Corriere 25.11.17
Pensiero
E l’uomo (creativo ) scoprì sé stesso
La riflessione di Alain Touraine sul significato dell’essere nell’epoca contemporanea
Nel
testo uscito in Francia nel 2015 e tradotto da il Saggiatore il decano
dei sociologi supera i confini della sua disciplina e si avventura nei
territori della filosofia
di Emanuele Severino
Sebbene
non faccia mistero della propria diffidenza nei riguardi della
filosofia, è un saggio filosofico. Anche se non intende esserlo. Mi
riferisco a Noi, soggetti umani , pubblicato ora da il Saggiatore e
uscito in Francia nel 2015. L’autore è Alain Touraine, uno dei maggiori
sociologi viventi. Non è un caso che il filosofo Vincenzo Milanesi
l’abbia invitato all’Università di Padova a presentare il suo libro. Sul
retro del quale si legge: «Sono contento di essere finalmente riuscito
ad approdare in un territorio che non avevo ancora potuto esplorare.
Così contento che vorrei fosse considerato come il mio primo libro». Che
il «territorio» di cui egli parla non sia il trapelare della filosofia?
In effetti, se il libro mostra le grandi capacità analitiche che sono
proprie del suo autore, tuttavia non è un discorso specialistico che
debba confrontarsi con altre forme della specializzazione scientifica,
ma si presenta come una comprensione del nostro tempo, che ponendosi al
di sopra di ogni analisi specialistica intende valere come visione
totale di esso e del suo passato. E questo è sempre stato il carattere
del sapere filosofico. Dicendolo, non intendo partecipare a una disputa
tra forme di sapere che si contendono un povero primato. Si tratta di
capire con che lanterna si guarda il mondo e, vedendo che cosa esso è,
di prendere le misure per viverci.
Per Touraine si sta uscendo
dalla società industriale per entrare in quella dove si fa largo la
coscienza dei «diritti universali» dell’uomo: libertà, uguaglianza,
fratellanza, riassunte dal concetto di «dignità». Gli uomini hanno
questi diritti per la loro «creatività» «senza limiti». Capacità di
«creare e trasformare non solo il loro ambiente, ma anche loro stessi e
l’interpretazione che danno alle loro pratiche» (pagine 13-14). Il
nostro è il tempo in cui la «capacità umana di autocreazione e di
autotrasformazione», che è anche capacità di autodistruzione, va
scoprendo sé stessa. E la creatività umana richiede la fine del «sacro»,
il rifiuto del rimanere «sottoposta alle decisioni di un Dio» (pagina
94) e di ogni potere che voglia limitarla e controllarla e che oggi si
incarna soprattutto nel capitalismo finanziario, nello Stato totalitario
e nelle varie forme di tirannia. In questa «creatività» consiste
l’essere «soggetti umani». Il «soggetto umano» ha una «dignità» che lo
pone al di sopra di tutto perché egli ha la capacità di stare «al di
sopra di tutte le istituzioni, di tutti gli interessi, di tutti i
poteri».
Il concetto di «creatività» è il nucleo del libro. Che è
sì ricchissimo di descrizioni suggestive del modo in cui le vecchie e le
nuove forze si scontrano, si incontrano, si uniscono, si mescolano, e
delle ambiguità, sfaccettature, sfumature di questi processi, ma che
presenta quel nucleo come qualcosa di indiscutibile, e non ne considera
la lunga genesi. Si guardi all’esito di essa, a quel che Nietzsche
scrive. «Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero»!
Nulla! Ma l’uomo è creatore: il «non più creare» è la «grande
stanchezza» che Zarathustra vuol tener lontana da sé: dunque «via da Dio
e dagli dèi»! ( Così parlò Zarathustra , «Sulle isole beate» ). È
necessario saper scendere nel sottosuolo di queste affermazioni per
capire il loro esser tutt’altro che esclamazioni velleitarie. Ma a sua
volta Nietzsche si muove pur sempre nel clima dove l’idealismo pensa a
fondo il concetto di creazione umana. E questo concetto non rinvia forse
al più lontano passato di ciò che chiamiamo «Occidente»?
Nel
libro di Touraine non c’è pagina in cui la creazione umana non venga
nominata. Ma non esiste una pagina in cui il significato di questa
parola venga definito e se ne veda la storia. Troppo filosofica. È vero
che egli considera sempre il creare nel suo incarnarsi in concrete forme
storiche di carattere politico, religioso, economico, ma nemmeno queste
forme sono presentate in modo da far trovare in esse in che consista il
«creare».
A farlo trovare è stata la filosofia, sin dal suo
grande inizio presso il popolo greco. Creare: far crescere, generare,
produrre. Nel Convivio Platone definisce la produzione ( poiesis )
dicendo che essa è la «causa» ( aitia ) per la quale «una cosa qualsiasi
passa dal non essere all’essere». Certo, oggi le parole «essere» e «non
essere» («niente») danno fastidio a molti. Eppure si può dire che ormai
sul Pianeta ogni azione e ogni forma di coscienza (religione, scienza,
politica, industria, tecnica, vita quotidiana, lo stesso inconscio,
ecc.) si reggono su ciò che è indicato da quelle parole e, sì, sul modo
in cui Platone ha definito la produzione. Far esser e non essere le cose
è la forma suprema di potenza. L’uomo ha sempre creduto nella propria
capacità creativo-distruttiva. Da quando Adamo ha creduto di poter
essere come Dio. Ma la filosofia prende coscienza del significato
radicale di ciò in cui l’uomo crede. Lo dico perché Touraine dà
giustamente importanza al prender coscienza di ciò che si è.
È
vero: per la tradizione filosofica le cose del mondo passano dal non
essere all’essere solo in quanto esiste un Dio immutabile (e il mondo è
appunto questo continuo passare — e il suo inverso, cioè la
distruzione). Nietzsche e pochi altri — ossia coloro che chiamo «gli
abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo» — mostrano invece
che se esistesse un Dio non potrebbe esistere quel passare: non potrebbe
esistere il mondo. Lo mostrano e vincono questo grandioso e terribile
scontro, anche se la superficie del nostro tempo — e Touraine si trova
nella più numerosa delle compagnie — si limita sostanzialmente a non
voler più alcun Dio immutabile e alcuna delle forme inviolabili che Dio
assume nel mondo, quali il diritto e il bello naturale, la verità
definitiva, lo Stato assoluto. Quella compagnia si limita a esprimere il
proprio bisogno che Dio e il Sacro e la loro Legislazione non esistano.
Un bisogno, una fede. Non sembra casuale che a un certo punto Touraine
scriva che l’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo, fondati
sulla coscienza della sua «creatività», è «la fede nell’uomo» (pagina
21). Comunque, con Dio o senza Dio, la convinzione nell’esistenza del
passaggio dal non essere all’essere e viceversa si è fatta sempre più
presente nella storia, fino a presentarsi come il sottinteso di tutto
ciò che oggi viene compiuto sulla Terra.
Di particolare rilievo è
il problema che emerge dal rapporto che Touraine istituisce tra la
tecnica moderna e l’uomo in quanto coscienza della propria illimitata
«creatività». Sia pure in mezzo a una folla di controspinte, la tecnica
(da lui considerata sempre, mi sembra, nel suo essere unita alla
produzione industriale) starebbe conducendo verso la maturazione di
quella coscienza. Va però osservato che se quell’illimitata «creatività»
esistesse sarebbe essa la forma suprema di tecnica — l’essenza della
tecnica essendo appunto la capacità di trasformare il mondo. Nel passo
sopra richiamato Platone aggiunge appunto che la tecnica è poiesis .
Quindi la tecnica di cui parla Touraine — che è quella visibile, nota a
tutti — sarebbe un mezzo per incrementare la potenza di tale forma
suprema e avrebbe una potenza inferiore a quest’ultima. Se non fosse
così e la potenza suprema spettasse alla tecnica di cui parla Touraine,
questa potenza non lascerebbe prevalere la «creatività» umana. E
l’intera prospettiva di Touraine sarebbe soltanto un’utopia
irrealizzabile.
Ma la «creatività» umana non può essere la forma
suprema della potenza. Infatti, esiste oggi nel mondo, oltre ai due
protagonisti considerati in questo libro, un convitato di pietra, meno
visibile, di cui nemmeno Touraine tien conto. Il prevalere di questo
convitato è la dimensione verso la quale il mondo sta andando. Si tratta
della tecnica che non ha come scopo la realizzazione dei valori via via
apparsi lungo la storia dell’uomo. Si tratta della tecnica che dunque
non ha come scopo i valori del capitalismo (industriale o finanziario), o
del «comunismo» cinese, o della coscienza religiosa, della tradizione
filosofica dell’Occidente, né quelli, raccomandati da Touraine, della
Rivoluzione francese. Si tratta della tecnica che ha come scopo
l’aumento indefinito della propria potenza e che quindi è inevitabile
che, sebbene ancora sullo sfondo, abbia a prevalere su ogni altro tipo
di tecnica oggi in primo piano.
Per far vivere i valori al
servizio dei quali si trova, la tecnica è infatti costretta a sottrarre
energia alla promozione della propria potenza. Il che non accade al
convitato di pietra, cioè alla tecnica che dedica ogni energia a tale
promozione. Per ora abita anch’essa nel proprio sottosuolo. Dal punto di
vista di quei valori essa è «male» estremo. Ma coloro che prima abbiamo
chiamato «gli abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo» non
mostrano forse che quei valori sono «morti»? Una volta che la
«creazione» — «produzione» viene pensata come poiesis , cioè come
passaggio dal non essere all’essere, e la distruzione come il passaggio
inverso, questa «morte» è inevitabile. Si tratterà poi di guardare in
faccia questo pensiero che sorregge l’intera storia dell’Occidente e
ormai del Pianeta, per stabilire se le sue spalle sono in grado di
sostenere un peso così immane.