Repubblica 4.11.17
Le intercettazioni in cattedra
di Tomaso Montanari
PER
avere un’opinione sul divieto di pubblicare le notizie «non essenziali»
contenute nelle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria
bisogna intendersi su ciò che, qui e oggi, è davvero “essenziale”.
Ferma
restando l’avversione ad ogni arbitraria gogna mediatica e la necessità
di non assecondare voyeurismi morbosi, sembra davvero impossibile
stabilire cosa sia o non sia essenziale senza rammentare che siamo il
terzo paese più corrotto d’Europa (peggio di noi solo Grecia e
Bulgaria), e che (sempre secondo gli ultimi dati di Transparency Italia)
la società civile e i media italiani hanno un punteggio di 42 su 100
nella stima della loro efficacia come mezzi di superamento della cultura
della corruzione.
In altre parole, se vogliamo cambiare abbiamo
un enorme bisogno di un discorso pubblico capace di rappresentare la
corruzione per quello che è: senza sconti, senza belletti, senza
censure. Abbiamo bisogno di raccontarci per come siamo: con crudo
realismo. E per far questo poche cose sono efficaci come le
conversazioni private di chi dice la verità perché è convinto che
nessuno lo ascolti. Ebbene, le intercettazioni telefoniche che arrivano
ai giornali e alle televisioni rappresentano i casi rarissimi in cui il
libero, franco, cinico discorso privato irrompe nel contesto
controllato, edulcorato e in ultima analisi falso, del discorso
pubblico. E il risultato è spesso uno choc estremo: un salutare schiaffo
collettivo.
Prendiamo il caso dell’università italiana.
L’università dovrebbe essere il tempio del pensiero critico,
innanzitutto del pensiero critico su se stessa.
Invece, da molti
anni, le nostre università stanno reprimendo il loro dissenso interno,
trasformandosi in scuole di conformismo. Citiamo — tra i tanti possibili
— il codice etico della più antica università d’Italia (e del mondo
occidentale), l’alma
mater studiorum di Bologna. Il suo articolo
19, sulla «autonomia e libertà di critica», recita così: «L’Università
promuove un contesto favorevole alle occasioni di confronto e riconosce
le libertà di pensiero, di opinione ed espressione, anche in forma
critica, al fine di garantire la piena esplicazione della persona, fatti
salvi i limiti previsti dall’articolo 15 del presente Codice». Ma a
cosa mai si riferirà questo articolo 15 che limita la libertà di
critica, e cioè la stessa ragione di essere di un’università? Ecco a che
cosa: alla «tutela del nome e dell’immagine dell’Università». In molti
altri casi, i codici etici universitari esplicitano il fatto che anche
per ricercatori e professori vale il Codice di comportamento dei
pubblici dipendenti, il quale stabilisce (art. 13, comma 2) che «salvo
il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela
dei diritti sindacali, il dipendente si astiene da dichiarazioni
pubbliche offensive nei confronti dell’amministrazione ». Il risultato è
stato ampiamente raggiunto, purtroppo, perché il dissenso interno del
mondo universitario (liquidato come un’offesa) è ormai rarefatto,
sconfitto, irrilevante. E così non è cresciuto un pensiero critico
radicale sulla deriva morale di troppa parte del sistema accademico.
E
finisce che a dire la verità sia uno dei professori coinvolti nella
pazzesca vicenda dei concorsi truccati di diritto tributario, il quale
viene registrato mentre scandisce: «La logica universitaria è questa… è
un mondo di merda… è un mondo di merda… quindi purtroppo è un do ut
des». E ancora: «Qui non c’è nessun merito, ognuno ha i suoi...». E un
collega: «Con che criterio sei stato escluso dal concorso? Col vile
criterio del commercio dei posti …Non è che tu non sei idoneo, è che non
rientri nel patto del mutuando». È eloquente che l’avvocato di uno
degli indagati non abbia trovato niente di meglio da dichiarare se non
che l’«integrità » del suo assistito sarebbe «testimoniata da una
limpida e unanimemente apprezzata carriera accademica». L’unanimità
omertosa viene invocata per esorcizzare i fatti emersi dal velo
squarciato. Ora, chi ama l’università italiana e ne conosce la gran
quantità di professori onesti e del tutto dediti alla conoscenza e agli
studenti non può che gioire di questa rottura drammatica della famosa
«immagine dell’università». Perché è evidente che la vera tutela
dell’università, un suo riscatto, non può che passare attraverso un
trauma come questo: nessuna analisi, nessuna statistica, nessuna
denuncia potrebbe mai avere la forza icastica delle parole che abbiamo
letto in quelle intercettazioni.
In questo, come in moltissimi
altri casi, la necessaria rivoluzione culturale, quella che sola può
cambiare i connotati di questo Paese, non può che essere innescata dalla
capacità di dirci le cose come stanno, fino in fondo. È in que