio di mail hackerate ai danni di vari politici russi vicini a Putin, tra cui Shlegel, riguardanti «un attacco troll coordinato ai siti web di importanti organizzazioni giornalistiche americane e inglesi, tra cui New York Times, Cnn, Bbc, Usa Today, Huffington Post». Shlegel ha sempre negato questo tipo di critiche; e ha tra le altre cose tenuto contatti per i russi con Afd, il partito di estrema destra tedesco, e lo Jobbik. «In questo momento non faccio più politica in quanto tale, non sono più al partito», ci dice Shlegel. «Gli incontri col Movimento fanno parte di una serie di meeting internazionali. Non pianificammo un lavoro specifico. Noi eravamo interessati molto al loro lavoro perché sono diventati il primo di questi Internet-party, partiti nati con Internet».
Ci viene in aiuto, paradossalmente, un comunicato ufficiale reperito nelle pieghe del web in cirillico. Lo pubblica il sito di Russia Unita, il partito di Putin. In un incontro coi grillini si è parlato, si legge, di «format per una ulteriore cooperazione tra M5S e Russia Unita, esperienza nelle campagne elettorali e agenda internazionale». Il terzo punto riguarda, chiaramente, il no alle sanzioni a Mosca, noto caposaldo geopolitico grillino. Il primo spiega che - nel marzo 2016 - la cooperazione era così avviata da poter mettere a scopo di un meeting un «ulteriore» rafforzamento. Il secondo punto - esperienze, ossia (traduciamo noi) know how, di campagne elettorali - è ciò di cui la Russia di Putin è stata a modo suo maestra, la propaganda in questi anni dark.

il manifesto 9.11.17
Shane Bauer: «Il mio lavoro sotto copertura nell’America violenta e ingiusta di Trump»
Parla il reporter investigativo che si è arruolato nelle milizie al confine Usa-Messico e ha vestito la divisa dei secondini in una delle prigioni private più vecchie e temute del profondo sud per raccontare il paese. «Le milizie paramilitari, composte da suprematisti bianchi e anti musulmani, si fidano solo di Trump e si stanno preparando al peggio, addestrandosi come un esercito».
di Guido Caldiron

Per indagare sulle milizie anti-immigrati ha passato giorni e notti lungo il confine tra Messico e Stati uniti, indossando una mimetica, con una radio in spalla e una carabina Roger Mini-14 tra le braccia. Per scoprire perché migliaia di detenuti avevano iniziato uno sciopero della fame in tutto il paese, ha vestito la divisa dei guardiani in una delle prigioni private più vecchie e temute del profondo sud.
Per Shane Bauer il giornalismo è una questione di pelle e non solo di principi. Se per arrivare a scoprire qualcosa c’è bisogno di mettersi in gioco fino in fondo, lui non si tira indietro.
36 anni, già studente di Berkeley, giornalista investigativo di Mother Jones, una delle voci più significative della stampa progressista, dopo aver lavorato a lungo in Medioriente per diverse testate statunitensi e aver passato, dal 2009, quasi due anni nelle prigioni iraniane insieme ad altri due free-lance, Bauer – che è stato quest’anno tra gli ospiti del Festival di Internazionale a Ferrara -, ha indagato alcuni degli aspetti più inquietanti della realtà del suo paese, dove la violenza, il feticismo per le armi e le ideologie dell’odio dominano la scena, fino a comporre il ritratto di una società violenta in cui si può morire ogni giorno quasi per caso.
Reporter di guerra in Medioriente e giornalista investigativo in patria, come sono andate le cose?
Quando sono tornato nel mio paese, dopo aver passato molto tempo tra Kurdistan, Iraq, Siria e Iran, mi sono accorto che solo un lavoro sotto copertura mi avrebbe consentito di arrivare alle informazioni che volevo; far luce su delle realtà scomode o complesse. Erano in corso rivolte e scioperi della fame in diverse prigioni e ho capito che solo entrando in quei posti avrei potuto documentare quello che accedeva. La stessa cosa è successa con le milizie: solo dall’interno potevo capire cosa covava in quegli ambienti. E non è stato neppure difficile. Per il posto da guardiano ho inviato una domanda e mi hanno preso in un paio di settimane, mentre per contattare le milizie mi sono creato un profilo facebook e con quello ho conosciuto dei militanti. Nessuno mi ha fatto troppe domande. Qualcosa ho certamente rischiato, ma alla fine è andato tutto bene.
Il no all’immigrazione ha portato Trump alla Casa Bianca; lei ha passato mesi tra i miliziani della «3% United Patriots» lungo il confine con il Messico. Gruppi pericolosi e legati in che modo con la politica?
Le milizie paramilitari «patriottiche» sono nate nella prima metà degli anni Novanta ma hanno conosciuto uno spettacolare revival dopo l’elezione di Obama. Nelle loro fila ci sono anche dei suprematisti bianchi, ma più che la questione razziale in quanto tale, la loro vera ossessione sono i migranti irregolari e il timore che le autorità possano regolamentare il possesso di fucili e pistole. Per lo più si tratta di maschi bianchi della working class, xenofobi e anti-musulmani, ostili anche a movimenti come Black Lives Matter e alle femministe. Si fidano poco dei politici, ad esclusione del solo Trump, e si stanno preparando al peggio, addestrandosi come un esercito.
Nel 1995 da simili gruppi emersero i responsabili della strage di Oklahoma City. Una storia che rischia di ripetersi?
Quel terribile attentato che fece 168 vittime fu compiuto da persone che si opponevano a Washington e al presidente dell’epoca che era Bill Clinton, mentre oggi gli estremisti sembrano in sintonia con la Casa bianca. Temo piuttosto un conflitto all’interno della società, che i razzisti se la prendano con chi si oppone loro, come è accaduto a Charlottesville il 12 agosto. E la grande circolazione delle armi può fare il resto, alimentando nuove stragi di innocenti, come accade ogni settimana.
Lei ha seguito anche un recente raduno della Alt-Right, si tratta di un ambiente così lontano da quello delle milizie?
In questo caso abbiamo a che fare con dei giovani del ceto medio, spesso si tratta di studenti universitari che hanno avuto a lungo come obiettivo quello di una rielaborazione ideologica del vecchio suprematismo bianco. I gruppi della Alt-Right operano nei campus e sui social mescolando riferimenti alla Storia americana e alla nuova destra europea. Perciò, si tratta di un ambiente diverso da quello delle milizie, anche se oggi, grazie alla presenza di Trump, tutte queste realtà finiscono per battersi per le stesse cose: contro la sinistra, contro gli immigrati e i musulmani.
Prima di infiltrarsi tra le milizie, ha fatto per 4 mesi il guardiano in una prigione privata della Louisiana. Ha capito qualcosa in più del suo paese?
Certamente, che si tratta di una società violenta e ingiusta. Quel carcere si trova in una contea povera di uno Stato tra i più poveri del paese. I lavori più ambiti sono la segheria, Wal-Mart e il carcere. La vita dentro la prigione era durissima, regolata solo dalla logica del profitto. Gli stipendi dei guardiani erano da fame e i detenuti che stavano male non erano portati in ospedale perché altrimenti bisognava pagare le spese del ricovero. C’era pochissimo personale, spesso ragazzini appena usciti da scuola. Ho visto molta violenza, ma soprattutto disinteresse, anche da parte della direzione. Il responsabile delle guardie ripeteva di continuo, «che senso ha rischiare la pelle per meno di 9 dollari all’ora. Se i detenuti si vogliono accoltellare a vicenda, lasciamoli fare».
Ma nell’America delle «fakenews» e di Trump c’è ancora spazio per il giornalismo investigativo?
In realtà credo che proprio ora questo lavoro possa assumere un significato ulteriore. Ogni volta che delle informazioni su un soggetto di interesse pubblico non sono ottenibili altrimenti, il muoversi sotto copertura diventa l’unica strada. Le inchieste sulle prigioni private e sulle milizie non avrebbero potuto essere realizzate in altro modo. Sono convinto che il nostro ruolo come giornalisti sia quello di chiedere conto a chi detiene il potere di quello che sta facendo. E forse questo è il momento più opportuno per farlo.

La Stampa 9.11.17
“Gli Stati Uniti di Trump non considerano i grillini una minaccia”
L’ex fedelissimo: ma rispettino i valori occidentali
intervista di Paolo Mastrolilli

Gli Stati Uniti non considerano un eventuale governo italiano guidato dal Movimento 5 Stelle come una minaccia per le relazioni bilaterali, a patto che «si impegni a rispettare i valori della civiltà occidentale». A dirlo è l’ex vice assistente del presidente Trump, Sebastian Gorka, in quella che rappresenta la prima apertura di credito americana verso i grillini. Il messaggio però può avere una doppia lettura, perché se non aderisse ai valori occidentali, M5S si metterebbe in rotta di collisione con Washington.
Il Movimento 5 Stelle potrebbe vincerà le prossime elezioni italiane. Come giudica questa possibilità?
«Gli italiani devono decidere il loro governo».
Non vedreste questo risultato come una minaccia per la stabilità del paese e le relazioni bilaterali con gli Usa?
«Se l’esecutivo si impegnerà a rispettare i valori della civiltà occidentale, come democrazia rappresentativa, dignità individuale, libertà, allora la Casa Bianca potrà lavorarci insieme».
Quale strategia suggerisce per stabilizzare il Nord Africa?
«Sviluppare le capacità delle forze dei governi locali. Le nazioni della regione devono potersi proteggere».
In Libia l’Italia ha sostenuto il governo Sarraj, dialogando con Haftar e le tribù locali. E’ la linea giusta?
«Il problema in Libia è molto più acuto. E’ necessario vedere l’impegno degli europei a mobilitare un considerevole numero di truppe per stabilizzare il paese, prima che qualunque soluzione politica possa essere negoziata».
Cosa sono disposti a fare gli Usa per fermare l’Isis in Libia?
«Il presidente Trump non è un interventista. Userà la forza se necessario, come ha fatto con Assad per le armi chimiche, ma non vuole vedere migliaia di soldati americani schierati in un nuovo campo di battaglia. Noi possiamo offrire leadership e intelligence, ma gli Europei devono controllare il loro cortile».
Come dovremmo contenere le migrazioni nel Mediterraneo?
«La decisione tocca ai membri della UE, non all’America. Non siamo i poliziotti del mondo».
Diversi paesi europei, come Ungheria e Polonia, rifiutano di accettare quote di migranti. Hanno ragione a farlo?
«Ogni nazione ha il diritto di decidere chi entra nel suo territorio, altrimenti non è più sovrana. Se la Ue vuole restare una, deve rispondere alle preoccupazioni di Ungheria e Polonia».
La sopravvivenza dell’Unione Europea è nell’interesse degli Usa?
«Solo se serve gli interessi e la sicurezza dei suoi popoli, e Bruxelles non mina i principi democratici».
La Ue deve continuare l’austerity, o promuvere la crescita?
«La promozione della crescita non è il prodotto di magici segreti. Come la curva di Laffer aveva previsto, e Reagan aveva dimostrato, la crescita viene quando lo stato diminuisce le spese, abbassa le tasse e riduce le regole per le imprese private».
Siete in favore del trattato commerciale TTIP con l’Europa?
«Come il presidente, favoriamo qualsiasi struttura che promuova il commercio libero e giusto».
La Russia può tenere la Crimea e le sanzioni vanno tolte?
«No. L’invasione è stata un oltraggio a tutti i principi delle moderne relazioni internazionali. Le sanzioni devono restare».
Difendere la Nato resta un interesse vitale degli Usa?
«L’articolo 5 della Nato rimane sacro come all’epoca della Guerra Fredda. La Russia non minaccia l’Occidente come l’Urss, perché è molto più debole. Putin però desidera chiaramente di destabilizzare i paesi vicini, e usa mezzi molto aggressivi di sovversione politica e di propaganda contro tutte le nostre nazioni. Perciò è una minaccia».

Repubblica 9.11.17
Sarajevo
I 25 anni di governo del partito etnico dei musulmani hanno provocato l’islamizzazione forzata di una società orgogliosa della propria laicità
Moschee piene, alcolici e sexy shop bosniaci tra devozione e finzione
Improbabili fedeli affollano i luoghi di culto per non rischiare di perdere il posto di lavoro in un Paese dove il novanta per cento degli impieghi sono pubblici Nulla scalfisce il regno dinastico degli Izetbegovic famiglia chiacchierata ma intoccabile, con lo scettro del comando passato dal defunto Alija al figlio Bakir
di Gigi Riva

SARAJEVO FU all’inizio dell’ultimo Ramadan che Azra dovette ammettere a se stessa quello che si rifiutava di vedere. Era metà mattina, nel suo ufficio al ministero dell’Interno di Sarajevo, e aveva proposto alle colleghe come al solito di consumare con lei la pausa per il caffè, il caffè lungo bosniaco, e la sigaretta. Nessuna la volle seguire con i pretesti più fantasiosi. Non capiva. Finché l’amica più fidata la prese in disparte e le spiegò: «Non veniamo non perché siamo diventate di colpo credenti, ma perché qualcuno potrebbe vederci e sarebbe a rischio il posto di lavoro». Tanto hanno potuto i 25 anni consecutivi al governo del partito etnico dei musulmani: è in atto, in Bosnia-Erzegovina, una islamizzazione degli usi e costumi e l’ipocrita condiscendenza finisce per corrodere una società civile che menava vanto, con Tito e nel primo post-Tito, della propria laicità. Era successo qualcosa di molto simile dopo il 1463 e l’invasione ottomana quando molti slavi per compiacere il sultano di Istanbul ne abbracciarono la religione in cambio di prebende e favori.
I paragoni sono tutti zoppi ma è impossibile non notare una postura identica tra gli attuali abitanti del Paese e i loro avi. La sottomissione a un potere longevo è caratteristica di ogni latitudine, ma qui il parallelismo risale i secoli e si accentua a causa dall’identica (finta) scelta confessionale. Tuttavia non si può chiedere a un popolo intero di essere ancora eroe, più di quanto lo fu durante i conflitti degli Anni Novanta. Non si può se l’eterno dopoguerra non ha mai prodotto una concreta ricostruzione, se i salari medi non arrivano a 500 euro (poco più della metà nel settore amministrativo), se i posti di lavoro sono al 90% pubblici e se su una popolazione di 3 milioni e mezzo di persone i disoccupati sono oltre mezzo milione, in maggioranza donne.
Così ogni giorno, quando Sarajevo alza la saracinesca è come a teatro, va in scena la grande finzione. Nella Bascarsija, il cuore antico della capitale, niente vino e superalcolici dove fino a ieri era un proliferare di beoni. Solo birra analcolica. Con strappi alla regola se si conosce il proprietario e basta una strizzata d’occhio d’intesa per avere un cartoccio che cela il liquido proibito. Tutto occultato anche per non alienarsi la sempre più folta clientela araba che altrimenti non ci metterebbe piede (sarebbero 40 mila gli stranieri provenienti dal Golfo e inurbati a Sarajevo, i turisti dalla stessa area sono cresciuti nell’ultimo anno del 200 per cento, attratti da un luogo «fresco, con tanto verde, molti corsi d’acqua e dove però ci sono i minareti»). Una legge prevede del resto che non si possano vendere alcolici “nelle vicinanze delle scuole”: cioè in nessun luogo nei centri urbani. Durante il Ramadan, l’hotel simbolo della città, luogo di convegni e incontri anche della comunità internazionale, col nome che è anche un’aspirazione, “Europa”, non si poteva nemmeno fumare, quando solitamente chi siede tra i tavoli è avvolto in nuvole grigie: nessuna norma vieta ancora il fumo.
Stupisce allora notare sulla Ferhadija, l’arteria principale pedonale che prende nome dalla moschea più bella, una seppur minuscola insegna con una freccia che indica la strada per un “Sexy shop” però nascosto dentro un androne. La giovane impiegata non ha mai dovuto lamentare intrusioni di una inesistente polizia della morale e anzi rivela divertita: «Il momento di maggior afflusso nel locale è il venerdì dopo la preghiera quando sono proprio i più apparentemente religiosi a farmi visita. All’inizio sono timorosi, io li incoraggio spiegando che il sesso non è contro l’Islam, ma è un modo più completo e gioioso di vivere l’intimità. È un gioco delle parti, ne so- no già convinti...».
Le moschee già vuote durante la Repubblica socialista (e anche quello era un modo opposto per ingraziarsi il partito) si riempiono di improbabili fedeli senza dimestichezza con il Corano. Improvvisano litanie a bassa voce, mostrano contrizione e all’uscita tirano un sospiro di sollievo come per una seccatura superata. Luoghi di culto sono spuntati anche sui quartieri di collina, come Kosevsko Brdo, finanziati soprattutto dai Paesi del Golfo sunniti, al contrario dell’ultima guerra quando fu l’Iran sciita, soprattutto, a correre in soccorso dei “correligionari” balcanici con rifornimenti di armi. I minareti hanno mutato lo skyline di una capitale mai prima troppo sviluppata in altezza. Ci si appalesa davanti all’imam per acquisire una benemerenza, come timbrare un cartellino.
E non sono esclusi dal rituale professori universitari che allargano le braccia davanti a colleghi stranieri che li conoscevano per impenitenti miscredenti: «Che ci volete fare, altrimenti mi cacciano dalla cattedra ». E hanno anche molti problemi a contrastare proposte lanciate sui media di regime per “bonificare” i programmi scolastici ed espungere, ad esempio, Darwin. Per non parlare dell’intenzione manifestata dai più fanatici di introdurre la poligamia.
Alla farsa della sottomissione si sottraggono i giovani. Con l’unica arma a disposizione: emigrare. Si calcola che in 150 mila abbiano lasciato il Paese mentre 4 su 5, l’80%, di chi non è espatriato vorrebbe andarsene ma non ne ha le possibilità economiche. Quelli che rimangono, per citare il premio Oscar Danilo Tanovic (“No man’s land”), cercano la felicità scindendo nettamente la loro esistenza dalla politica incapace di offrire una prospettiva di futuro. E corrotta. Stando ad alcuni diplomatici europei «servirebbe una Tangentopoli sul modello di quella italiana e ripartire da zero ». Una sorta di palingenesi che però non è alle viste. Salvo qualche sporadica iniziativa della magistratura per dare una parvenza di efficienza. Da qualche giorno è iniziato il processo al segretario generale dell’Sda (il partito al potere) Amir Zukic e ad altri otto accoliti accusati di associazione per delinquere: vendevano posti di lavoro nell’Azienda elettrica pubblica (Elektroprivreda) a prezzo variabile tra i 16 e i 19 mila KM (marco convertibile con un rapporto di cambio fisso con la nostra moneta fissato a 1,955 ogni 1 euro). Nulla che scalfisca tuttavia il regno dinastico degli Izetbegovic, con lo scettro del comando passato dal padre Alija, scomparso nel 2003, al figlio Bakir, 61 anni, e già si prevede che sarà la di lui moglie Sebija, originaria del Sangiaccato, regione della Serbia a maggioranza musulmana, ironicamente ribattezzata “Elena Ceausescu”, a raccoglierne l’eredità. La “famiglia” resta intoccabile. Chiacchierata ma intoccabile. E provoca solo ironia ma non l’intervento dei giudici la mirabolante ascesa dei profitti della “Bihexo”, società di proprietà di Mirsad Berberovic, cognato di Bakir perché marito di sua sorella Sabina: ha vinto tutte 37 le gare d’appalto per la ristrutturazione della rete idrica della capitale, gestita da una municipalizzata nel cui consiglio d’amministrazione siedono naturalmente dirigenti dell’Sda.
Bakir Izetbegovic ama farsi fotografare con Recep Tayyip Erdogan mentre mostrano insieme le quattro dita alzate, simbolo dei Fratelli musulmani, gli rende costantemente visita e si commuove quando in tv svela una confidenza del presidente turco: «Tuo padre, prima di morire mi ha detto: ti affido la Bosnia, abbine cura». A Istanbul hanno dedicato ad Alija un parco e prodotto una serie tv sulla sua vita. La Bosnia dell’islamizzazione cosmetica risale un tornante della sua storia assieme al nuovo sultano.

Corriere 9.11.17
Rizzolatti
Il Nobel della ricerca lombarda al padre dei neuroni specchio
di Alessio Ribaudo

Nella giornata dedicata a Umberto Veronesi un milione di euro a Rizzolatti
Milano Un inno alla vita e come migliorarne la qualità grazie alla ricerca scientifica. È stato questo il tema conduttore della «Giornata della Ricerca», istituita dalla Regione Lombardia, che è stata dedicata alla memoria dell’oncologo Umberto Veronesi.
A dare il benvenuto al pubblico del teatro «Alla Scala» sono state le note suonate dallo Stradivari di Lena Yokoyama e del pianoforte di Giovanni Allevi che ha sottolineato come «sia nella musica sia nella ricerca i risultati migliori si raggiungono insieme». Lavoro di squadra che era amato da Veronesi, l’uomo che ha contribuito in modo determinante alla lotta contro il cancro e ridato speranza e dignità ai malati. «Mio papà si metteva continuamente in discussione — ha detto il figlio Paolo, presidente dell’omonima Fondazione — e nessuno meglio di lui ci ha insegnato a guardare sempre oltre, avendo come faro che la ricerca deve avere sempre un fine preciso».
Durante l’evento, condotto dalla giornalista e scrittrice Eliana Liotta, è stato consegnato il premio «Lombardia è ricerca» al neuroscienziato Giacomo Rizzolatti che dirige l’Unità di Ricerca del Cnr dell’Istituto di Neuroscienze presso l’Università di Parma. Il riconoscimento, valore un milione di euro, è stato assegnato da una giuria composta da 14 scienziati italiani d’eccellenza, che ha selezionato i candidati dalla lista «Top Italian Scientists».
Nel 1992, Rizzolatti con il suo team studiando il cervello delle scimmie ha scoperto i neuroni specchio: chiamati così per la loro capacità di fare ripetere un’azione (o vivere un’emozione) che si è appena vista compiere.
«La scoperta — ha motivato la giuria — ha contribuito profondamente alla comprensione del funzionamento del nostro sistema nervoso centrale e ha avuto un impatto trasversale che va dalla Psicologia alla Neurologia, alla Robotica, alla comprensione del nostro comportamento sociale come essere umani».
La cerimonia di premiazione è stata introdotta dal direttore del Corriere , Luciano Fontana, mentre la pergamena è stata consegnata dall’assessore regionale Luca Del Gobbo e dal governatore Roberto Maroni. Il 70 per cento del corposo assegno «staccato» dalla Regione, su indicazione della stessa, sarà investito in ricerca in Lombardia. Lo scienziato lo destinerà al Centro di chirurgia dell’epilessia dell’ospedale «Niguarda» di Milano. «Credo che investirò quasi tutto in borse di studio e post doc — ha spiegato Rizzolatti — per incrementare la forza lavoro».
Ospiti della Giornata sono stati anche lo chef Davide Oldani, l’imprenditrice farmaceutica Nathalie Dompé, il sovrintendente del teatro «Alla Scala» Alexander Pereira e il presentatore Gerry Scotti. Il volto televisivo ha emozionato il pubblico raccontando che sostiene ogni anno quattro borse di studio per giovani ricercatori dell’Humanitas di Milano. A oggi grazie a lui sono stati in 28 quelli che hanno potuto lavorare in Italia senza essere costretti a emigrare all’estero. «Addirittura — ha aggiunto Scotti — abbiamo anche attirato in Italia ricercatori giapponesi e statunitensi».
«Mi auguro — ha concluso Maroni — che questa vocazione della Lombardia e di Milano di essere capitale europea delle scienze della vita sia riconosciuta anche a Bruxelles per assegnarci la sede dell’Agenzia europea del farmaco».

Corriere 9.11.17
Il libro di Bignami
Una missione spaziale: divulgare
di Edoardo Boncinelli

«Ogni movimento rivoluzionario è romantico per definizione». Tale affermazione del 1922 di Antonio Gramsci fa da apertura ideale all’ultimo libro di Giovanni Bignami, Le rivoluzioni dell’universo. Noi umani tra corpi celesti e spazi cosmici (Giunti, pp. 227, e 20). Si tratta di un libro divulgativo di astronomia e cosmologia scritto da un astrofisico italiano recentemente scomparso, che dopo anni di lavoro di ricerca sul campo si era dedicato con successo anche alla divulgazione. Lui, classe 1944, come me, era convinto che la divulgazione fosse molto importante e quasi un dovere per uno scienziato che ama la sua materia. Un dovere soprattutto verso i giovani ma non solo.
Il libro è dunque di facile lettura e parla nientemeno che dell’universo, riportando le ultime scoperte. In cinque campi, corrispondenti secondo l’autore a cinque rivoluzioni principali. Il primo è quello della rivoluzione cosmologica, quella più ampia e comprensiva, quella che parla dell’universo e della sua storia, quale ce la figuriamo oggi, dal primo inizio con il Big Bang, la sua successiva travolgente espansione, la formazione dei buchi neri, recenti o primordiali. Una prospettiva recente tenderebbe a vedere nella relativa abbondanza di buchi neri primordiali una possibile spiegazione della materia oscura, quel 25% della materia presente nell’universo che non si riesce a vedere e che «frena» l’espansione stessa dell’universo. Per non parlare delle onde gravitazionali che incrociano nello spazio cosmico e ci investono continuamente anche se in maniera impercettibile, raggiungendo una certa intensità solo in caso di collisione di due buchi neri di grande massa. Una serie di cose, insomma, di cui solo qualche decennio fa non si sapeva niente di preciso.
Ma non esistono solo le stelle o le galassie nello spazio, esistono anche i pianeti, e in anni recenti è stata la caccia a un certo tipo di pianeti che ha tenuto banco nelle ricerche spaziali. Perché? Per due motivi diversi ma complementari: trovare pianeti appartenenti a sistemi solari diverso dal nostro, e detti perciò esopianeti, che siano eventualmente abitabili da noi oppure tali da ospitare, o avere ospitato, qualche forma di vita. Le due cose sono diverse ma non del tutto diverse; diversa è la prospettiva. Una è puramente utilitaristica. Se e quando dovremo abbandonare il nostro pianeta perché non ci si può più vivere, dove potremmo fuggire e stabilirci? Occorre cioè un pianeta abitabile, che mostri caratteristiche geologiche, termiche, chimiche e fisiche compatibili con una nostra sopravvivenza, anche in condizioni forzate ma compatibili con il nostro livello di tecnologia. Questo non potrà accadere, ovviamente, domani ma prima o poi potrebbe essere una necessità ed è meglio, perciò, accertarci per tempo se e dove esistono le condizioni.
L’altra faccenda è di carattere più speculativo: troveremo qualche forma di vita da qualche parte? Esistono cioè condizioni compatibili con lo sviluppo della vita, come sul nostro pianeta, da qualche altra parte del cosmo oppure no? E di quali forme di vita si tratta? In particolare, esistono condizioni compatibili con una forma di vita avanzata, intelligente e magari tecnologicamente orientata? Quello che è successo fino a oggi è stato che sorprendentemente di esopianeti promettenti ne sono stati trovati tanti, e il loro numero cresce ogni giorno.
Queste considerazioni appartengono al secondo e terzo campo di investigazione cosmica, con le riflessioni finali riservate al possibile futuro dell’universo, della nostra Terra e di noi orgogliosi Homo sapiens. C’è da smarrirsi in queste considerazioni, ma l’uomo non si smarrisce e ancora meno lo scienziato appassionato e consapevole.

Repubblica 9.11.17
 Le fake news? Tutta colpa dei filosofi postmoderni
MARCO BRACCONI

Il nuovo saggio di Maurizio Ferraris, “Postverità e altri enigmi”, indaga sull’origine delle disinformazioni di massa, salvando il ruolo del web
Può discendere da un tweet di Donald Trump un tema filosofico che contribuisca a definire il mondo in cui viviamo? Secondo Maurizio Ferraris non solo ciò è possibile, ma necessario. Perché la notizia falsa, ultimo anello della catena della postverità, è il sintomo di una rivoluzione che ci interroga e riguarda tutti.
Postverità e altri enigmi (Il Mulino) è il nuovo saggio del filosofo della “documedialità” e del nuovo realismo, un approdo quasi naturale vista la centralità attribuita dall’autore ai documenti e alla loro registrazione nella costruzione del mondo sociale. Non a caso il primo scopo del libro, innescato da un confronto con Alessandro Baricco su Robinson, è proprio quello di stabilire la rilevanza della questione postverità contro chi la derubrica a tema sociologico o a mero “problema giornalistico”. Se lo scrittore sosteneva l’assenza di novità storica nella diffusione di fake news (il potere ha sempre manipolato i fatti) per Ferraris invece la postverità non solo esiste, ma è fenomeno radicalmente nuovo e affonda le radici nella filosofia di fine Novecento.
Non sono stati forse i postmoderni, sulle orme del nietzschiano “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, a mettere la “verità” tra virgolette in nome di una emancipazione del soggetto davanti ai poteri? Ebbene secondo l’autore le cose sono andate ben al di là delle loro perfino buone intenzioni: ciò che quei pensatori intendevano come liberazione dal dogmatismo della Verità ha finito per produrre, salendo sulla giostra del digitale, anche l’epoca della postverità. Per il filosofo la strada è affrontare il tema come una parte del processo che dalla società dei media conduce al mondo “documediale” di oggi, fondato come in passato sulla registrazione dei documenti ma dove per la prima volta i documenti circolano da tutti e verso tutti, in uno spazio globale e a velocità della luce. Soprattutto, un mondo dove ognuno può organizzarli e diffonderli come e quando vuole, anche se non ha nessun titolo per farlo. Così, se il pensiero postmoderno ha creato le premesse teoriche per la postverità, è nella Rete e nella sintassi dei social network che l’idea di “verità alternativa” ha trovato il suo habitat di massa. Attenzione però a demonizzare il web, intanto perché nella visione di Ferraris la Rete non è causa di comportamenti sociali ma rivelazione di attitudini umane ad essa preesistenti. E poi perché è proprio nella tecnica che risiede una possibile risposta all’enigma della postverità. Un enigma che parte dalla constatazione empirica di un reale in cui la tradizionale “bugia del potere” diventa fake a portata di ognuno e in cui ognuno trasforma le proprie convinzioni in verità oggettive; un sistema senza classi riconoscibili, all’interno del quale è il singolo a possedere i mezzi di produzione dei documenti/oggetti sociali. Quasi, nota Ferraris, il sogno rovesciato di Marx: una società con un esercito di lavoratori che lavora anche di notte, postando documenti in Rete per il solo profitto dei gestori ma con la sola ricompensa di uno dei più radicali bisogni spirituali dell’essere umano: il riconoscimento. Ecco che la postverità non è più “stortura” del sistema, piuttosto il tic di un passaggio d’epoca che per l’autore invita la filosofia a riconsiderare il tempo in cui ci troviamo. L’epoca documediale ci dice infatti che la fase del capitale che scambiava merci/documenti ha lasciato il posto all’era in cui lo scambio riguarda direttamente i documenti; allo stesso modo, la postverità succede al populismo figlio di quella società dei media travolta da Internet. È qui che il saggio ritorna al nodo filosofico della questione: il vero e il modo con cui lo distinguiamo dal falso nell’inedito contesto della dominanza digitale. Dosando il registro accademico con un istinto divulgativo spesso capace di divertire, trascorrendo da Kant all’amato Derrida, il filosofo suggerisce come antidoto alla postverità di ripartire da Agostino e dal suo “voler fare” la verità. Perché l’enigma della postverità è faccenda dell’homo habilis più che del sapiens: è la tecnica della convalida e della verifica di ogni singola affermazione la sola che ci permette di dire che questo, certamente, è (vero). Una prassi della verità che Ferraris non affida solo all’ontologia di “ciò che indiscutibilmente è” o alla sola epistemologia di “ciò che sappiamo essere”. Ma un fare “tecnico”, paziente e razionale, che sia capace di proteggerci dalla dittatura delle Verità assolute e dalla tentazione di concepire la nostra come un’assoluta (e individuale) verità.
IL LIBRO
Postverità e altri enigmi
( Il Mulino, pagg. 181 euro 13)