Repubblica 7.11.17
Medicina
Il potere terapeutico della relazione
Tempo
per parlarsi e capirsi. Attenzione alla storia individuale del malato.
Dopo la sbornia di tecnologie e burocrazia della sanità di massa, i
dottori riscoprono il valore dell’empatia e del rapporto. A sorpresa:
anche grazie alla genetica
di Andrea Grignolio
OGGI
FACCIAMO fatica a crederlo, ma per secoli la medicina è stata quasi
esclusivamente una questione rituale, un racconto tra paziente e medico,
il quale ha sempre svolto il ruolo chiave di mediatore del dolore e
della malattia. Dal periodo degli sciamani guaritori sino alla seconda
metà dell’Ottocento, ovvero sino all’avvento della farmacologia e della
tecnologia, i medici hanno riposto la loro capacità di cura
sull’alleanza terapeutica con il paziente: un processo fatto di riti,
parole, contatto visivo e soprattutto basato sulla fiducia e sulla
speranza ispirate dal medico. Oggi sappiamo, grazie agli studi di
Fabrizio Benedetti (professore presso il dipartimento di neuroscienze
Rita Levi Montalcini dell’università di Torino), che tutto ciò è dovuto
alla presenza di meccanismi cerebrali che sono alla base dell’effetto
placebo. È il fenomeno dell’autosuggestione che in una persona in attesa
di una cura è in grado di mettere in circolo una serie di farmaci
naturali, prodotti dal nostro sistema neuroendocrino, come serotonine,
endorfine ed endocannabinoidi, capaci di diminuire il dolore - e quindi
l’uso di antidolorifici e favorire il processo terapeutico.
Insomma,
al di là di una questione etica, è bene che il medico sia empatico, che
parli col suo paziente capendone i disagi oltre che le malattie, che si
metta in relazione con lei o lui, perché in molti casi così cura meglio
e più rapidamente: anche per questo si sta cercando, anche in Italia,
di stabilire delle procedure standard per migliorare l’alleanza
terapeutica. A questo scopo, ad esempio, da diversi anni si stanno
inserendo nei curricula medici le medical humanities, discipline come il
teatro, la pedagogia e la bioetica, nel tentativo di riumanizzare la
professione medica, che da parte sua, e non ha torto, lamenta turni di
lavoro eccessivi e un aumento vertiginoso del contenzioso legale con i
pazienti che, a loro volta, sono spesso preda di truppe di avvocati che
alimentano il mercato della malasanità. Basti pensare, ad esempio, al
fenomeno inaccettabile delle cause di risarcimento basate sulla
relazione autismo-vaccini. Anche in questo caso, il dialogo e
un’attenzione all’individualità del paziente sembrano essere una
panacea: diversi studi, infatti, confermano che aumentando di pochi
minuti il tempo di visita medio negli ambulatori - che ora è
inaccettabilmente fissato sui 15 minuti al massimo - il numero di cause
di risarcimento contro i medici cala sensibilmente, segno di un
ritrovato rapporto fiduciario, anche in caso di presunto errore.
È
questa in fondo anche la direzione verso cui ci sta portando la
medicina personalizzata, basata sulla genomica. Essa ci ricorda che
molti pazienti assumono farmaci senza trarne benefici perché la
variazione di alcune lettere nel loro Dna comporta una diversa e
personale risposta ai trattamenti, come confermato dalla rivista
Science, da cui emerge che negli Usa solo uno su quattro dei dieci
farmaci più usati nel paese sono efficaci per chi li assume.
E non
è tutto: la medicina personalizzata e di precisione ci indica anche con
sempre maggior affidabilità la nostra predisposizione alle malattie. Si
pensi al caso di una paziente che, a causa di una diffusa familiarità
con il tumore al seno e/o all’ovaio, scopre di avere i geni Brca 1 e 2
mutati. Mai come in questo caso avrebbe più bisogno di un ampio e
prolungato dialogo con il medico, o meglio, i medici: dal genetista
all’oncologo, dal chirurgo allo psicologo, per decidere se fare un
percorso di continui controlli o affrontare la chirurgia preventiva.
Dunque, il massimo avanzamento della medicina, la genomica
personalizzata, e il più antico degli strumenti terapeutici, il
fiducioso dialogo medico-paziente.
Che la cura debba passare anche
attraverso il racconto di storie è d’altronde un concetto che è
all’origine stessa del pensiero medico. Nello stesso periodo nell’antica
Grecia nacquero la medici- na, grazie a Ippocrate, e la storia, grazie a
Erodoto, due discipline che si costruirono attorno a una nozione comune
historìa che veniva dal linguaggio medico e indicava l’atto di
esaminare e mettere insieme casi e situazioni diverse per tentare di
individuare le cause naturali comuni.
Quando il grande storico
Tucidide descrisse la peste di Atene del 430 a.C., ricordò ai suoi
lettori che lo faceva nella speranza «che, se un giorno dovesse di nuovo
tornare a infierire, ognuno che stia attento, conoscendone prima le
caratteristiche, abbia modo di sapere di che si tratta». Stiamo dunque
“attenti”, evitiamo di far tornare la medicina dei secoli bui,
rimettiamo al centro l’ascolto dei pazienti e le loro storie. Tra
l’altro, è l’unico modo per sottrarli ai ciarlatani dei trattamenti
alternativi, che di metodo scientifico non ci capiscono nulla, ma che
sulle esigenze di dialogo dei pazienti la sanno lunga, visto che
offrendo in media un’ora di visita, le loro schiere di pazienti
aumentano di anno in anno.
Storia della Medicina, La Sapienza università di Roma