lunedì 6 novembre 2017

Repubblica 6.11.17
Un volume dell’università di Cambridge affronta il tema dei rapporti tra la magistratura e gli altri poteri. Spiegando come possano convivere
Se la storia assolve il processo politico
di Benedetta Tobagi

Nelson Mandela trasformò un’aula di tribunale in un campo di battaglia contro l’apartheid
Norimberga, i diritti civili, Microsoft: alcuni dibattimenti hanno dato vita a nuovi ordinamenti

«È un processo politico!». Quante volte abbiamo sentito un imputato gridarlo, per delegittimare il giudizio in cui è coinvolto? Ben prima che Berlusconi ci costruisse sopra la sua grande narrazione, era stato il bancarottiere mafioso Sindona, confortato da illustri sodali iscritti alla P2, a proclamarsi vittima di una persecuzione giudiziaria. L’argomento è stato usato in abbondanza a destra e a sinistra per delegittimare i processi su stragi e terrorismo, da piazza Fontana al “7 aprile”.
Sebbene in Italia sia diventato quasi un genere letterario, non è solo un vizio nostrano. «Tornerò se avrò un processo giusto», ha dichiarato nei giorni scorsi il secessionista catalano Puigdemont dal Belgio. Dalla colossale Tangentopoli brasiliana ai grandi casi mediatici statunitensi come quello contro O.J. Simpson, oggetto di una pluripremiata serie tv recentemente trasmessa anche in Italia, si grida al processo politico spesso e volentieri, ma il più delle volte a vanvera.
Il concetto, in realtà, andrebbe preso sul serio, e ha una storia lunga e appassionante. Basti ricordare il saggio del ’68 Strategia del processo
politico, con cui l’avvocato francese Jacques Vergès, difensore dei combattenti per l’indipendenza d’Algeria prima, di alcuni tra i più efferati dittatori africani poi, formalizzò le tecniche del cosiddetto “processo di rottura” per sabotare la “giustizia borghese” dall’interno, a partire dal modello del processo a Gesù. Ttecniche cui si sarebbero ispirate le Brigate Rosse e la banda Baader-Meinhof. Oltre le angustie dell’invettiva, poi, nel Paese in cui un intero sistema politico è collassato sotto i colpi delle inchieste per corruzione - e le “verità di Stato” vengono non di rado a coincidere con il racconto dei “pentiti” (come spiega Salvatore Lupo in un magistrale libretto sul processo Andreotti) - i nessi e le reciproche interferenze tra potere esecutivo e giudiziario sono un tema di particolare urgenza, ma ancora tutto da esplorare.
Un viatico prezioso si trova nel recente volume della Cambridge University Press, Political Trials in Theory and History, una raccolta di quindici saggi a cura degli storici Devin Pendas e Jens Meierheinrich, ad oggi la più accurata ricognizione della nozione di processo politico sia sotto il profilo teorico che storiografico, come recita il titolo. Si tratta di una cavalcata attraverso i secoli tra storia e diritto, da Socrate e Gesù Cristo al processo Microsoft, nel segno della multidisciplinarietà e di un “salutare scetticismo”, come dichiarano programmaticamente gli autori. Il merito principale del libro è quello di smarcare il concetto dalla connotazione solo negativa che ha nel discorso pubblico, adottando uno sguardo laico per capire come e perché un processo possa avere significati e implicazioni politiche, nel bene o nel male.
Anziché concentrarsi sulle giurisdizioni speciali, come il Tribunale per la difesa dello stato fascista o i famigerati processi staliniani degli anni Trenta (tema circoscritto al capitolo sui processi del Terrore postrivoluzionario in Francia), i curatori tematizzano le dimensioni politiche della giustizia in regime di stato di diritto, nel contesto di marcata “giudiziarizzazione” della politica (dalla smodata proliferazione di reati in risposta alle emergenze mediatiche all’affidamento degli standard etici per la politica alle aule dei tribunali) caratteristica del mondo contemporaneo.
Un “giusto processo” in contesti democratici e costituzionali, infatti, può essere strumentalizzato in molti modi: una consapevolezza maturata attraverso annose battaglie contro la pretesa apoliticità della giustizia (in cui nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta ebbe tanta parte Magistratura democratica) e ormai alleggerita dalle connotazioni marxiste delle origini. Particolarmente interessante, oggi, studiare i regimi democratici nella forma ma non nella sostanza, come la Russia. Una brillante analisi dell’affaire Yukos, il processo per frode fiscale del 2003 contro Khodorkovsky, illustra sia la cosiddetta telephone law, ossia la capacità del regime putiniano di influenzare gli esiti giudiziari attraverso canali informali e indiretti, sia le patologie del sistema economico postsovietico. «Tutto ciò di cui mi accusano sono normali business practice » , si difendeva l’oligarca: discorso affine allo storico atto d’accusa mosso da Craxi in Parlamento ai tempi di Mani Pulite.
Non è politico solo il processo diretto ad abbattere un avversario (quello, cioè, che i curatori definiscono un processo distruttivo), oppure a stabilizzare lo status quo. Il
lawfare - efficace neologismo in uso dal 2001 per i casi in cui si dà battaglia attraverso il diritto - ha molte facce, anche positive. Lo sapevano bene gli attivisti per i diritti civili di cui tratta il capitolo sulla storica decisione della Corte Suprema degli Usa nel caso Brown contro il ministero dell’Istruzione che nel maggio 1954 giudicò incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Si tratta, in questi casi, di processi politici didattici, in cui l’aula diventa il palcoscenico per una battaglia delle idee. Spesso grazie al talento di un accusato che riesce a cambiare di segno un processo distruttivo, come fece Nelson Mandela nel celebre processo di Rivonia del 1964: avvocato e imputato al tempo stesso, con una performance memorabile impose l’apartheid all’attenzione del mondo.
Grande interesse, infine, riveste la terza categoria individuata da Pendas e Meierheinrich, quella dei processi politici decisivi, in cui, cioè, attraverso un contenzioso specifico, si dibattono questioni che hanno significato e rilevanza molto più ampia. È stato il caso dei grandi processi contro i crimini di guerra dal 1945 in poi, Norimberga in primis. Appassionante la ricostruzione del ruolo dei sovietici nella sua preparazione, in particolare il racconto del modo in cui l’emissario di Stalin, Rudenko, si adoperò affinché nell’atto di accusa contro i nazisti – un documento con cui i protagonisti erano consapevoli di scrivere la prima storia del conflitto – fosse stemperato il peso del patto Ribbentrop- Molotov, che garantì alla Germania il non intervento dell’Urss in cambio della spartizione della Polonia.
Più di recente, è analizzato in questa chiave il processo del 1998 che vide Microsoft accusata di abuso di posizione dominante, concorrenza sleale e monopolio, in cui lo scontro tra il “monopolista canaglia” Gates e le lobby rivali ha fatto esplodere il conflitto tra politiche antitrust e ideologia del libero mercato che giace al cuore dell’economia statunitense: un ottimo esempio di come studiare in questa chiave processi celebri aiuti ad analizzare le grandi tensioni sotterranee che percorrono i nostri tempi.