il manifesto 4.11.17
Toni Negri: «Il nuovo Palazzo d’inverno sono le banche centrali»
Esclusiva. Intervista con Toni Negri in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro "Assembly" scritto con Michael Hardt
A
cento anni dalla rivoluzione sovietica, a cinquanta dal Sessantotto,
uno dei filosofi più discussi al mondo propone una politica oltre i
populismi
di Roberto Ciccarelli
Quando ci sediamo
a un lungo tavolo del suo appartamento a Parigi Toni Negri, 84 anni, ha
in mano appunti fitti, lo sguardo teso, l’aria esigente. L’influenza
che lo ha assillato dal ritorno da un viaggio in Brasile dove ha
presentato Assembly, da poco pubblicato in inglese per Oxford University
Press – quarta parte della ricerca comune scritta con il filosofo
americano Michael Hardt dopo Impero, Moltitudine e Comune – lo rende
impaziente:
«Non riesco a lavorare come vorrei» dice. Filosofo
discusso a livello mondiale, ora sta lavorando alla seconda parte
dell’autobiografia – la prima ha un titolo emblematico: Storia di un
comunista.
E già progetta un nuovo volume a quattro mani con
Hardt. Desiderio spinozista, pratica marxista, con Negri non è tempo di
ricordi, ci si ritrova a parlare dall’interno di una tendenza.
A
una parola come «rivoluzione» oggi sembrano credere solo gli spin-doctor
pagati per confezionare un programma per le elezioni. Per lei che ha
creduto intensamente a una rivoluzione, fino al punto da cambiare
radicalmente la sua esistenza, cosa significa questa parola?
Per
me significa che la rivoluzione non la si fa, ma ti fa. Bisogna
smetterla di mitologizzarla: la rivoluzione è vivere, costruire
continuamente momenti di novità e di rottura. La rivoluzione è
un’ontologia, non un evento. Non si incarna in un nome: Gesù Cristo,
Lenin, Robespierre o Saint Just.
La rivoluzione è lo sviluppo
delle forze produttive, dei modi di vita del comune, lo sviluppo
dell’intelligenza collettiva. Non ho mai pensato di fare la rivoluzione e
di andare al potere il giorno dopo.
Quando ero giovane ho pensato
che il comitato operaio di Marghera avrebbe organizzato la società
attorno al consiglio operaio e ai suoi ideali a partire dalla fabbrica.
Allora, negli anni Settanta. Oggi è molto diverso, esiste un altro modo
di produzione: si può organizzare la società a partire dal reddito di
base, dalle nuove figure del lavoro, da nuove scuole e forme
associative, da nuovi loisirs, uscendo dalla noia e dalla disperazione
in cui viviamo.
Non ho mai pensato che la rivoluzione sia qualcosa
che ti porta al potere, ma che cambia il potere. Significa prendere il
potere in maniera differente.
È una differenza fondamentale: non
vuol dire prenderlo dall’alto, ma dal basso. La rivoluzione c’è quando
si è capaci di dimostrare che il comune emerge dal modo di produzione
che investe la vita. È il bambino ad avere oggi il forcipe nelle mani,
non l’ostetrico della storia.
Rispetto al linguaggio, e
all’immaginario, corrente il suo approccio è sempre stato, a dir poco,
discordante. A essere gentili, di solito, le viene risposto che è
ottimista, utopista, visionario. A sinistra c’è sempre quell’aria cupa,
realista, impegnata nello sforzo volontaristico a unirsi o
nell’evocazione di soggetti che mancano. Come si trova in questo
orizzonte?
Le posso rispondere con un episodio, molto pratico.
Pochi giorni fa Michael ha presentato Assembly a Londra. Ha incontrato
«Momentum», la rete di base che appoggia il Labour e Corbyn. Quello che è
impressionante è l’incontro tra i giovani e i vecchi corbyniani,
persone che hanno fatto il Sessantotto e le lotte degli anni Settanta e
oggi sono trascinati dall’entusiasmo dei giovani che hanno fatto le
lotte alter-mondialiste e quelle di Occupy, le ultime lotte di questa
generazione. Manca tutta la gente tra i 35 e 60 anni, la generazione
blairiana. Ecco dove si forma la nuova sinistra e con queste realtà oggi
ci ritroviamo e superiamo i vecchi incastri con la cultura
socialdemocratica.
Nel libro descrivete la straordinaria, e
drammatica, emersione del movimento americano Black Lives Matters. In
che rapporto è con l’onda che ha fatto molto parlare di Bernie Sanders?
Siamo
in contatto con una compagna che è nella direzione del movimento di
Sanders. Dai suoi racconti comprendiamo che il partito democratico
americano è una macchina di potere terribilmente governativa, non
reagisce alle novità, riprende temi socialdemocratici classici che non
funzionano.
Black Lives Matters è il futuro. È l’espressione di un movimento senza leadership.
Ce
ne sono tanti nel mondo e la sinistra dovrebbe capirli a fondo: quelli
indigeni, ad esempio, che puntano sulle proprietà comuni, sono
esperienze formidabili. E i nuovi movimenti femministi e la loro
fortissima soggettività.
È la forma stessa del capitalismo che
rivela queste nuove forze produttive e queste esperienze di rottura. Non
è solo un discorso marxista, è un discorso realistico, se si vuole
uscire dal «secolo breve», una volta per sempre, fuori dalla sua agonia.
Lei
parla sempre dal punto di vista dei movimenti. In Assembly analizzate,
senza reticenze, la loro crisi e suggerite di non sottovalutare «il
potere durevole di coloro che combattono e sono sconfitti». Cosa
intendete dire?
Torniamo al paradosso di Corbyn: i Sessantottini
che si ritrovano con i giovani di oggi. Basta un fischio e tornano fuori
quelli che sono stati sconfitti allora. Perché hanno imparato nelle
lotte la generosità, la cooperazione, hanno fatto trionfare la
solidarietà. Questi sono vizi che una volta presi non ti mollano più.
Se
si potesse fare una storia foucaultiana dei movimenti in Italia si
capirebbe di quali quantità di «cinici» , di militanti comunisti
arrabbiati il paesaggio è pieno: intendo gente che si faceva costruire
dalla «volontà di sapere» e dall’azione rivoluzionaria, e così amava gli
altri e la vita.
Scrivete che dal 2001 a oggi i movimenti hanno
affermato un nuovo inizio per la sinistra, ma hanno dimostrato una
«povertà organizzativa» e non sono stati all’altezza del problema che
hanno posto. Non c’è il rischio di ripetere le vecchie sconfitte senza
avanzare di un millimetro?
Bisogna, una volta per tutte, liberarsi
dall’illusione che dai movimenti si debba trarre qualcosa. Quasi sempre
i movimenti esprimono la fine di un discorso, non producono un evento,
ma lo terminano. Il Sessantotto non è stato un evento, ma una
costruzione. Perché dietro c’erano gli anni Sessanta, c’era già da tempo
una politica di massa a livello mondiale. In Italia questa politica è
stata talmente potente da durare dieci anni, passando dal movimento del
1977. I movimenti oggi non capiscono che devono costruire, non che
devono raccogliere.
Ho sentito i compagni che uscivano da Genova, o
dalle lotte dell’università, dire che dopo le manifestazioni era tempo
di fare un’organizzazione. Ma se non lo avevano creata fino ad allora
non l’avrebbero mai più fatta! Sarebbero stati solo identificati dalla
polizia come persone da abbattere. Bisogna rompere questa idea che il
movimento forma il partito, la coalizione, un seguito. I movimenti
formano la forza, e questa forza va riconosciuta.
I movimenti sono
la strategia. Non nascono per spirito infuso, o per un mistero che si
incarna nella società, si costruiscono concretamente, passo dopo passo,
insieme a migliaia di persone, ciascuno a partire da sé. La politica si
costruisce insieme.
I Soviet per noi restano un modello da
pensare, nacquero in un modo di produzione specifico, assemblando forze
produttive e sociali. In un mondo completamente diverso, restano un
dispositivo potente.
I Soviet sono attuali?
Oggi si devono
costruire istituzioni non sovrane e non proprietarie. Funzionerebbero
come la gestione dell’acqua bene comune, nelle battaglia contro la
violenza poliziesca in Francia o negli Stati uniti, nelle grandi lotte
indigene nell’America Latina, nelle lotte femministe.
L’invenzione
di una nuova struttura politica non può nascere che dal collegamento
tra queste forze. L’istituzione non nasce dal sovrano, ma dalla
necessità di stare insieme, di produrre e vivere insieme.
Questa
era l’idea fondamentale dei Soviet: organizzare il modo in cui si sta
insieme in una società industriale, dove la cooperazione sociale è
avanzata e ha la capacità di esercitare potere attraverso la costruzione
politica di una forza produttiva.
Per descrivere questa costruzione nel libro usate un’espressione curiosa: «imprenditorialità del comune». Che cosa significa?
In
alcune recensioni anglosassoni ci viene rimproverato questo concetto:
l’impresa non può essere strappata al neo-liberismo. E invece penso che
oggi il rapporto tra imprenditorialità e istituzione – l’instituere –
sia qualcosa che vada studiato fino in fondo. Il lavoro è sempre
istitutio. Questa capacità oggi è massacrata oppure nascosta da un falso
concetto di libertà.
Creare un’impresa significa lasciare libera
la forza lavoro di organizzarsi. È questo il discorso politico che il
capitalismo sequestra ai lavoratori. Noi invece crediamo che si inizia a
fare politica quando la forza lavoro conquista la capacità di
organizzarsi produttivamente.
Tutto questo passa da un partito? È questo che sostenete?
Assolutamente
no. Oggi l’autonomia del politico non è più quella leninista, oggi è il
populismo. In ogni epoca l’autonomia del politico si qualifica in
qualche modo, se si vuole evitare di assumerla in termini generici. E
oggi l’autonomia del politico è stata ridotta a un gioco discorsivo che
usa le categorie istituzionali e ha l’obiettivo di costruire un popolo
sottomesso.
Leggo quello che succede in Italia dove la legge
elettorale è da tempo diventata il luogo centrale di questo uso
discriminatorio del politico. È una manipolazione pura del popolo e del
consenso.
In gioco non c’è solo un criterio minimo di
rappresentanza, che mi sembra sempre più in crisi, ma qualcosa di più
profondo: si vuole impedire alle persone di sperimentare nuovi modi
istituzionali e produttivi per governarsi da sé.
La
socialdemocrazia è in crisi e sono in molti a credere che possa essere
superata attraverso una declinazione di «sinistra» del populismo.
Ritiene che Podemos o il Labour di Corbyn possano essere interpretati in
questo modo?
Quello di sinistra è un caso del populismo di
«sostituzione». Dubito che questa logica, teorizzata dal filosofo
argentino Ernesto Laclau, possa mai reinventare formule diverse da
quelle del «socialismo nazionale». In Spagna, dentro Podemos, si è
sviluppato un grande dibattito su questo tema. E ha vinto la tendenza
nazional-popolare.
La polemica è avvenuta con i movimenti sulla
funzione del partito: se si dovessero sostenere i movimenti e creare una
coalizione oppure se si dovesse essere un partito classico che
inventava il suo popolo. Ha vinto il progetto di sostituzione della
socialdemocrazia, non un progetto di innovazione della sinistra.
All’altro
capo del populismo, Alice Weidel dell’Afd in Germania è un caso
clamoroso di rovesciamento delle istanze dei movimenti: lesbica, sposata
con una cittadina srilankese, ha lavorato per Goldman Sachs e Allianz,
sostenitrice di politiche xenofobe, islamofobe ed è contro matrimoni
omosessuali. Cosa rappresenta una simile figura?
Rappresenta il
vuoto che si riproduce. Come altri personaggi non è un soggetto, ma un
prodotto. Nasce sollecitando i peggiori istinti e arriva alla
contraddizione più clamorosa con quello che è realmente nella sua vita. A
questo in fondo porta il populismo: creare il popolo anche contro ciò
che si è. A questa contraddizione si lega il concetto di nazione e poi,
nell’ordine, quello di appartenenza regionale e famigliare. Così si
articolano forme di proprietà e confine. Il rischio forte è quello della
corruzione.
Nella mia vita ho visto molte persone fare cose
terribili in nome della famiglia, fino alle peggiori forme di
corruzione. Dietro queste appartenenze, ci sono solo barbarie e
tribalismi.
Quali sono gli altri populismi?
Trump ne è un
esempio purissimo. A suo modo Macron in Francia gli assomiglia, anche se
si comporta da tecnocrate che gestisce al centro destra e sinistra
costituzionali secondo il progetto di Juppé.
A destra e a
sinistra, ci sono populismi «rilavati». In Mediaset nel caso di
Berlusconi, nella rete nel caso dei Cinque Stelle. Melenchon in Francia
distingue tra sovranità popolare, quella della rivoluzione del 1789, e
sovranismo che sarebbe un concetto di destra; tra l’ideale di «nazione» e
quello di «nazionalismo in quanto etnicismo».
In questo e in
altri casi, come tra i bolivariani sudamericani, non si riflette mai
abbastanza sul fatto che, nel populismo, comandano solo i dominanti e i
ricchi che parlano in nome dei molti.
È anche possibile che questa
idea di «populismo» produca un contraccolpo sui movimenti, in
particolare sull’immigrazione, amplificando un senso comune xenofobo e
razzista. Un rischio che si intravede anche nel Labour inglese o nella
Linke tedesca. Come spiega questa ambivalenza?
Esistono due idee
che non toglieremo mai alla socialdemocrazia, erede del «secolo breve»:
la proprietà e il confine. È un batterio letale, oggi impiantato nel
cuore dell’Europa, quando si ergono muri o si spostano i confini oltre
il Mediterraneo mandando a morire i migranti nei Lager in Libia.
Rousseau
diceva che il più grande delinquente che sia nato è quello che ha
detto: «Questa cosa è mia». Ma esiste un delinquente ancora più grande,
Romolo, che disse «Questo confine è mio». Sono la stessa cosa: proprietà
e confine.
La socialdemocrazia ha maturato questa cultura dopo il
1848, con la rivoluzione romantica. Penso a Mazzini: lui è stato, da
questo punto di vista, il primo socialdemocratico: sosteneva la
repubblica popolare e la centralità nazionale, due elementi che hanno
sempre avuto una sintesi reazionaria, nazional-popolare. La seconda
Internazionale socialista fu attraversata da questo spirito contro
l’internazionalismo comunardo e cercò di coniugare nazionalità e
rivoluzione.
Di contro, il bolscevismo è stato formidabile dal
punto di vista della rivoluzione mondiale perché ha unificato comunismo,
anti-imperialismo e anticolonialismo. La tragedia dell’anticolonialismo
è stato il ritorno del nazionalismo.
Ciò ha comportato un errore
di rilievo, e ancora oggi ricorrente nelle politiche centriste
variamente declinate: pensare che l’alleanza del proletariato con le
classi medie e progressiste sia un passaggio strategico, e non meramente
tattico. Le declinazioni del populismo attuale ripetono lo stesso
errore: pensano che il concetto di nazione cancelli quello di classe. È
un problema con il quale ci dovremo ancora confrontare.
Sempre più
spesso si sente dire che l’alternativa al neoliberismo e alla crisi è
il lavoro, la piena occupazione, il keynesismo, le nazionalizzazioni. È
una soluzione?
Sono ipotesi che restano confinate nell’agonia del
«secolo breve» in cui ancora ci troviamo. Discutiamo ancora di
alternative che sono distrutte: socialismo statale e nazionale e
liberismo proprietario e privato. Restiamo ostaggio della distinzione
tra privato e pubblico e non vediamo cosa gli è passato sotto, e
attraverso, tra il Novecento e oggi.
E che cosa è accaduto?
La
disfatta dell’ideologia del privato e del pubblico a causa della
trasformazione del modo di produzione. Esiste un nuovo assemblaggio
delle forze produttive determinato dalla trasformazione del lavoro che
lo ha reso comune e singolarizzato, togliendolo al privato e al
pubblico. È una forza-lavoro che funziona solo in modo cooperativo. Cioè
in maniera sempre più comune. Oggi il problema è l’organizzazione della
produzione sociale e la distribuzione del reddito, non il pieno
impiego.
La distinzione tra lavoro/impiego e nuova capacità
lavorativa e cooperativa è l’elemento centrale del dibattito e comporta
radicali conseguenze di carattere fiscale, politiche sociali,
industriali profondamente diverse rispetto al passato.
A sinistra e
nel sindacato si sostiene che uno Stato «innovatore» sarà capace di
creare tecnologie rivoluzionarie nella green economy, le
telecomunicazioni, nanotecnologia o farmaceutica. Le nuove istituzioni
di cui parlate nel libro passano dallo Stato e in che rapporto stanno
con questa categoria che torna ad avere successo?
Ben venga questo
Stato, gli faccio gli auguri. Mi si permetta tuttavia di notare che
questi settori sono sul mercato, organizzate come macchine di estrazione
del valore prodotto socialmente, e in questa figura protette, pur
malamente, dallo Stato.
In Assembly, ci chiediamo se queste
meraviglie possano essere sottoposte a scelte e decisioni democratiche.
Rispondiamo di no. Finché non sarà riconosciuto il regime di
sfruttamento estrattivo e proprietario (brevetti, rendite finanziarie,
organizzazioni monetarie) in cui queste industrie operano, e fino a
quando a questo riconoscimento non segua un processo democratico di
riappropriazione dei beni comuni.
Ormai è tempo di
riappropriazione del comune da parte dei suoi produttori, e di
ri-orientamento democratico della gestione del comune: non è lo Stato,
ma sono i produttori che devono dire a cosa servono queste tecnologie e
quali vantaggi recuperane o quali svantaggi scontare.
La forza
lavoro è sempre più organizzata dalle piattaforme digitali: Uber,
Deliveroo oppure Task Rabbit. Il potere dei «signori del silicio» è così
ampio da spingere a credere che dall’algoritmo passi un’idea popolare, e
trasparente, della democrazia. A questo porterà la rivoluzione
digitale?
In queste piattaforme i lavoratori non pensano di
usufruire di un più alto grado di democrazia! E lottano e resistono allo
sfruttamento bestiale.
È importante tuttavia che si ponga il
problema: è possibile rovesciare il funzionamento dell’algoritmo di
comando delle piattaforme digitali? Lungi dall’immaginare utopici
rovesciamenti delle piattaforme digitali in circuiti cooperativi, sarà
possibile dominare quei mostri solo smantellando le condizioni politiche
nelle quali l’algoritmo è imposto: quelle del diritto privato e della
sua legittimazione statale.
Mark Zuckerberg di Facebook ha ammesso
l’importanza del reddito di base. Sarà la Silicon Valley a realizzare
quella che è definita un’utopia concreta?
Zuckerberg ci obbliga a
studiare le forme nelle quali le tecnologie e l’attività lavorativa
s’intrecciano nella produzione e nell’uso dei social media. È là, in
quello spazio, che paradossalmente ci indica la possibilità di far
rinascere la democrazia. Credo che questo spazio sia quello sul quale va
riaperta la ricerca dei rivoluzionari: è lo spazio che,mutatis
mutandis, 150 anni fa, Marx analizzò nel primo volume de Il Capitale.
È
là, dove l’uomo s’incontra con lo sfruttamento di nuove macchine e di
nuovi padroni, che rinasce la classe e si propone la rivoluzione.
Insomma lei è convinto che solo un reddito di base ci salverà?
Ma
no, è ovvio che in sé non può risolvere il problema. È l’elemento
preliminare, e comunque centrale, per la riorganizzazione sociale
fondata sul comune e sul superamento delle categorie della proprietà
privata e pubblica. È sul terreno finanziario che bisogna confrontarsi.
Il problema è il comando della finanza. Il palazzo d’Inverno oggi sono le banche centrali.
***
Toni Negri: le lotte e i libri
«I
movimenti sono l’emblema di quel processo rivoluzionario continuo
attraverso il quale il capitale ha voluto imporre il proprio potere
sulla vita – ma dove la vita ha violentemente espresso il suo rifiuto»
ha scritto Toni Negri nella prima parte della sua autobiografia («Storia
di un comunista», Ponte Alle Grazie). O
ttantaquattro anni scanditi dal rapporto con il movimento operaio e quelli sociali.
Politica,
ricerca, conflitti, l’arresto avvenuto il 7 aprile 1979 insieme a
centinaia di militanti di «Autonomia Operaia» nell’ambito del «teorema
Calogero», definito da Rossana Rossanda su Il Manifesto «un’operazione
politica bassa, la più bassa della magistratura della repubblica».
Oggi
Negri è uno dei filosofi politici più influenti, autore di oltre 60
libri, tradotto in molte lingue. Con Michael Hardt ha scritto da «Il
lavoro di Dioniso» (Manifestolibri, 1995) a «Assembly» (Oxford
University Press, 2017). E poi «Impero» (Rizzoli, 2001), «Moltitudine»
(Rizzoli, 2004), «Comune» (Rizzoli, 2010), «Questo non è un manifesto»
(Feltrinelli, 2012)
Toni Negri, nato a Padova, padre comunista, nonno socialista, poi
nella Gioventù dell'Azione Cattolica, poi iscritto al Partito
socialista, libero docente universitario a 25 anni. Fa parte del gruppo
di "Quaderni Rossi", rivista fondata a 25 anni da Raniero Panzieri, già
direttore del socialista "Mondo operaio". "Quaderni Rossi" ha
un'impostazione operaista: teorizza, tra l'altro, lo sciopero improvviso
e imprevedibile, detto a "gatto selvaggio", contro la programmazione
neocapitalista. E' solidale con gli operai che durante i grandi scioperi
per i rinnovi contrattuali del 1962 di scontrano per tre giorni con la
polizia in piazza Statuto, a Torino, e assediano la sede della UIL che
ha accettato un accordo separato.
In uno dei suoi più famosi
saggio "Dominio e sabotaggio", il cui proclama mutato da Lenine era
"Grande il disordine sotto il cielo. La situazione quindi è eccellente",
scriveva: "Nulla rivela a tal punto l'enorme storica positività
dell'autovalorizzazione operaia, nulla più del sabotaggio. Nulla più di
quest'attività di franco tiratore, di sabotatore, di assenteista, di
deviante, di criminale che mi trovo a vivere. Immediatamente mi sento il
calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo
il passamontagna". E poi: "La violenza il filo razionale che lega la
valorizzazione proletaria alla destrutturalizzazione del sistema e
quest'ultima alla destabilizzazione del regime. Basta con l'ipocrisia
borghese e riformista contro la violenza".
Nel 1963
Negri lascia il Partito Socialista per dissensi sulla prospettiva
politica di centrosinistra e nel 1969, con Franco Piperno e Oreste
Scalzone, fonda Potere Operaio e la rivista dallo stesso nome. Nel 1970,
al primo convegno tenutosi a Firenze, la violenza rivoluzionaria viene
definita discriminante e decisiva; l'anno dopo l'organizzazione
dichiara, senza mezzi termini, che il "partito armato" è immediatamente
all'ordine del giorno.
ln Toni Negri, Dominio e sabotaggio