Repubblica 25.11.7
Ogni ombra è illuminata
di Maurizio Ferraris
Cercare
un po’ d’ombra in una giornata calda sembra uno dei pochi valori
positivi di questa compagna che non ci abbandona mai, almeno fino a che
c’è un po’ di luce. Per il resto, è illusione, come nelle ombre cinesi
che rappresentano gli inganni cui sono soggetti gli umani nella
Repubblica di Platone, mancanza (della luce, e della cosa che proietta
l’ombra), difetto: «siamo un’ombra profonda», diceva Giordano Bruno, e
non era un complimento. La presenza dell’ombra in pittura, tuttavia, non
è ovvia. Per quanto il termine skiagraphia, pittura con l’ombra, sia
greco e si trovi, per esempio, in Platone, non si è riusciti mai a
capire che cosa designasse esattamente: un chiaroscuro, una pittura
fortemente effettistica, una sorta di stile divisionistico. Sta di fatto
che la pittura greca, e in generale quella antica, usa l’ombra con
parsimonia, soprattutto quando si tratta dell’ombra portata, quella che
una cosa proietta fuori di sé.
Senza dimenticare poi che, in tutte
le tradizioni pittoriche in cui prevale la bidimensionalità (la pittura
vascolare greca, la pittura egizia, quella cinese, i fumetti), non c’è
traccia neppure dell’ombra propria, quella che una cosa proietta su di
sé. Però, imparare a guardare le opere partendo dall’ombra è un
consiglio che mi sentirei di dare a chiunque. Avremmo infatti non dico
un mondo capovolto, ma uno sguardo straniato e illuminante.
Di qui
l’importanza del saggio di Ernst Gombrich Ombre. La rappresentazione
dell’ombra portata nell’arte occidentale (Einaudi, con una introduzione
di John Penny) che accompagnava una mostra alla National Gallery di
Londra del 1995, è circoscritta al patrimonio del museo, eppure basta a
illustrare le potenzialità e i capovolgimenti che vengono apportati
dall’ombra. Le ombre naturali dell’alba e del tramonto nei paesaggi,
quelle soprannaturali di Goya, quelle surreali di Pontormo e di de
Chirico, quelle indisciplinate di Picasso. E ovviamente le ombre che
prevalgono sulla luce, come avviene nei notturni, e nell’esperienza
umana ordinaria sino all’invenzione della luce elettrica. Tra le
funzioni essenziali dell’ombra, osserva Gombrich, la principale è
proprio quella di valorizzare la luce. Restringendosi al patrimonio
della National Gallery, l’analisi di Gombrich non può includere il
quadro in cui questo principio è realizzato nella forma più alta, La
veduta di Delft di Vermeer. Il cielo irregolarmente rannuvolato (una
materia affine all’ombra) lascia passare la luce selettivamente. La
città si riflette (altra quasi-ombra) nell’acqua, ed è immersa nella
penombra. Su questo sfondo opaco si stagliano pochi edifici che sono
colpiti in pieno dal sole e, su tutti, a destra, una piccola ala di muro
giallo.
Sappiamo l’importanza che questo petit pan de mur jaune
riveste nella Recherche di Proust, visto che rappresenta l’azione
salvifica dell’arte. Bergotte, lo scrittore, uno dei tanti alter ego del
Narratore, che muore felice notando per la prima volta quel giallo
emergente dall’ombra.
L’episodio proustiano ci porta a un secondo
significato dell’ombra, non solo come mancanza della luce, ma come
mancanza della vita, che sta al centro dei poemi in prosa e in poesia di
Jorge Luis Borges, l’Elogio dell’ombra (a cura di Tommaso Scarano,
Adelphi), pubblicato a settant’anni. Borges vivrà quasi altri due
decenni, ma l’ombra attraversa questi scritti in almeno due sensi. Il
primo è quello della cecità: Borges era cieco in modo definitivo dal
1955.
Il possibile sottotitolo sarebbe “memorie di un cieco”, il
titolo che Derrida diede al suo libro sull’autoritratto. Il cieco a cui
Dio (scrive Borges in una poesia non compresa in questa raccolta) ha
fatto il dono ambiguo di una massa sterminata di libri e della cecità.
Dunque il cieco che tocca e annusa i libri, che li ricorda, che se li fa
leggere, ma che non potrà mai più leggerseli da sé. Il secondo è quello
della morte. Una lunga tradizione stoica, che si ritrova in Montaigne e
a cui aderisce Borges, vuole che imparare a vivere consista
nell’imparare a morire.
Ma non sfugge a nessuno l’intrinseca
difficoltà di una simile impresa. Ora, Borges suggerisce che l’ombra ci
insegni cosa sia la morte, e che proprio per questo va elogiata. Come
spesso avviene in Borges, l’elogio sfiora a volte il concettismo, come
nel ricordo di Ricardo Güiraldes, morto poco più che quarantenne nel
1927, e autore di Don Secundo Sombra (dunque l’ombra sta, per così dire,
in ombra). Altre volte è del tutto esplicito, come in A un’ombra, 1940,
in cui Borges prega per l’Inghilterra assediata e invoca l’ombra di De
Quincey («mi senti, amico mio non visto, mi senti attraverso quelle cose
insondabili che sono i mari e la morte?»).
Tutte le volte che
un’ombra si allunga sulla terra, abbiamo un occasione per imparare, se
non a morire, a capire che cosa significa, ed è per questo che nel poema
conclusivo, che intitola la raccolta, Borges considera la cecità un
addestramento alla morte: «Vivo tra forme luminose e vaghe che ancora
non sono tenebra». Ed è così che, in una biblioteca illeggibile, Borges
propone, attraverso l’esperienza dell’ombra, la versione civile dello
stoicismo militare che gli è accaduto spesso di cantare, come negli
indimenticabili versi in memoria di Carlo XII di Svezia: «più solo del
deserto ardi glaciale; non amasti nessuno e ora sei morto».