Repubblica 4.11.17
Giuda
Il figlio ribelle che tradì le leggi del Padre
di Massimo Recalcati
Nel
suo romanzo più conosciuto e fortunato, intitolato “Il male oscuro”,
pubblicato nel 1964, Giuseppe Berto (1914-1978), scrittore scomodo e
scontroso, pone al centro della scena di quella sorta di tormentata
autobiografia psicoanalitica, come si legge sin dalle prime righe, la
sua «lunga lotta con il padre». Un padre esigente e padronale,
espressione di una Legge sacrificale e inflessibile, schiaccia il figlio
sotto il peso di una colpa antica, quella di non aver mai corrisposto
alle sue attese, di essere stato una delusione cocente. Questa colpa è
destinata a dilatarsi smisuratamente quando il figlio, diventato ormai
un uomo adulto, abbandona il padre
ammalato di un tumore allo
stomaco («tremenda montagna di morte»), in preda ad atroci dolori che lo
condurranno nel regno dei morti. Ed è proprio da questa drammatica
scena di tradimento che sembra ricominciare l’ultima opera di Berto,
pubblicata nel 1978, l’anno della sua morte. Si tratta de La gloria,
appena riproposta ai lettori da Neri Pozza. Al centro una rilettura
visionaria della figura di Giuda, il discepolo che tradisce Gesù — il
suo Rabbi — consegnandolo al supplizio della croce.
Come non
vedere qui dipanarsi una prima identificazione? Berto è Giuda, il figlio
che tradisce. Non è forse Giuda il figlio che anziché accompagnare il
maestro al suo destino cruento lo abbandona cospirando per la sua morte?
Giuda guarda Gesù con sospetto. Il dubbio lo attanaglia, lo frusta: è
davvero il figlio di Dio o è solamente un orribile mentitore? La
promessa della vita eterna è una
Il protagonista è dilaniato dall’amore-odio verso Gesù
grazia autentica o una impostura?
Il
Giuda di Berto, come il protagonista del Male oscuro, è una figura
umanissima del tormento. Innanzitutto il suo dubbio inquieto corrode il
mistero della fede: non esiste fede capace di fare esistere una Verità
assoluta, priva di incertezze e tentennamenti. «Dove è l’Eterno, c’è
davvero un Eterno o c’è solo un infinito vuoto?... L’Eterno non poteva
insistere che nel suo smisurato silenzio… Dov’era la presenza
dell’Eterno?». Ma il suo tormento dubbioso incenerisce soprattutto il
rapporto che unisce il figlio al padre. Chi è un padre? Cos’è un padre?
Qual è la verità della Legge del padre? Ecco la domanda che dal Male
oscuro discende martellante sino a La gloria. Nello sguardo di ogni
bambino, come scriveva freudianamente Berto nell’opera del ‘64, «il
padre era stato una divinità onnipotente e lontana e in seguito diviene
un poveraccio che mi rompeva l’anima con le sue pretese». Nell’ultimo
romanzo questo disincanto ritorna intatto attraverso Giuda travolgendo
la figura di Gesù.
Anche Giuda, come il bambino che giocava
teneramente sulle gambe del suo adorato papà, viene in un primo tempo
catturato dal carisma di Gesù: «Aveva qualcosa che partiva più lontano
di lui e arrivava più lontano di noi», pensa. La devozione del discepolo
maledetto a Cristo è una prima faccia — quella idealizzante e non
ostile — del complesso edipico che anima l’amore infantile per il padre:
«M’ero offerto di morire per Te, in qualsiasi momento Tu me l’avessi
chiesto avrei mantenuto, spesso sognavo che me lo chiedessi all’istante
per provarTi la mia dedizione…».
Eppure — ed ecco apparire la
seconda faccia, quella negativa, della medaglia — Giuda non resiste al
tarlo del dubbio. E se fosse un narcisista, qualcuno che pensa più alla
propria luce che a quella del mondo? Se i suoi prodigi non fossero altro
che trucchi? Agli occhi di questo Giuda dilaniato anche la resurrezione
di Lazzaro «fu una ponderata, fredda, scenografica ciurmeria». Se,
dunque, Gesù non rilascia quei segni che il discepolo ricerca
ansiosamente, i quali scongiurerebbero il terrore della vacuità del
mondo, se — come accade al più contemporaneo ma non meno tragico Young
Pope di Sorrentino — la domanda «dov’è Dio, dov’è l’Eterno?» resta senza
risposta, allora meglio morire che vivere. È l’identificazione finale e
perturbante non più tra Berto e Giuda, ma tra Giuda e Gesù: il figlio
della perdizione, il figlio colpevole, non è affatto diverso dal padre.
«Morimmo alla stessa ora, Tu crocifisso sul Golgota, io poco lontano,
impiccandomi, dicono, ad un albero di fico ». Non la luce di Gesù, il
salvatore, contrapposta alle tenebre di Giuda, il traditore. Piuttosto
una convergenza abissale, una comunione disperata tra i due. È la
scoperta traumatica di Berto scrittore e uomo: il Nome del padre
contiene un destino. I figli sono più simili a quel “peggio” che tendono
ad attribuire ai padri. Come quando nelle pagine finali del Male
oscuro, il figlio, ormai anziano, separato dalla moglie e lontano da sua
figlia, senza più nessuno al suo fianco, si accorge di assomigliare nel
corpo e nello spirito al padre odiato.
Una mimesi che ritroviamo
anche nel finale de La gloria che non a caso è il finale, dal carattere
fatalmente testamentario, di tutta la produzione letteraria di Berto e
della sua stessa vita. Il connubio impensabile di Gesù e Giuda riflette
un tratto comune. Quale? Essi vogliono solo morire. Anche Gesù, come il
bambino del Male oscuro disperato nella solitudine del Collegio, invoca
la risposta salvifica del padre imbattendosi in un muro sordo al suo
lamento. È questo il limite (ma anche la forza scabrosa) nella quale la
narrazione del Vangelo di Berto resta prigioniera: riportare Gesù a
Giuda significa non riuscire ad accedere all’idea che la Legge del padre
non è fatta per assoggettare sadicamente l’uomo, ma per liberarlo;
significa non riuscire a sottrarsi all’ombra spessa della melanconia del
figlio a sua volta abbandonato che, secondo il suo Giuda, non a caso,
affligge da sempre, come un punto interrogativo, lo sguardo di Gesù.
L’OSSESSIONE Come nella sua opera più celebre, “Il male oscuro”, è in gioco il legame con una personalità maschile dominante
IL LIBRO La gloria di Giuseppe Berto ( Neri Pozza, pagg. 199, euro 16) Sopra, Cimabue: Il bacio di Giuda