Repubblica 6.11.17
I nostri bambini malati immaginari?
Se la vivacità diventa un disturbo
Boom
di certificati per deficit dell’attenzione, spesso però si tratta solo
di bambini immaturi La maestra: “Ci troviamo di fronte a ragazzini a cui
in casa non viene richiesta alcuna regola”
Daniele Novara, 60
anni, piacentino, è uno dei più noti pedagogisti italiani. Nel 1989
fonda il Cpp - Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei
conflitti di cui è direttore. Il suo ultimo libro si intitola “Non è
colpa dei bambini” (Bur)
Le diagnosi quintuplicate in sei anni. Ma il pedagogista Novara nega che i problemi di apprendimento siano una patologia
di Maria Novella De Luca
ROMA.
Non sanno più leggere. Non sanno più fare i conti. Non sanno più stare
seduti nei banchi. Parlano male, quindi hanno bisogno della logopedia.
Non sono distratti ma affetti, così si dice oggi, dal “disturbo
dell’attenzione”. Non più vivaci, discoli, irrequieti, insofferenti,
bensì “iperattivi”.
Chi sono? I nostri figli. Generazione Z. Così
almeno li definiscono le statistiche. Colpiti sembra da una epidemia di
“mal di scuola” collettivo, almeno a giudicare dalla valanga di
certificazioni di disturbi di apprendimento che dilaga nelle classi di
ogni ordine e tipo.
Ma è davvero così? Assolutamente no, fermi
tutti, il meccanismo si è inceppato, dice con una tesi forte,
provocatoria, Daniele Novara, pedagogista controcorrente, famoso per i
suoi affollatissimi incontri dedicati agli adulti chiamati “Scuola
genitori” e fondatore del Centro Psicopedagogico per la gestione dei
conflitti. «Gran parte di quei disturbi sono in realtà difficoltà
naturali della crescita, c’è chi impara prima e chi dopo, ma il punto è
che la scuola non aspetta più e ormai stiamo sostituendo la psichiatria
all’educazione, perché è più facile definire malato un bambino anziché
ammettere che non sappiamo educarlo ».
Del resto, basta guardare i
numeri delle famose diagnosi di dislessia, discalculia, deficit
dell’attenzione e tutte le altre sigle che a scuola vogliono dire fatica
e difficoltà: sono passate dallo 0,7% della popolazione scolastica nel
2010 al 3,6% del 2016. «Ma anche i numeri delle disabilità più gravi
sono in aumento. Alcune giuste, vere, ma quanti ragazzini definiti
“adhd”, ossia con il disturbo dell’iperattività, addirittura trattati
con i farmaci, sono invece soltanto immaturi?». E dunque per “curarli”
basterebbe una pedagogia diversa e magari il ritorno dei genitori «al
loro ruolo di educatori», perché l’educazione, così scrive Novara nel
suo nuovo libro “Non è colpa dei bambini”, «crede nelle potenzialità,
guarda al bicchiere mezzo pieno, è essa stessa una terapia». Insomma non
diagnosi ma parole, integrazione, famiglia. E una scuola che aspetta i
più lenti, accoglie i più vivaci, sostiene i più deboli, senza
“etichette”, con un pensiero, quello di Novara, che ricorda Maria
Montessori.
«Vi sembra normale che in una sola classe di venti
bambini ci siano, magari, cinque certificazioni tra dislessia,
disgrafia, più altri cinque bambini Bes, cioè con bisogni educativi
speciali? Metà degli alunni dunque in qualche modo “diversi” rispetto ad
una presunta normalità. Impossibile. La verità, come vedo ogni giorno
negli incontri con genitori e figli smarriti, è che si tratta di
difficoltà, di immaturità, di percorsi di crescita magari più lenti, ma
assolutamente non di disturbi psichiatrici». Anzi, per Daniele Novara,
«gli studenti di oggi non sono peggiori o più difficili di quelli di
ieri, per certi versi sono più avanti, ma alla prima difficoltà gli
insegnanti li spediscono alla Asl, la società li medicalizza, li
etichetta, usa farmaci, insomma la neuropsichiatria ha sostituito la
pedagogia e l’educazione ». Un atto di accusa forte e netto che
naturalmente divide. Anche perché, invece, da molti genitori di bambini
con difficoltà le diagnosi e le certificazioni sono viste finalmente
come un’ancora a cui aggrapparsi.
Francesca Mossa fa la maestra da
30 anni e il suo lavoro continua ad amarlo. «Quello che dice Daniele
Novara è vero: nella mia classe ci sono 24 bambini e circa la metà ha
certificazioni diverse. Alcune sono esatte, altre forse no, anzi
strumentali. Ma il vero problema per un insegnante è tenere insieme
queste infinite diversità, non lasciare indietro nessuno, in un sistema
dove i tagli alla scuola sono quotidiani e anche i rapporti con le
famiglie difficili. Non è vero che abbiamo abdicato al nostro compito
educativo, è che siamo soli».
Una vera sfida. «Provate ad imporre
ai bambini di alzare la mano prima di parlare — dice Francesca Mossa — ,
di essere rispettosi con gli insegnanti e i compagni di classe: le
famiglie vi accuseranno di severità, come è successo a me. Noi ci
troviamo di fronte a ragazzini a cui in casa non viene richiesta alcuna
regola, imbottiti da ore di videogiochi, con genitori amorosi e vicini
ma spesso fragili e soprattutto pronti a negare le difficoltà dei propri
figli... ».
Sergio Messina, neuropsichiatra infantile, è il
presidente dell’Aid, Associazione Italiana Dislessia. «Il problema non è
l’abuso di diagnosi, anzi i nostri numeri sono anche più bassi rispetto
ad altri Paesi, il problema sono le diagnosi sbagliate, i falsi
positivi. In realtà per molti bambini avere una certificazione e poter
contare su una didattica specifica ha rappresentato la salvezza. Ma ci
vogliono protocolli e una pedagogia che non separi. Spesso gli strumenti
utilizzati per i “Dsa” potrebbero essere utili per l’intera classe,
senza creare alunni di serie A e di serie B. Questa è la didattica
inclusiva ».