Corriere 29.11.17
La paura del futuro
Perché non facciamo più figli?
di Antonio Polito
Perché
non facciamo più figli? Ogni volta che l’Istat ci ricorda il drammatico
calo delle nascite (centomila bambini in meno in otto anni), riparte
stanco il dibattito. I politici lanciano l’allarme (a chi? a se
stessi?); se sono all’opposizione reclamano nuove misure di welfare per
sostenere la maternità (che immaginiamo si aggiungano, chissà come, a
quelle per sostenere le vecchiaia); se sono al governo si affidano al
bonus bebè, in un Paese in cui le politiche sociali stanno diventando
una specie di giungla di gratifiche, e l’85% per cento dei contributi
assistenziali vanno agli over 65 anni. Intendiamoci: ben vengano nuove
misure, gli sconti fiscali per i pannolini o la tata, testimonierebbero
quantomeno la consapevolezza dello Stato che il problema è grande anche
dal punto di vista sociale, perché di questo passo non avremo più
abbastanza lavoratori giovani per pagare le pensioni al numero crescente
di anziani. E d’altra parte non ha senso sperare di sostituire gli
italiani mancanti con una ondata di lavoratori immigrati.
Ma
questa carestia di culle ha cause culturali forse anche più profonde di
quelle sociali. Altrimenti non si spiegherebbe perché le don-ne
immigrate, che di certo godono di meno aiuti pubblici, facciano 1,97
figli ciascuna, e le italiane solo 1,26. La lunga e dolorosa crisi
economica ovviamente c’entra, e infatti nel 2016 si segnala finalmente
un timido segno di ripresa nella propensione alla nascita dei primi
figli. È evidente che molte donne hanno ritardato la maternità in attesa
di tempi migliori. Ma così facendo sono arrivate al parto all’età media
di 31,8 anni, due anni in più che nel 1995. In questo modo il serpente
si morde la coda: si comin-cia a far figli più tardi, quindi aumentano i
problemi di infertilità, quindi nascono meno bimbi, e tra loro meno
future donne fertili. Se si aggiunge una illimitata e spesso
superficiale fede nelle risorse della tecnica, quasi che la provetta
potesse sostituire del tutto e a qualunque età il ventre materno, si può
giungere a paventare, come nell’omonimo libro di Lucetta Scaraffia, la
«Morte della madre», inte-sa come figura simbolo di una società
declinante. La crisi ha agito come un potente depressivo sulle famiglie
italiane, e soprattutto sulle coppie più giovani. E non solo per il
minor reddito disponibile, ma per l’enorme nu-vola nera che ha
proiettato sul futuro del Paese. Eppure già da prima si poteva avvertire
che dietro il calo delle nascite si nascondeva il senso di sfiducia
generalizzato, di pessimismo, che attanaglia ancora l’Italia nonostante i
primi segni di ripresa, e si concentra sul timore che per i nostri
figli non ci sarà più abbastanza la-voro e benessere. Osservando la loro
condizione precaria e incerta, i giovani di oggi riluttano a mettere al
mondo i giovani di domani. L’altro potente fattore di freno alla
maternità affonda probabilmente le sue radici nella persistente
arretratezza che caratterizza da noi i rapporti tra i sessi. Colpisce il
numero di donne che nel-la vita di ogni giorno, interrogate sul perché
non abbiano ancora figli, rispondono: perché non ho ancora trovato
l’uomo giusto. Dove «l’uomo giusto» sarebbe quello che non scarica
addosso a loro tutto il peso della maternità, dell’allevamento, della
cura, della vigilanza, della educazione dei figli. E, diciamoci la
veri-tà, per quanto molte cose stiano cambiando, i padri italiani non
sembrano ancora campioni di responsabilità parentale. Si fanno dunque
meno figli per paura del futuro. Ma le famiglie meno numerose producono a
loro volta un effetto sul futuro. Una generazione di figli unici sta
crescendo nelle nostre case senza fratelli, con molti nonni e qualche
bisnonno, con i quali convive per un tempo sempre più lungo. Gli stessi
valori su cui è fondata la nostra civiltà possono essere affetti da
queste mutazioni. Ha notato lo scrittore Christian Raimo, per esempio,
che il concetto di fratellanza è molto più difficile da apprendere in
famiglie senza fratelli. Un’inversione di tendenza potrà dunque avvenire
solo quando ci sarà piena consapevolezza di queste cause culturali.
Quando ricominceremo a pensarci come una comunità invece che come un
agglomerato di interessi, e riprenderemo a premiare chi investe sul
futuro, invece di dilaniarci per risorse sempre più limitate di spesa
pubblica. Come seppero fare i nostri genitori, la cui spinta vitale
generò il baby boom del Dopoguerra, in un Paese dalle condizioni
economiche e sociali non certo migliori di quelle di oggi.