venerdì 3 novembre 2017

Repubblica 3.11.17
Intercettazioni
Un velo d’invisibilità
di Massimo Giannini

LA NUOVA disciplina delle intercettazioni telefoniche fa tornare in mente un’antica lezione di Norberto Bobbio, che definiva la democrazia come “regime del potere visibile”: totale controllo da parte degli elettori, piena pubblicità da parte degli eletti. Dunque, il decreto legislativo appena varato dal governo risponde alla formula del “potere visibile”, che il grande filosofo del diritto coniò già nel lontano 1980, o invece contribuisce a nascondere la nostra democrazia dietro un pur sottile “velo di invisibilità”?
Tra le due ipotesi, purtroppo, è vera la seconda. Nonostante i proclami solenni del presidente del Consiglio, il provvedimento uscito da Palazzo Chigi non è il “gran bavaglio” berlusconiano, ma è pur sempre un “bavaglino” gentiloniano. Allacciato intorno al collo delle Procure (e di riflesso della stampa, della tv e del web) a poco più di quattro mesi dalle elezioni del 2018. Rispetto alla versione originaria circolata due mesi fa abbiamo fatto passi da gigante sulla via delle garanzie. Il vecchio testo pareva uscito direttamente dal Comintern sovietico o dal Gran Consiglio del Fascismo: mirava a garantire il diritto alla “riservatezza assoluta delle comunicazioni”, a danno del diritto dei media a informare e dei cittadini ad essere informati. Vietava la trascrizione integrale delle intercettazioni negli atti da parte dei magistrati e la pubblicazione da parte dei giornalisti, imponendo agli uni e agli altri solo l’utilizzo delle “sintesi”. Uno sproposito, giuridico e politico, che neanche il Cavaliere aveva mai azzardato ai tempi d’oro delle leggi ad personam.
Il nuovo testo del Guardasigilli Orlando, almeno, è più attento al bilanciamento dei diritti “in conflitto”: la privacy da una parte, la trasparenza dall’altra. Ma nelle richieste dei pm e nelle ordinanze dei giudici potranno essere trascritti solo i “brani essenziali” delle conversazioni telefoniche considerate “rilevanti” ai fini delle costruzioni probatorie e delle ipotesi accusatorie. Tutte le altre finiranno in un “archivio riservato” custodito dal pubblico ministero. Il governo conta così di mettere al riparo il diritto alla riservatezza dei “terzi” citati nelle intercettazioni ma estranei ai fatti, oppure degli indagati coinvolti ma per fatti che non hanno nulla a che vedere con i reati.
Oltre alle ulteriori complicazioni pratiche sull’uso dei “captatori informatici” nei pc e negli smartphone per le inchieste sulla corruzione, qui si pone un nodo cruciale che il decreto Orlando non scioglie (come ha scritto nei giorni scorsi Liana Milella). È giusto che la polizia che indaga e il magistrato che coordina le indagini possano e debbano decidere insieme cosa sia “rilevante” ai fini dell’accertamento dell’illecito. Ma in quasi tutte le inchieste più sensibili c’è sempre una zona grigia, nella quale l’interesse giudiziario e l’interesse pubblico si intrecciano e si sovrappongono. In questi casi la scelta su quale intercettazione sia davvero “irrilevante” si complica parecchio. E rischia di diventare scivolosa per chi la compie (la pubblica accusa) e per chi la subisce (la pubblica opinione). Gli esempi concreti sono noti.
Parliamo di politica. Erano davvero solo “gossip” le intercettazioni di Berlusconi con Tarantini e le “olgettine” sulle famose “cene eleganti” ad Arcore, o era invece in gioco la sicurezza nazionale a causa di un primo ministro ricattato e ricattabile? O quelle dell’allora ministro Cancellieri, che manifestava tutta la sua “vicinanza” al fratello e alla compagna di don Salvatore Ligresti, appena arrestato a Torino? Ed erano solo beghe familiari quelle dell’allora ministro Lupi, costretto a dimettersi per una telefonata in cui chiedeva a Ercole Incalza di incontrare suo figlio e per un Rolex regalato a quest’ultimo da un imprenditore? O quelle di Matteo Renzi che intimava a papà Tiziano, sotto inchiesta a Roma per traffico di influenze, “io non voglio essere preso in giro e tu devi dire la verità in quanto in passato non l’hai detta a Luca…” (cioè a Lotti)?
Parliamo di economia. Era giusto che gli italiani sapessero che subito dopo il terremoto all’Aquila due imprenditori al telefono brindavano a champagne dicendo “io stamattina alle tre e mezzo ridevo dentro al letto…”? O che nell’estate dei furbetti del quartierino il “banchiere controllato” Fiorani (in attesa del via libera all’Opa su Antonveneta) dicesse al “banchiere controllore” Fazio (che aveva appena firmato l’autorizzazione) “Tonino, ti darei un bacio in fronte…”? O che alla vigilia delle retate di Mafia Capitale il cecato Carminati confessasse a Salvatore Buzzi “tu c’hai idea de quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico de droga rende meno…”?
Qui in ballo non ci sono necessariamente reati. Ma ci sono fatti, forse non meno gravi. Sostiene Gentiloni: con questo decreto eviteremo gli abusi, perché in questi anni “sono stati frequenti”. È un mantra che si sente ripetere spesso da governi e maggioranze. Ma piuttosto che parlarne in modo generico, il premier farebbe bene a denunciare in modo esplicito quali siano stati, questi “abusi”. Così capiamo di cosa stiamo parlando, una volta per tutte. In caso contrario c’è il sospetto che la politica, inquinata dal malaffare e delegittimata dalle piazze, chiuda non solo buchi della serratura, ma anche porte e finestre del Palazzo. E provi a nascondersi ancora una volta in quel “cono d’ombra sottratto allo sguardo pubblico” di cui parlava Bobbio. È lì che maturano non solo le “trame occulte dei corpi separati dallo Stato”, ma anche quelle apparentemente più ordinarie come “la corruzione, il peculato, la malversazione, la concussione, l’interesse privato in atti d’ufficio…”. Sono proprio quelle che logorano lentamente, ma inesorabilmente, la fiducia dei popoli.