Il Sole 25.11.17
Sinai. La strage nella moschea: 235 morti
E la jihad adesso fa tremare l’Egitto
di Alberto Negri
Non
ci si poteva illudere che la caduta di Raqqa e la sconfitta dell’Isis
potessero rappresentare la fine del terrorismo e del jihadismo nel mondo
arabo-musulmano neppure in Occidente. Il massacro alla moschea sufi del
Sinai è l’ennesimo promemoria insanguinato.
In Sinai - diventato
dopo la caduta dei Fratelli Musulmani nel 2013 una sorta di Afghanistan
affacciato sul Mediterraneo e il Mar Rosso, a cavallo di un’area
altamente sensibile, al confine con Palestina e stato ebraico,
strategica per il passaggio di pipeline e gasdotti - ne abbiamo avuto
una drammatica prova con l’attentato che ieri ha fatto almeno 235 morti
alla moschea di Bir El Abd, a 60 chilometri da El Airish, capitale del
Sinai settentrionale una delle aree più ribollenti del territorio
egiziano non lontano dalla Striscia palestinese di Gaza.
Non si
cono state ancora rivendicazioni ma la moschea colpita con ordigni
esplosivi artigianali e raffiche di mitra è frequentata dalla tribù
Sawarka, la maggiore del nord del Sinai conosciuta per la sua
collaborazione con l’esercito nella lotta contro l’Isis. In un video
recente lo “Stato islamico del Sinai”, organizzazione affiliata dal 2014
al Califfato, aveva avvertito la popolazione a non cooperare con le
forze di sicurezza. Ma in Sinai non c’è soltanto l’Isis, costituito
dalle milizie, circa 1.500 uomini, di una formazione precedente, Ansar
Beit el Maqdis: la penisola è un concentrato di formazioni jihadiste,
alcune delle quali in concorrenza con il Califfato e affiliate ad Al
Qaida, come quella dei Morabitun, capeggiata da Hisham Ashnawi, ex
ufficiale dell’esercito egiziano. In Sinai si replica uno scenario già
visto in Afghanistan dove i talebani e i gruppi legati ad Al Qaida hanno
dovuto affrontate la concorrenza dei seguaci del Califfato.
L’obiettivo
dei jihadisti è di far implodere un paese come l’Egitto centrale nelle
strategie politiche ed economiche dell’intera area mediterranea e
mediorientale, attraverso l’esportazione della violenza indiscriminata e
di tattiche settarie già adottate in Iraq e in Siria.
Ma uno
degli aspetti più sconcertanti, a pochi mesi dalle elezioni
presidenziali del 2018, è che il generale Al Sisi sta mostrando grandi
incertezze nella lotta al terrorismo. Soltanto giovedì, davanti al
parlamento, il ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar aveva
rassicurato: «La situazione nel Sinai è stabile, i cittadini che vivono
nella penisola adesso sono più sicuri».
Il terrorismo in realtà
colpisce non solo il Sinai ma tutto il Paese. Lo scorso 20 ottobre,
all’oasi di Bahariya, 50 militari sono stati trucidati in una zona
desertica a sud-ovest del Cairo, a metà strada tra il corso del Nilo e
il confine libico. L’area Bahariya occupa una posizione strategica per
la vicinanza al poroso confine libico e il passaggio delle rotte dei
traffici illeciti nella più vasta regione del Sahara-Sahel, da dove si
riforniscono i gruppi ribelli egiziani.
Se è vero che l’Egitto condiziona le mosse del generale Khalifa Haftar, anche la Libia è una spina nel fianco del Cairo.
Il
Wilayat Sinai - emanazione locale dello Stato islamico - rimane
comunque la principale minaccia, responsabile della maggior parte degli
attacchi lanciati in questi anni. Negli ultimi mesi i jihadisti hanno
moltiplicato i loro obiettivi: non solo militari, agenti della polizia e
i cristiani copti ma anche i musulmani che ritengono
“collaborazionisti” dello stato centrale.
E ora, dopo la debàcle
dell’Isis in Siria e in Iraq, c’è anche il ritorno dei foreign fighters
in un’area, quella del Sinai, dove oltre alla presenza del Califfato ci
sono i gruppi qaidisti collegati con i jihadisti dello Yemen e in
Africa, fedeli alla formazione fondata da Osama bin Laden.
L’Egitto
del generale Al Sisi non è mai uscito dallo stato d’emergenza dopo il
colpo di stato del 2013 e deve affrontare tre sfide in contemporanea: il
Califfato nel Sinai, i Fratelli Musulmani nell’Egitto centrale insieme
ai gruppi terroristici jihadisti, i ribelli islamici egiziani e libici
alle frontiere occidentali. Gruppi diversi, per come agiscono e per le
diverse finalità politiche, ma che hanno in comune l’obiettivo di far
collassare il regime trasformando l’Egitto in un Paese confessionale. Al
generale Al Sisi non sono bastate le derive autoritarie, i faraonici
piani di raddoppio del canale di Suez e qualche timida ripresa del
turismo, per avere in pugno il Paese: da un certo punto di vista è
ancora un Raìs dimezzato, con controllo assai labile del Paese e degli
stessi apparati di sicurezza.