Repubblica 29.11.17
Denatalità
Il tardi diventa mai così l’Italia ha perso centomila bambini
L’Istat fotografa un Paese che non riesce a contrastare il calo delle nascite. Aumentano le nozze ma i figli sono sempre di meno
di Chiara Saraceno
I
primi passi di uscita dalla crisi riaccendono la voglia di sposarsi,
spesso ufficializzando una convivenza già in essere. Ma non riescono a
contrastare il calo delle nascite, ormai diventato strutturale e in
qualche misura irreversibile nel breve- medio periodo. La riduzione
della fecondità, in atto ormai da decenni con poche interruzioni, ha
infatti progressivamente ridotto la numerosità delle generazioni più
giovani, ovvero quelle in grado di procreare. Secondo i dati Istat,
quasi tre quarti della differenza nel numero di nascite tra il 2008 e il
2016 (circa 100.000 nati in meno) è dovuta alla modificazione della
struttura per età della popolazione femminile. Allo stesso tempo, i
giovani, specie se donne, scoraggiate dalle incertezze economiche e da
persistenti asimmetrie di genere sia nel mercato del lavoro sia nel
lavoro domestico e di cura, rimandano e riducono al minimo le scelte di
fecondità. Una sorta di tempesta perfetta: chi è in grado di procreare
diminuisce numericamente e per giunta è ostacolato a farlo anche quando
lo desidererebbe.
Il tasso di fecondità aveva raggiunto il suo
punto più basso (ed uno dei più bassi al mondo) già a metà degli anni
Novanta, quindi ben prima della crisi, senza che ciò destasse
particolare riflessione a livello delle policies, salvo rituali
rimproveri ai giovani « che non vogliono impegnarsi » e in particolare
alle donne « egoiste » che anteporrebbero la carriera e l’autonomia
economica al lavoro. Rimproveri che glissano (glissavano) — si pensi
agli stucchevoli dibattiti sui “ mammoni”, i choosy e simili — sulle
difficoltà a trovare un lavoro stabile e ad accedere ad una abitazione
senza doversi affidare ai risparmi di famiglia o a mutui ventennali e
sulla necessità, per le donne, ad avere un reddito proprio per
proteggere sé e i propri figli dal rischio di povertà. La crisi, che ha
colpito in modo particolare le opportunità dei giovani nel mercato del
lavoro, reso ancora più vulnerabili a licenziamenti più o meno legali le
donne che vanno in maternità e ridotto le risorse per i servizi, ha
interrotto la piccola ripresa che aveva caratterizzato i primi anni
duemila, invertendo di nuovo la tendenza. Ma che altro ci si può
aspettare in un paese in cui una donna lavoratrice su 5 è costretta a
lasciare il lavoro quando ha un figlio e dove, secondo gli ultimi dati
dell’Ispettorato del lavoro, il 78% delle dimissioni “ volontarie” ha
riguardato lavoratrici madri, con un aumento, nel 2016, del 45% rispetto
all’anno prima di coloro che hanno dichiarato di non farcela a tenere
insieme tutto?
Il calo delle nascite riguarda innanzitutto gli
italiani. Sta avendo esiti, non solo demografici, drammatici soprattutto
al Sud, dove i tassi di fecondità sono ormai stabilmente più bassi che
nel Centro-Nord e dove, come ha documentato l’ultimo Rapporto Svimez, i
giovani più istruiti hanno ripreso numerosi ad emigrare non solo fuori
Italia, ma al Nord. Il veloce invecchiamento della popolazione che sta
caratterizzando le regioni meridionali si somma quindi anche ad un
depauperamento del capitale umano, ad una perdita di risorse che può
rendere ancora più difficile la ripresa in quelle regioni. Il calo delle
nascite riguarda anche, sia pure in minor misura, anche gli stranieri,
che tradizionalmente hanno un tasso di fecondità più alto. In parte è
l’esito di un processo di integrazione culturale, nella misura in cui i
migranti tendono ad avere un comportamento più simile a quello del paese
di arrivo che a quello di partenza, per quanto riguarda la fecondità.
Ma l’entità del calo segnala che la crisi e i suoi effetti di lungo
periodo ha colpito anche i migranti, modificandone le aspettative
rispetto alle opportunità che vedono per sé e per i figli.
A
maggior ragione i loro figli, come i nostri, dovrebbero essere
considerati un bene prezioso su cui investire, cui dare riconoscimento e
un futuro come membri a tutti gli effetti della nostra società. Senza
di loro saremmo ancora più vecchi e poveri di risorse umane, con un
orizzonte ancora più ristretto.