Repubblica 8.11.17
“Quando”, il libro di Walter Veltroni racconta il risveglio di un ex ragazzo di sinistra dopo 33 anni di coma
Amarcord al buio dal mito Berlinguer ai sogni fragili di oggi
di Ezio Mauro
Il
contrario della nostalgia, che guarda al passato, è vivere il presente
come futuro, scoprendolo ogni giorno nella crescita continua che nasce
dalla realtà del contemporaneo, con le sue seduzioni e le sue paure. Ma
cos’è mai la contemporaneità per un ragazzo che cade in coma a vent’anni
nel 1984 e si sveglia uomo fatto di mezza età oggi, tre decenni dopo, a
53 anni? Quando si guarda allo specchio gli sembra di vedere suo padre,
non se stesso, con i
primi capelli bianchi e una coscienza di sé
rimasta indietro, dopo aver attraversato un tempo infinito riempito da
farmaci e abitato da un sogno sempre uguale, una soffitta polverosa ma
sterminata piena di ricordi senza un ordine, attraversata talvolta dalle
voci confuse dei genitori che lo chiamano da lontano, tra qualche luce
che spiove.
Intanto il mondo faceva un giro, o forse non aveva mai
girato così tanto: può dirlo solo chi viene dal passato e apre gli
occhi di colpo sullo sbalordimento del nuovo, una mutazione a cui non
era preparato né nel corpo né nell’anima, mentre la mente dormiva e il
cuore non poteva sapere dov’era, accontentandosi miracolosamente di
battere a vuoto. Per Giovanni — che si scopre solo, senza niente,
neonato a cinquant’anni con tutte le funzioni vitali a posto ma
sconosciuto a se stesso — il risveglio sarà insieme una rivelazione
continua del nuovo mondo cui si è affacciato e un tenace inventario
dell’universo perduto. Qualcosa di eccitante e stravolgente, senza un
punto fermo, perché le novità sono aliene come una lingua sconosciuta e i
ricordi sono soltanto individuali, quasi intimi, non avendo più un
mercato comune.
Convinto com’è che i sentimenti (in un’epoca di
risentimento dominante) siano una cifra dimenticata ma indispensabile
del vivere insieme, capaci con la memoria e con un orizzonte di valori
comuni di dare un senso ad una comunità culturale, politica, sociale,
Walter Veltroni nel suo ultimo romanzo ( Quando, edito da Rizzoli)
costruisce un paesaggio fatto solo di questo, comprimendo il tempo per
attraversare tre decenni e soprattutto un cambio d’epoca con un
testimone addormentato, seguito nel rendiconto stralunato del suo
risveglio. Lo popola di riferimenti veltroniani: Roma sopra tutto, dal
villaggio Olimpico a San Saba, ai cinema che non ci sono più, alle
Botteghe Oscure diventate chissà che cosa, al “Biondo Tevere” che è il
posto dell’ultima cena di Pasolini. Poi la musica di Morricone, La
terrazza di Scola, il “Ciao” arancione dei quindici anni, senza casco e
con poca miscela, la “Taunus” del padre, i libri di Calvino, una
fidanzata con la gonna lunga e senza reggiseno che si chiama Flavia, la
maglia giallorossa di Valigi, Cara di Lucio Dalla: «Cosa ho davanti, non
riesco più a parlare/ Dimmi cosa ti piace, non riesco a capire».
Infine, e prima di tutto, la mitologia di Berlinguer, l’unica coltivata
fuori dal tempo e persino oltre la politica.
È ai funerali di
Berlinguer che il ragazzo Giovanni crolla a terra, colpito alla tempia
dal legno di uno striscione gigantesco, mentre teneva per mano Flavia e
Nilde Jotti stava cominciando a parlare sul palco, il 13 giugno del
1984. Per trent’anni i genitori vanno a trovarlo in ospedale ogni
pomeriggio, gli parlano, gli fanno gli auguri al compleanno e a Natale,
aspettano con lui la mezzanotte di ogni 31 dicembre. Poi il padre di
Giovanni muore, la madre perde il senno e la memoria, Flavia dirada le
visite finché scompare, lui rimane solo e inerte con l’infermiere che lo
lava ogni mattina e suor Giulia che gli rade la barba e gli taglia i
capelli, la notte gli parla del padre iscritto alla sezione pci Fosco
Fusaglia di Spello, mentre gli fa ascoltare la musica con gli
auricolari, La donna cannone e Bruce Springsteen. È lei la prima che
accorre nel reparto dei senza speranza quando incredibilmente Giovanni
si sveglia nel luglio 2017 cantando L’Internazionale, custodita nella
mente in sonno da quel pomeriggio di giugno in piazza San Giovanni.
C’è
lo stupore di tutti, davanti a quel risveglio dall’impossibile. Ma c’è
soprattutto lo stupore del ragazzo che non sa ancora di essere diventato
uomo, non ha riferimenti, teme di essere finito in manicomio, avverte
la nebbia dei trent’anni nella mente e non sa cosa sia, testa la memoria
con la formazione della Roma nella finale persa di Coppa Campioni:
«Tancredi, Nappi, Bonetti…». Seguono la carrozzella, l’esplorazione
della stanza spoglia, il fisioterapista, il corpo che recupera, il
traguardo dei primi passi, la conquista del terrazzo nel tramonto
romano, quella suora cui si aggrappa moralmente, sfiorandola con la
mano.
Poi c’è la coscienza, con la ricostruzione sentimentale,
culturale, politica, per gradi. Scopre che la sua famiglia non c’è più,
che Flavia si è infine sposata e ha tre figli, che c’è stato il
terrorismo, è nato l’euro, è caduto il muro, è finita l’Urss e si è
sciolto il pci, sono morti i vecchi partiti, Berlusconi ha governato, un
Papa si è dimesso, a New York hanno abbattuto le Torri. Il suo tempo
compresso, incollato dal coma, si riapre e si dilata, in quei buchi lui
si spaurisce e si perde. È l’unico uomo che sente il passato inutile, il
presente sconosciuto, dopo aver attraversato inutilmente tre decenni,
cambiando incoscientemente secolo e millennio. Non sa se è davvero uomo o
è rimasto ragazzo, il corpo è andato avanti per conto suo adeguandosi
al tempo che passava, sopravanzando il sentimento di sé, rattrappito a
quel 1984 e al suo codice di ricordi, per lui contemporanei, per gli
altri fuori uso.
Quello spazio vuoto si anima di meraviglie
improvvise, il cellulare al posto del duplex, i dodici tipi di latte al
supermercato, il telepass e le partite alla play, l’alta velocità e i
social network, mentre si affollano parole sconosciute come sushi,
kebab, vegano. Finché dal buco del tempo affiora la politica, che per
Giovanni è biografia familiare col padre, vocabolario di coppia con
Flavia, memoria generazionale con gli amici. Il big bang di fine
Novecento, svelato di colpo e già diventato storia è l’occasione di un
bilancio postumo, purtroppo individuale, comunque in ritardo. Quando suo
padre e la sua fidanzata discutevano a casa, nel dicembre ’81, sulla
«spinta propulsiva » della rivoluzione d’Ottobre che Berlinguer dichiarò
esaurita (senza però andare oltre nel giudizio), Flavia sosteneva che
il socialismo o è libertà o non è: «E non è stato, perché con la guerra a
Hitler avete giustificato Stalin, l’invasione dell’Ungheria, della
Cecoslovacchia, siete stati coi carrarmati e non con i patrioti». Di
notte, prima di andare a dormire, il padre di Giovanni parlò sottovoce
col figlio: «Sai, credo che lei abbia ragione, ma non posso dirlo». È il
blocco morale e politico che Martin Amis raccoglierà in una formula:
«La verità poteva sempre essere posticipata».
Tutto è stato
inutile, dunque? Per nulla. C’era un posto magico, e Giovanni e Flavia
lo sapevano, all’angolo tra via Cavour e via Giovanni Lanza, dove la
strada curva appena a destra e facendo un salto si poteva misurare giù
nella discesa la forza e l’importanza di un corteo, come quello enorme
per il referendum sul divorzio: oggi è un posto vuoto, nessuno salta
più. Dunque tra le due correnti opposte che agitano Giovanni, quella
scintillante della tecnologia e quella appassita della memoria, c’è
qualche distinguo da fare, non tutto è così semplice e scontato. E
infatti un ragazzo gli dice di non invidiare la potenza della nuova
realtà, perché lui invidia il potere dei suoi vecchi sogni. Solo adesso,
nel consuntivo febbrile del contagio tra presente e passato Giovanni
capi- sce che la democrazia è l’unico viaggio nella libertà, mentre il
comunismo era stagno, palude, con gli ideali traditi in ogni esperienza
storica concreta: ma quella comunità, chiede dopo il risveglio, «si è
dispersa come dopo un terremoto e è rimasta insieme come in rifugio dopo
un bombardamento? ». In realtà la grande casa del pci aveva sentito
arrivare la frana che avrebbe travolto l’Urss, ragiona Giovanni, aveva
avvertito i movimenti della terra e gli scricchiolii, ma pensava che il
crollo l’avrebbe risparmiata, sfiorandola: «Invece i detriti fecero un
deserto, perché la nostra distanza non bastò. Non era la giusta
distanza».
Mentre compie la sua vita, conciliando in un’unica
esperienza le due esistenze che il risveglio ha messo a confronto,
opponendole, Giovanni si accorge che un po’ di coscienza oggi è
delegata, insieme con la memoria, alla meraviglia tecnologica del
computer. Come se — potremmo aggiungere — nel paradiso dell’onnipotenza
informatica la moderna mela che il serpente ci offre fosse quella della
de-responsabilizzazione. Se tutto è già stato rivelato, infatti, se il
mondo è finalmente piatto, allora non è più il caso di fare domande,
basta riscuotere le risposte. Ma proprio qui Veltroni si sovrappone a
Giovanni. Perché c’è qualcosa per cui vale la pena riprendere il
cammino, far passare gli uomini dalla cruna dell’ago di questo
cambiamento che è più complesso di un risveglio, salvando il dubbio e la
capacità di fare domande. Fino all’ultima: quando è finito il partito,
non può essere finita la voglia di cambiare. E allora i compagni da
qualche parte dovranno pur stare, no?