martedì 7 novembre 2017

Repubblica 7.11.17
Norme, ordinanze, divieti: così la nostra giurisprudenza mostra pregiudizi e paure degli italiani
Allarme, siam razzisti anche quando dettiamo legge
di Michele Ainis

Sono razzisti gli italiani? Ed è razzista l’uso della parola “razza” nella Costituzione italiana? Che razza di problema, verrebbe da obiettare. Con tutti i guai che ci cadono sul collo, non è proprio il caso d’impiccarci su questioni lessicali. Eppure i genetisti qualche settimana fa hanno indetto un convegno a Pavia per reclamare l’espulsione di quella parolina, per cancellarla dal nostro testo fondativo. Hanno ragione, dal loro punto di vista. In termini scientifici ci sono razze equine, ci sono razze bovine, ma non esistono razze umane. Bianchi e neri, abbiamo tutti lo stesso dna, siamo tutti figli dell’homo sapiens sapiens.
Perciò quando l’articolo 3 della Costituzione afferma che gli uomini sono uguali «senza distinzione di razza» (oltre che di varie altre condizioni personali), mente. Di più: legittima il razzismo, gli offre un manto costituzionale. O almeno questa è la loro opinione.
Sta di fatto che il razzismo esiste, eccome. Specie in Italia, soprattutto alle nostre latitudini. «Inutile tacerlo, siamo un popolo di razzisti», ha detto recentemente Andrea Camilleri. E del resto basta consultare i dati diffusi a luglio dalla commissione Jo Cox su fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia, e razzismo, istituita dalla Camera. Il 56% degli italiani pensa che un quartiere si degrada quando ci vivono troppi immigrati; il 65% li considera un peso sociale (in Germania è il 21%); il 40% diffida persino delle loro pratiche religiose. Non c’è affatto da stupirsi, dunque, se il 29% della popolazione straniera dichiari d’aver subito qualche forma di discriminazione.
Ma la discriminazione è già nel termine con cui li designiamo: extracomunitari. Significa costruire la loro identità a partire dalla nostra, come se ogni europeo non fosse che un extramericano, o come se un siciliano fosse un extramilanese. Eppure questo razzismo semantico si comunica al nostro stesso ordinamento normativo, giacché nella banca dati delle Leggi d’Italia il termine “extracomunitario” figura in centinaia di documenti. Come d’altronde sono centinaia le ordinanze dei sindaci puntate come lame contro gli immigrati, specialmente dopo l’adozione (nel 2008) del “pacchetto sicurezza”. Così, un comune vieta di tenere riunioni pubbliche in lingue diverse da quella italiana; un altro nega l’erogazione del bonus bebè alle famiglie immigrate; in molte località vigono norme anti-kebab; e via via, proibendo e decretando.
Questo (mal)costume normativo non rimane circoscritto alle ordinanze sindacali. Sale su fino ai regolamenti del governo, alle leggi del Parlamento. E in conclusione alimenta una sorta di “xenofobia istituzionale”, per usare la definizione presente nel bel libro di Luigi Manconi e Federica Resta ( Non sono razzista, ma, Feltrinelli 2017). Ne è prova il progressivo inasprimento delle misure repressive, dalla legge Martelli (1990) alla Turco- Napolitano (1998), dalla Bossi-Fini (2002) all’aggravante di clandestinità (2008): se a rubarmi dentro casa è un clandestino, il suo furto vale doppio, merita un doppio castigo.
Successivamente la Consulta ha annullato quest’imbarazzante invenzione normativa, però rimangono fin troppi buchi neri. Per esempio circa la possibilità che gli stranieri usino la propria lingua d’origine nelle comunicazioni con i nostri uffici pubblici: nessuna tutela, e anzi la legge Maroni (2009) prescrive il superamento d’un test di conoscenza dell’italiano, per ottenere il permesso di soggiorno. Mentre più di recente il decreto Minniti- Orlando (2017) sottrae agli immigrati la duplice garanzia attribuita ai cittadini: per loro, soltanto per loro, via l’udienza davanti al magistrato, via l’appello contro la sentenza che neghi l’asilo. Sicché dinanzi a una causa di sfratto si può impugnare la pronunzia sfavorevole, dinanzi all’esercizio d’un diritto fondamentale (l’asilo) invece no.
Ecco, è al culmine di questo slalom normativo che s’incrocia la legge più alta — la Costituzione — con la sua promessa d’eguaglianza, fra le persone come fra le razze. Sarà pure un errore scientifico, tuttavia l’indicazione della “razza” nell’articolo 3 riflette una verità giuridica, storica, sociale. Meglio lasciarla lì dov’è, e non solo perché i principi fondamentali della Costituzione dovrebbero essere intangibili, non solo perché senza questo baluardo normativo le discriminazioni finirebbero per moltiplicarsi. Quella disposizione, quella parola conservano tutte le loro ragioni, e sotto almeno due profili.
In primo luogo, il linguaggio dei costituenti rispecchia il loro tempo, il loro vissuto collettivo. Siamo tutti uomini situati, diceva Camus. Non per nulla la Costituzione americana del 1787 parla ancora degli indiani. Loro non hanno nessuna intenzione d’emendarla, e fanno bene. Giacché ogni testo costituzionale ha un che di sacro, trasmette una sacralità che deriva anche dall’epoca remota in cui fu scritto. Quanto ai costituenti italiani, c’era in quegli uomini la memoria delle leggi razziali del 1938 — si chiamavano così, a torto o a ragione — e c’era la volontà di dire: mai più. Lo stesso sentimento che li spinse a bandire il fascismo, attraverso la XII disposizione finale. Eppure il fascismo è ormai un fantasma della storia; dovremmo allora sbarazzarci anche di quest’altra citazione? No, faremmo molto male. L’antifascismo, qui e oggi, significa opporsi al dominio degli altri su noi stessi, significa resistere alle nuove forme d’oppressione. Dopotutto, per chi ne subisca l’offesa, anche il razzismo è una forma di fascismo. E gli ebrei ne sanno qualcosa.
In secondo luogo, ogni Costituzione si rivolge a tutti, e perciò parla la lingua di tutti. Se in nome della precisione ospitasse i diversi linguaggi settoriali, diventerebbe un testo incomprensibile per i comuni mortali, senza influenza, senza capacità regolativa. D’altronde il razzismo esiste nel linguaggio comune perché esiste nella vita. Da qui una conclusione e un paradosso: sarebbe razzista cancellare la razza dall’articolo 3, non il contrario. Razzismo inconsapevole.
Già la parola “extracomunitario” è una discriminazione culturale Luigi Manconi la definisce una “xenofobia istituzionale”