Corriere 3.11.17
Le città, le scelte le nostre periferie degradate
di Ernesto Galli della Loggia
Per
una ragione insignificante — aspettavo la riconsegna dell’auto portata
in un’officina per una revisione — la settimana scorsa mi sono trovato a
passare alcune ore in una periferia di Roma. Neppure così lontana —
prima del Grande Raccordo Anulare per intenderci — ma a me totalmente
sconosciuta.
Rispetto a Torino, a Milano o anche a Napoli, Roma,
come si sa, ha questa caratteristica: è sorta nel vuoto della «Campagna»
e di una zona costiera scarsamente abitata. Storicamente non sono mai
esistiti intorno Roma quegli agglomerati tipo Settimo Torinese, Sesto
San Giovanni, Portici, che con il tempo sono venuti formando un tutt’uno
con la città quasi senza soluzione di continuità. A Roma no. A Roma
ancora oggi quasi sempre la periferia della città amministrativa non
finisce in un altro centro. Finisce e basta. Nei prati, nei campi delle
discariche e di qualche baracca, nei terrains vagues . Dopo le case c’è
il nulla: proprio come nella periferia dove io mi sono trovato in una
luminosa mattina di ottobre.
Era con ogni evidenza un quartiere di
piccola borghesia, giovani coppie, comunque gente di redditi modesti. I
marciapiedi dissestati, le sterpaglie un po’ dappertutto, qualche
alberello stento, i cassonetti dell’immondizia sbilenchi e mezzo
bruciati; e naturalmente ogni muro imbrattato dalle solite scritte
smisurate. Il silenzio e la solitudine era ciò che più colpiva.
N
elle vie abbastanza grandi, tra i palazzi di nuova costruzione — neppur
troppo brutti e opprimenti per la verità, spesso con dei grandi spazi
interni — a metà mattinata non c’era nessuno, letteralmente non anima
viva. E del resto perché avrebbe dovuto esserci qualcuno? A fare che
cosa? A perdita d’occhio, infatti, non si vedeva un ufficio, un’insegna,
un negozio, niente. A provvedere alle necessità d’ogni giorno bastavano
evidentemente i due o tre supermercati che s’incontravano un paio di
chilometri prima sullo stradone che portava da quelle parti. Dove i
locali commerciali non mancavano, ma tutti irrimediabilmente vuoti:
alcuni ancora con le scritte stinte e i resti degli arredi,
testimonianza di altrettanti tentativi andati a vuoto. Facevano
eccezione una farmacia e poco più in là uno strano posto — forse il
magazzino di un grossista — attraverso le cui vetrine si vedeva un
numero incredibile di sedie a rotelle, girelli, stampelle canadesi e
attrezzi simili. Solo molto lontano, sotto una specie di porticato, un
bar addossato a una fermata d’autobus con due tavolini di plastica
davanti. Insieme il bar e la fermata sembravano quasi come l’unico
avamposto rimasto della civiltà, il solo tramite sopravvissuto verso il
mondo remoto della città. La tabella della fermata indicava l’ultima
corsa per le 21. Dopo quell’ora la solitudine di quelle strade, di quei
palazzi, si tramutava evidentemente in un isolamento simile alla
prigionia. Da lì per chi non possedeva un’auto o un motorino era
impossibile muoversi, andar via. Ma che cosa diventavano quei luoghi —
era impossibile non chiedersi — quando calava la notte? Quali sensazioni
provava l’ultimo passeggero che scendeva dall’ultima corsa? Che cosa
poteva fare lì la sera chi aveva vent’anni? Una risposta la suggerivano i
distributori di preservativi e di sigarette rispettivamente fuori dalla
farmacia e dal bar: entrambi blindati, saldati al muro con delle spesse
sbarre d’acciaio.
Quanti uomini politici, mi sono chiesto, hanno
mai messo piede da queste parti, da soli e magari di notte? Ma anche
quanti di noi che abitiamo da sempre in una città ne conosciamo soltanto
una parte, sempre e solo quella più comoda, più rassicurante? Forse il
primo compito di un sindaco dovrebbe essere proprio quello di far
conoscere ai cittadini la loro città per intero. Anche perché le cose
che in essa non vanno non sono equamente distribuite tra le sue parti, e
non basta leggerle sui giornali. Vista da una periferia, sia pure per
poche ore ma in prima persona, ogni questione appare con contorni più
netti, ogni problema acquista un’altra misura.
Diventa innanzi
tutto più netta e tangibile la questione — dobbiamo ancora oggi
adoperare questa parola — dell’ineguaglianza. Che, superata una certa
soglia, produce una rottura violenta di quel sentimento di giustizia che
vive entro noi e ci serve a mantenere il rispetto di noi stessi.
Allorché per l’appunto l’ineguaglianza diventa ingiustizia. Determinare
la soglia di cui sopra non è facile, certo. Ma è anche vero che forse
abbiamo abbandonato con troppa disinvoltura l’idea di «giusta società»
senza la quale una democrazia appassisce e probabilmente muore.
È
stato positivo, ad esempio, aver tolto ai Comuni la risorsa dell’imposta
sulla proprietà della prima casa, l’Imu, favorendo così il degrado dei
centri urbani? E dunque condannando centinaia di migliaia di nostri
concittadini a vivere ancor più non dico nella miseria, ma nello stato
di deprivazione sociale e culturale, di solitudine esistenziale, di
assenza di servizi e di stimoli, quale è quello che caratterizza (di
certo non sempre per colpa degli amministratori) quasi tutte le nostre
periferie urbane? E ancora: è giusto che dall’abbandono di tali
periferie risulti poi una drammatica disparità di occasioni per quei
giovani italiani che essendovi nati troveranno mille ostacoli in più per
costruirsi un futuro simile a coloro che invece hanno avuto la fortuna
di nascere e crescere altrove?
Non si tratta solo di giustizia a
favore di una parte, ma del futuro di tutti noi. Si tratta di decidere,
infatti, se vogliamo che le nostre città restino schiacciate nella morsa
micidiale del degrado delle periferie da un lato e della distruzione
dei centri storici a opera della barbarie turistica dall’altro. Se
vogliamo intristire sullo sfondo di una scena urbana irriconoscibile e
incarognita o se invece vogliamo continuare a vivere nei luoghi che
hanno assistito alla nostra storia fino alla giovinezza di molti di noi,
se vogliamo che ne continui lo spirito, l’atmosfera, la profonda
sostanza umana, e in mille luoghi la bellezza suprema.
Di
deciderlo eventualmente anche contro il nostro interesse immediato.
Proprio a questo, del resto, dovrebbe servire la politica democratica. A
correggere il naturale (e in certa misura opportuno) egoismo
individuale concentrato sull’oggi, per favorire l’interesse generale,
sia quello presente che quello più lontano nel tempo. Dunque guardando
più oltre, pensando in grande, e, poiché è necessario, magari obbligando
tutti, ma proprio tutti, a pagare le tasse.