sabato 25 novembre 2017

Corriere 25.11.17
Pensiero
E l’uomo (creativo ) scoprì sé stesso
La riflessione di Alain Touraine sul significato dell’essere nell’epoca contemporanea
Nel testo uscito in Francia nel 2015 e tradotto da il Saggiatore il decano dei sociologi supera i confini della sua disciplina e si avventura nei territori della filosofia
di Emanuele Severino

Sebbene non faccia mistero della propria diffidenza nei riguardi della filosofia, è un saggio filosofico. Anche se non intende esserlo. Mi riferisco a Noi, soggetti umani , pubblicato ora da il Saggiatore e uscito in Francia nel 2015. L’autore è Alain Touraine, uno dei maggiori sociologi viventi. Non è un caso che il filosofo Vincenzo Milanesi l’abbia invitato all’Università di Padova a presentare il suo libro. Sul retro del quale si legge: «Sono contento di essere finalmente riuscito ad approdare in un territorio che non avevo ancora potuto esplorare. Così contento che vorrei fosse considerato come il mio primo libro». Che il «territorio» di cui egli parla non sia il trapelare della filosofia? In effetti, se il libro mostra le grandi capacità analitiche che sono proprie del suo autore, tuttavia non è un discorso specialistico che debba confrontarsi con altre forme della specializzazione scientifica, ma si presenta come una comprensione del nostro tempo, che ponendosi al di sopra di ogni analisi specialistica intende valere come visione totale di esso e del suo passato. E questo è sempre stato il carattere del sapere filosofico. Dicendolo, non intendo partecipare a una disputa tra forme di sapere che si contendono un povero primato. Si tratta di capire con che lanterna si guarda il mondo e, vedendo che cosa esso è, di prendere le misure per viverci.
Per Touraine si sta uscendo dalla società industriale per entrare in quella dove si fa largo la coscienza dei «diritti universali» dell’uomo: libertà, uguaglianza, fratellanza, riassunte dal concetto di «dignità». Gli uomini hanno questi diritti per la loro «creatività» «senza limiti». Capacità di «creare e trasformare non solo il loro ambiente, ma anche loro stessi e l’interpretazione che danno alle loro pratiche» (pagine 13-14). Il nostro è il tempo in cui la «capacità umana di autocreazione e di autotrasformazione», che è anche capacità di autodistruzione, va scoprendo sé stessa. E la creatività umana richiede la fine del «sacro», il rifiuto del rimanere «sottoposta alle decisioni di un Dio» (pagina 94) e di ogni potere che voglia limitarla e controllarla e che oggi si incarna soprattutto nel capitalismo finanziario, nello Stato totalitario e nelle varie forme di tirannia. In questa «creatività» consiste l’essere «soggetti umani». Il «soggetto umano» ha una «dignità» che lo pone al di sopra di tutto perché egli ha la capacità di stare «al di sopra di tutte le istituzioni, di tutti gli interessi, di tutti i poteri».
Il concetto di «creatività» è il nucleo del libro. Che è sì ricchissimo di descrizioni suggestive del modo in cui le vecchie e le nuove forze si scontrano, si incontrano, si uniscono, si mescolano, e delle ambiguità, sfaccettature, sfumature di questi processi, ma che presenta quel nucleo come qualcosa di indiscutibile, e non ne considera la lunga genesi. Si guardi all’esito di essa, a quel che Nietzsche scrive. «Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero»! Nulla! Ma l’uomo è creatore: il «non più creare» è la «grande stanchezza» che Zarathustra vuol tener lontana da sé: dunque «via da Dio e dagli dèi»! ( Così parlò Zarathustra , «Sulle isole beate» ). È necessario saper scendere nel sottosuolo di queste affermazioni per capire il loro esser tutt’altro che esclamazioni velleitarie. Ma a sua volta Nietzsche si muove pur sempre nel clima dove l’idealismo pensa a fondo il concetto di creazione umana. E questo concetto non rinvia forse al più lontano passato di ciò che chiamiamo «Occidente»?
Nel libro di Touraine non c’è pagina in cui la creazione umana non venga nominata. Ma non esiste una pagina in cui il significato di questa parola venga definito e se ne veda la storia. Troppo filosofica. È vero che egli considera sempre il creare nel suo incarnarsi in concrete forme storiche di carattere politico, religioso, economico, ma nemmeno queste forme sono presentate in modo da far trovare in esse in che consista il «creare».
A farlo trovare è stata la filosofia, sin dal suo grande inizio presso il popolo greco. Creare: far crescere, generare, produrre. Nel Convivio Platone definisce la produzione ( poiesis ) dicendo che essa è la «causa» ( aitia ) per la quale «una cosa qualsiasi passa dal non essere all’essere». Certo, oggi le parole «essere» e «non essere» («niente») danno fastidio a molti. Eppure si può dire che ormai sul Pianeta ogni azione e ogni forma di coscienza (religione, scienza, politica, industria, tecnica, vita quotidiana, lo stesso inconscio, ecc.) si reggono su ciò che è indicato da quelle parole e, sì, sul modo in cui Platone ha definito la produzione. Far esser e non essere le cose è la forma suprema di potenza. L’uomo ha sempre creduto nella propria capacità creativo-distruttiva. Da quando Adamo ha creduto di poter essere come Dio. Ma la filosofia prende coscienza del significato radicale di ciò in cui l’uomo crede. Lo dico perché Touraine dà giustamente importanza al prender coscienza di ciò che si è.
È vero: per la tradizione filosofica le cose del mondo passano dal non essere all’essere solo in quanto esiste un Dio immutabile (e il mondo è appunto questo continuo passare — e il suo inverso, cioè la distruzione). Nietzsche e pochi altri — ossia coloro che chiamo «gli abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo» — mostrano invece che se esistesse un Dio non potrebbe esistere quel passare: non potrebbe esistere il mondo. Lo mostrano e vincono questo grandioso e terribile scontro, anche se la superficie del nostro tempo — e Touraine si trova nella più numerosa delle compagnie — si limita sostanzialmente a non voler più alcun Dio immutabile e alcuna delle forme inviolabili che Dio assume nel mondo, quali il diritto e il bello naturale, la verità definitiva, lo Stato assoluto. Quella compagnia si limita a esprimere il proprio bisogno che Dio e il Sacro e la loro Legislazione non esistano. Un bisogno, una fede. Non sembra casuale che a un certo punto Touraine scriva che l’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo, fondati sulla coscienza della sua «creatività», è «la fede nell’uomo» (pagina 21). Comunque, con Dio o senza Dio, la convinzione nell’esistenza del passaggio dal non essere all’essere e viceversa si è fatta sempre più presente nella storia, fino a presentarsi come il sottinteso di tutto ciò che oggi viene compiuto sulla Terra.
Di particolare rilievo è il problema che emerge dal rapporto che Touraine istituisce tra la tecnica moderna e l’uomo in quanto coscienza della propria illimitata «creatività». Sia pure in mezzo a una folla di controspinte, la tecnica (da lui considerata sempre, mi sembra, nel suo essere unita alla produzione industriale) starebbe conducendo verso la maturazione di quella coscienza. Va però osservato che se quell’illimitata «creatività» esistesse sarebbe essa la forma suprema di tecnica — l’essenza della tecnica essendo appunto la capacità di trasformare il mondo. Nel passo sopra richiamato Platone aggiunge appunto che la tecnica è poiesis . Quindi la tecnica di cui parla Touraine — che è quella visibile, nota a tutti — sarebbe un mezzo per incrementare la potenza di tale forma suprema e avrebbe una potenza inferiore a quest’ultima. Se non fosse così e la potenza suprema spettasse alla tecnica di cui parla Touraine, questa potenza non lascerebbe prevalere la «creatività» umana. E l’intera prospettiva di Touraine sarebbe soltanto un’utopia irrealizzabile.
Ma la «creatività» umana non può essere la forma suprema della potenza. Infatti, esiste oggi nel mondo, oltre ai due protagonisti considerati in questo libro, un convitato di pietra, meno visibile, di cui nemmeno Touraine tien conto. Il prevalere di questo convitato è la dimensione verso la quale il mondo sta andando. Si tratta della tecnica che non ha come scopo la realizzazione dei valori via via apparsi lungo la storia dell’uomo. Si tratta della tecnica che dunque non ha come scopo i valori del capitalismo (industriale o finanziario), o del «comunismo» cinese, o della coscienza religiosa, della tradizione filosofica dell’Occidente, né quelli, raccomandati da Touraine, della Rivoluzione francese. Si tratta della tecnica che ha come scopo l’aumento indefinito della propria potenza e che quindi è inevitabile che, sebbene ancora sullo sfondo, abbia a prevalere su ogni altro tipo di tecnica oggi in primo piano.
Per far vivere i valori al servizio dei quali si trova, la tecnica è infatti costretta a sottrarre energia alla promozione della propria potenza. Il che non accade al convitato di pietra, cioè alla tecnica che dedica ogni energia a tale promozione. Per ora abita anch’essa nel proprio sottosuolo. Dal punto di vista di quei valori essa è «male» estremo. Ma coloro che prima abbiamo chiamato «gli abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo» non mostrano forse che quei valori sono «morti»? Una volta che la «creazione» — «produzione» viene pensata come poiesis , cioè come passaggio dal non essere all’essere, e la distruzione come il passaggio inverso, questa «morte» è inevitabile. Si tratterà poi di guardare in faccia questo pensiero che sorregge l’intera storia dell’Occidente e ormai del Pianeta, per stabilire se le sue spalle sono in grado di sostenere un peso così immane.

Repubblica 25.11.7
Ogni ombra è illuminata
di Maurizio Ferraris

Cercare un po’ d’ombra in una giornata calda sembra uno dei pochi valori positivi di questa compagna che non ci abbandona mai, almeno fino a che c’è un po’ di luce. Per il resto, è illusione, come nelle ombre cinesi che rappresentano gli inganni cui sono soggetti gli umani nella Repubblica di Platone, mancanza (della luce, e della cosa che proietta l’ombra), difetto: «siamo un’ombra profonda», diceva Giordano Bruno, e non era un complimento. La presenza dell’ombra in pittura, tuttavia, non è ovvia. Per quanto il termine skiagraphia, pittura con l’ombra, sia greco e si trovi, per esempio, in Platone, non si è riusciti mai a capire che cosa designasse esattamente: un chiaroscuro, una pittura fortemente effettistica, una sorta di stile divisionistico. Sta di fatto che la pittura greca, e in generale quella antica, usa l’ombra con parsimonia, soprattutto quando si tratta dell’ombra portata, quella che una cosa proietta fuori di sé.
Senza dimenticare poi che, in tutte le tradizioni pittoriche in cui prevale la bidimensionalità (la pittura vascolare greca, la pittura egizia, quella cinese, i fumetti), non c’è traccia neppure dell’ombra propria, quella che una cosa proietta su di sé. Però, imparare a guardare le opere partendo dall’ombra è un consiglio che mi sentirei di dare a chiunque. Avremmo infatti non dico un mondo capovolto, ma uno sguardo straniato e illuminante.
Di qui l’importanza del saggio di Ernst Gombrich Ombre. La rappresentazione dell’ombra portata nell’arte occidentale (Einaudi, con una introduzione di John Penny) che accompagnava una mostra alla National Gallery di Londra del 1995, è circoscritta al patrimonio del museo, eppure basta a illustrare le potenzialità e i capovolgimenti che vengono apportati dall’ombra. Le ombre naturali dell’alba e del tramonto nei paesaggi, quelle soprannaturali di Goya, quelle surreali di Pontormo e di de Chirico, quelle indisciplinate di Picasso. E ovviamente le ombre che prevalgono sulla luce, come avviene nei notturni, e nell’esperienza umana ordinaria sino all’invenzione della luce elettrica. Tra le funzioni essenziali dell’ombra, osserva Gombrich, la principale è proprio quella di valorizzare la luce. Restringendosi al patrimonio della National Gallery, l’analisi di Gombrich non può includere il quadro in cui questo principio è realizzato nella forma più alta, La veduta di Delft di Vermeer. Il cielo irregolarmente rannuvolato (una materia affine all’ombra) lascia passare la luce selettivamente. La città si riflette (altra quasi-ombra) nell’acqua, ed è immersa nella penombra. Su questo sfondo opaco si stagliano pochi edifici che sono colpiti in pieno dal sole e, su tutti, a destra, una piccola ala di muro giallo.
Sappiamo l’importanza che questo petit pan de mur jaune riveste nella Recherche di Proust, visto che rappresenta l’azione salvifica dell’arte. Bergotte, lo scrittore, uno dei tanti alter ego del Narratore, che muore felice notando per la prima volta quel giallo emergente dall’ombra.
L’episodio proustiano ci porta a un secondo significato dell’ombra, non solo come mancanza della luce, ma come mancanza della vita, che sta al centro dei poemi in prosa e in poesia di Jorge Luis Borges, l’Elogio dell’ombra (a cura di Tommaso Scarano, Adelphi), pubblicato a settant’anni. Borges vivrà quasi altri due decenni, ma l’ombra attraversa questi scritti in almeno due sensi. Il primo è quello della cecità: Borges era cieco in modo definitivo dal 1955.
Il possibile sottotitolo sarebbe “memorie di un cieco”, il titolo che Derrida diede al suo libro sull’autoritratto. Il cieco a cui Dio (scrive Borges in una poesia non compresa in questa raccolta) ha fatto il dono ambiguo di una massa sterminata di libri e della cecità. Dunque il cieco che tocca e annusa i libri, che li ricorda, che se li fa leggere, ma che non potrà mai più leggerseli da sé. Il secondo è quello della morte. Una lunga tradizione stoica, che si ritrova in Montaigne e a cui aderisce Borges, vuole che imparare a vivere consista nell’imparare a morire.
Ma non sfugge a nessuno l’intrinseca difficoltà di una simile impresa. Ora, Borges suggerisce che l’ombra ci insegni cosa sia la morte, e che proprio per questo va elogiata. Come spesso avviene in Borges, l’elogio sfiora a volte il concettismo, come nel ricordo di Ricardo Güiraldes, morto poco più che quarantenne nel 1927, e autore di Don Secundo Sombra (dunque l’ombra sta, per così dire, in ombra). Altre volte è del tutto esplicito, come in A un’ombra, 1940, in cui Borges prega per l’Inghilterra assediata e invoca l’ombra di De Quincey («mi senti, amico mio non visto, mi senti attraverso quelle cose insondabili che sono i mari e la morte?»).
Tutte le volte che un’ombra si allunga sulla terra, abbiamo un occasione per imparare, se non a morire, a capire che cosa significa, ed è per questo che nel poema conclusivo, che intitola la raccolta, Borges considera la cecità un addestramento alla morte: «Vivo tra forme luminose e vaghe che ancora non sono tenebra». Ed è così che, in una biblioteca illeggibile, Borges propone, attraverso l’esperienza dell’ombra, la versione civile dello stoicismo militare che gli è accaduto spesso di cantare, come negli indimenticabili versi in memoria di Carlo XII di Svezia: «più solo del deserto ardi glaciale; non amasti nessuno e ora sei morto».

Il Sole 25.11.17
Sinai. La strage nella moschea: 235 morti
E la jihad adesso fa tremare l’Egitto
di Alberto Negri

Non ci si poteva illudere che la caduta di Raqqa e la sconfitta dell’Isis potessero rappresentare la fine del terrorismo e del jihadismo nel mondo arabo-musulmano neppure in Occidente. Il massacro alla moschea sufi del Sinai è l’ennesimo promemoria insanguinato.
In Sinai - diventato dopo la caduta dei Fratelli Musulmani nel 2013 una sorta di Afghanistan affacciato sul Mediterraneo e il Mar Rosso, a cavallo di un’area altamente sensibile, al confine con Palestina e stato ebraico, strategica per il passaggio di pipeline e gasdotti - ne abbiamo avuto una drammatica prova con l’attentato che ieri ha fatto almeno 235 morti alla moschea di Bir El Abd, a 60 chilometri da El Airish, capitale del Sinai settentrionale una delle aree più ribollenti del territorio egiziano non lontano dalla Striscia palestinese di Gaza.
Non si cono state ancora rivendicazioni ma la moschea colpita con ordigni esplosivi artigianali e raffiche di mitra è frequentata dalla tribù Sawarka, la maggiore del nord del Sinai conosciuta per la sua collaborazione con l’esercito nella lotta contro l’Isis. In un video recente lo “Stato islamico del Sinai”, organizzazione affiliata dal 2014 al Califfato, aveva avvertito la popolazione a non cooperare con le forze di sicurezza. Ma in Sinai non c’è soltanto l’Isis, costituito dalle milizie, circa 1.500 uomini, di una formazione precedente, Ansar Beit el Maqdis: la penisola è un concentrato di formazioni jihadiste, alcune delle quali in concorrenza con il Califfato e affiliate ad Al Qaida, come quella dei Morabitun, capeggiata da Hisham Ashnawi, ex ufficiale dell’esercito egiziano. In Sinai si replica uno scenario già visto in Afghanistan dove i talebani e i gruppi legati ad Al Qaida hanno dovuto affrontate la concorrenza dei seguaci del Califfato.
L’obiettivo dei jihadisti è di far implodere un paese come l’Egitto centrale nelle strategie politiche ed economiche dell’intera area mediterranea e mediorientale, attraverso l’esportazione della violenza indiscriminata e di tattiche settarie già adottate in Iraq e in Siria.
Ma uno degli aspetti più sconcertanti, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali del 2018, è che il generale Al Sisi sta mostrando grandi incertezze nella lotta al terrorismo. Soltanto giovedì, davanti al parlamento, il ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar aveva rassicurato: «La situazione nel Sinai è stabile, i cittadini che vivono nella penisola adesso sono più sicuri».
Il terrorismo in realtà colpisce non solo il Sinai ma tutto il Paese. Lo scorso 20 ottobre, all’oasi di Bahariya, 50 militari sono stati trucidati in una zona desertica a sud-ovest del Cairo, a metà strada tra il corso del Nilo e il confine libico. L’area Bahariya occupa una posizione strategica per la vicinanza al poroso confine libico e il passaggio delle rotte dei traffici illeciti nella più vasta regione del Sahara-Sahel, da dove si riforniscono i gruppi ribelli egiziani.
Se è vero che l’Egitto condiziona le mosse del generale Khalifa Haftar, anche la Libia è una spina nel fianco del Cairo.
Il Wilayat Sinai - emanazione locale dello Stato islamico - rimane comunque la principale minaccia, responsabile della maggior parte degli attacchi lanciati in questi anni. Negli ultimi mesi i jihadisti hanno moltiplicato i loro obiettivi: non solo militari, agenti della polizia e i cristiani copti ma anche i musulmani che ritengono “collaborazionisti” dello stato centrale.
E ora, dopo la debàcle dell’Isis in Siria e in Iraq, c’è anche il ritorno dei foreign fighters in un’area, quella del Sinai, dove oltre alla presenza del Califfato ci sono i gruppi qaidisti collegati con i jihadisti dello Yemen e in Africa, fedeli alla formazione fondata da Osama bin Laden.
L’Egitto del generale Al Sisi non è mai uscito dallo stato d’emergenza dopo il colpo di stato del 2013 e deve affrontare tre sfide in contemporanea: il Califfato nel Sinai, i Fratelli Musulmani nell’Egitto centrale insieme ai gruppi terroristici jihadisti, i ribelli islamici egiziani e libici alle frontiere occidentali. Gruppi diversi, per come agiscono e per le diverse finalità politiche, ma che hanno in comune l’obiettivo di far collassare il regime trasformando l’Egitto in un Paese confessionale. Al generale Al Sisi non sono bastate le derive autoritarie, i faraonici piani di raddoppio del canale di Suez e qualche timida ripresa del turismo, per avere in pugno il Paese: da un certo punto di vista è ancora un Raìs dimezzato, con controllo assai labile del Paese e degli stessi apparati di sicurezza.

Corriere 25.11.17
In un santuario dei mistici sufi il massacro più sanguinoso dell’Egitto moderno Almeno 235 vittime, oltre cento feriti. La mano dei jihadisti affiliati all’Isis
Tritolo e cecchini: è strage di fedeli
di Davide  Frattini

GERUSALEMME La moschea è affollata per le preghiere del venerdì, la frequentano soprattutto i sufi, i mistici dell’Islam, nel giorno più sacro la frequentano un po’ tutti, i padri ci portano i figli, è un momento di festa. Gli attentatori hanno piazzato le cariche di tritolo dentro la sala dipinta di bianco, tra i fedeli inginocchiati. Le esplosioni danno inizio alla strage, i cecchini appostati fuori la completano: sparano su chi prova a scappare, sui soccorritori che tentano di intervenire, incendiano le auto attorno perché le ambulanze non riescano ad arrivare. I morti sono almeno 235, i feriti 109, l’attacco più sanguinoso contro i civili nella storia dell’Egitto moderno.
Gli assalitori sono arrivati al villaggio di Bir al-Abed, nel nord del Sinai, a bordo dei pick-up che usano per mobilitare centinaia di uomini in poche ore: «i cammelli d’acciaio» esaltati dai beduini montano le mitragliatrici sulla gobba e dai vetri oscurati spuntano i lanciagranate.
Il gruppo Ansar Bait al-Maqdis — che tre anni fa ha giurato fedeltà al Califfato — si sta dimostrando uno degli affiliati più efficaci nella strategia del terrore: nell’ottobre del 2015 gli estremisti sono riusciti a mettere una bomba su un aereo russo, distrutto poco dopo il decollo da Sharm el Sheikh con 224 persone a bordo. Lo Stato Islamico in ritirata dalla Siria e dall’Iraq spadroneggia ancora da queste parti.
Abdel Fattah al Sisi, il generale diventato presidente, considera quella in Sinai una guerra totale, le operazioni militari di questi anni — ieri è stata lanciata l’ennesima con il nome «vendetta per i martiri», «una risposta brutale» proclama Sisi — non sono riuscite a ristabilire l’ordine in quello che gli storici egiziani chiamano «lo scatolone di sabbia». La penisola che scende nel Mar Rosso si estende per 61 mila chilometri quadrati, due volte la valle e il delta del Nilo messi insieme, tre volte Israele e duecento la Striscia di Gaza. Con tutti e tre confina, a tutti e tre ha creato problemi.
Non ci sono ancora rivendicazioni ma in gennaio Rumiyah — Roma, una rivista online pubblicata dai propagandisti dello Stato Islamico — aveva intervistato l’emiro che guida l’Hisbah in Sinai. Il capo di questa buoncostume fanatica bollava i sufi come apostati e la loro corrente islamica «una delle malattie peggiori». Qualche mese dopo i miliziani in nero hanno decapitato Suleiman Abu Haraz, uno dei mistici più venerati, con l’accusa di stregoneria. Aveva 98 anni.

Repubbblica 25.11.17
Mohammed Bin Salman
Se cambia Riad cambia l’Islam in tutto il mondo
Il principe ereditario parla di arresti e riforme Poi attacca l’Iran: “ Khamenei è il nuovo Hitler”
di Thomas L. Friedman

RIAD Non ho mai pensato che avrei vissuto così a lungo da scrivere questa frase: «Il processo di riforme più significativo in corso in Medio Oriente è in Arabia Saudita».
Avete letto bene: questo Paese vive la sua Primavera araba. A differenza delle altre – nate tutte dal basso e fallite, a eccezione della Tunisia – questa è stata calata dall’alto dal 32enne principe ereditario, Mohammed bin Salman e, se avrà successo, non cambierà soltanto l’Arabia Saudita, ma anche l’Islam in tutto il pianeta.
Per comprendere meglio le cose, mi sono recato a Riad per intervistare il principe ereditario meglio noto come MBS. La nostra chiacchierata è partita da una domanda ovvia: gli arresti di principi e dignitari erano un gioco di potere finalizzato a eliminare i rivali prima che il padre, re Salman, gli affidi le chiavi del regno? «Assurdità», ha risposto il principe. Le cose, ha detto, sono andate così: «Dagli anni ‘80 a oggi il nostro Paese ha sofferto moltissimo a causa della corruzione. Ogni anno la corruzione ha assorbito il 10% della spesa pubblica». Ha poi spiegato che agli arrestati sono state offerte due possibilità: «Abbiamo mostrato le prove che avevamo e subito il 95% di loro ha acconsentito a raggiungere un accordo», il che significa che ha restituito allo Stato soldi in contanti o azioni. «Quanto denaro è stato recuperato?», ho chiesto. Per MBS la cifra complessiva «potrebbe aggirarsi intorno ai 100 miliardi di dollari». Ma la campagna anticorruzione è solo la seconda iniziativa importante che MBS ha lanciato ultimamente. La prima è riportare l’Islam saudita al suo orientamento più moderno, da cui si allontanò nel 1979. So bene cosa avvenne quell’anno. La mia carriera di reporter in Medio Oriente ebbe inizio a Beirut nel 1979, e buona parte della regione di cui mi sono occupato fin da allora è stata plasmata da tre eventi che ebbero luogo quell’anno: la conquista della Grande Moschea della Mecca da parte degli estremisti puritani sauditi; la rivoluzione islamica in Iran e l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Insieme, quei tre avvenimenti intimorirono la famiglia regnante e la indussero a puntellare la sua legittimità permettendo al clero wahabita di imporre un Islam molto più rigido e di lanciare una sorta di gara con gli ayatollah iraniani.
MBS non soltanto ha posto un freno all’autorità della temutissima polizia religiosa, che rimproverava le donne che non coprono ogni centimetro di pelle, ma ha anche autorizzato le donne a guidare.
Certo, l’Arabia Saudita avrà ancora moltissima strada da percorrere, prima di avvicinarsi agli standard occidentali su libertà di parola e diritti delle donne. In ogni caso, mi colpisce profondamente che adesso a Riad si possano ascoltare concerti. Molte di queste riforme sono attese da così tanto tempo che appaiono quasi ridicole.
Meglio tardi che mai, però.
Per quanto riguarda la politica estera, MBS non ha voluto discutere del primi ministro libanese Saad Hariri che, arrivato in Arabia Saudita, ha annunciato le sue dimissioni e ritornato poi a Beirut le ha ritirate. Il principe ereditario ha ribadito che la guerra in Yemen appoggiata dai sauditi – diventata un vero incubo sul piano umanitario – si sta orientando verso il governo legittimo pro-saudita. In generale, la sua opinione è grazie al sostegno dell’Amministrazione Trump – che ha elogiato e definito «la persona giusta al momento giusto» – i sauditi e i loro alleati arabi stanno formando una coalizione contro l’Iran.
Contrapporsi all’Iran è uno dei motivi per i quali MBS è stato caustico a proposito del leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei. «E’ il nuovo Hitler del Medio Oriente», ha detto. «Ma noi abbiamo imparato dall’Europa che assecondare non serve a nulla».
Ciò che più conta, tuttavia, è quello che l’Arabia Saudita farà per consolidare la sua economia.
MBS e il suo team di collaboratori riusciranno a perseverare nel loro intento?Non posso fare previsioni. Qualcuno, però, dovrà pur traghettare l’Arabia Saudita nel XXI secolo. E MBS si è fatto avanti.
Traduzione di Anna Bissanti

La Stampa 25.11.17
Il punto debole del Cairo
di Marco Bertolini

Quello che è avvenuto a Bir al-Abed nel Nord Sinai e che ha portato alla morte di oltre 200 persone ed al ferimento di 130 non è un semplice attentato ma un attacco complesso vero e proprio, nel quale all’iniziale esplosione all’interno di una moschea è seguito il fuoco di diverse armi automatiche contro i fedeli in fuga, ad opera di un numero imprecisato di terroristi. Insomma, un’azione di taglio militare, pianificata, manovrata e coordinata nel dettaglio, non la semplice opera sciagurata di un gruppetto di esaltati. A parte queste considerazioni operative, l’evento merita alcune considerazioni di carattere più generale.
Prima di tutto, c’è da considerare il teatro mediorientale nel suo complesso, nel quale si prospettano nuovi equilibri e probabilmente altre frizioni con l’ormai prossima sconfitta dello Stato Islamico (Isis) in Siria ed Iraq. Da mesi, infatti, assistiamo a riposizionamenti politici e a eventi tattici importanti, quali la rottura tra Arabia Saudita e Qatar per l’asserita vicinanza di quest’ultimo all’Iran, l’espansione curda a Nord dell’Eufrate in Siria con l’appoggio degli Stati Uniti fronteggiata dal riacquisito controllo da parte siriana della riva destra del fiume fino al confine con l’Iraq.
Inoltre, il recentissimo repulisti governativo del principe saudita Bin Salman (estremamente ostile all’Iran) motivato dall’onnipresente scusa della lotta alla corruzione, nonché le dimissioni, poi ritirate, del primo ministro libanese Hariri che rischiavano di far ripiombare il Libano nell’incubo istituzionale dal quale era appena uscito.
Infine, la prossima conferenza sulla pace in Siria tra Russia, Turchia e Iran potrebbe innestare un «virus» anche nella compagine Nato di cui gli Usa sono il capofila. Insomma, è in atto un complesso rimescolamento strategico, da parte dei principali protagonisti del conflitto siro-iracheno, dal quale potrebbe derivare una nuova fase operativa non più centrata in quel teatro, con l’impiego delle forze del Califfato in libera uscita. In tale eventualità, il Sinai dimostra di essere un’area di particolare criticità, vero e proprio tallone d’Achille del presidente egiziano Al-Sisi, nella quale l’esercito egiziano fronteggia da anni una guerriglia sempre più baldanzosa che ha allontanato le rotte del turismo internazionale trasformando il divertimentificio di Sharm el-Sheik in una vuota cattedrale nel deserto. Non giova certamente ad Al-Sisi, in tale contesto, neanche il raffreddamento delle relazioni con l’Arabia Saudita dopo l’apprezzamento espresso dall’Egitto nei confronti dell’intervento russo in Siria e il ridimensionamento del supporto offerto a Riad nella guerra agli Houti nello Yemen. I sauditi non gradiscono certamente, infatti, un’affermazione di Assad e vedono come il fumo negli occhi tutte quelle prese di posizione che possono essere a vantaggio suo o, peggio, a vantaggio dell’odiatissimo Iran, sponsor degli Houti e di Hezbollah. Un altro aspetto da considerare, anche se non il principale, è quello di carattere confessionale. Quella in cui si è sviluppato l’attacco è infatti una moschea sufi, espressione della componente più mistica dell’Islam, sia sciita sia sunnita, tradizionalmente contraria all’uso della forza e decisamente tollerante nei confronti delle altre religioni. Potrebbe, in altre parole, trattarsi di un sanguinoso avvertimento a quelle componenti musulmane, non solo egiziane, che prendono le maggiori distanze dall’Isis, accusato di vera e propria eresia per le azioni delle quali è responsabile. L’evento merita anche un paio di annotazioni sul ruolo dell’Italia. Nel Sinai opera dal 1978 un contingente internazionale per il controllo dell’applicazione degli accordi di Camp David tra Israele ed Egitto nel quale l’Italia impiega una flottiglia di «pattugliatori» per assicurare il libero transito nello stretto di Tiran, all’imbocco del Golfo di Aqaba su cui si affacciano Egitto, Israele, Giordania ed Arabia Saudita. Il resto del contingente internazionale vigila su tutto il confine con Israele ed è stato ripetutamente interessato da azioni offensive da parte della guerriglia senza peraltro subire perdite importanti. E’ comunque certo che da ieri le «antenne» saranno tenute ancora più dritte. Infine, è da registrare la prontezza con la quale il governo italiano ed il presidente Mattarella hanno fatto giungere le espressioni del nostro cordoglio ad Al-Sisi, con l’assicurazione del nostro supporto nella lotta al terrorismo islamista, lotta di cui l’Egitto rappresenta un elemento fondamentale. Dopo il lungo gelo della «crisi Regeni», finalmente, un gesto di riavvicinamento, ancorché semplicemente dovuto e formale, del quale la stabilità del nostro bacino e la nostra sicurezza stessa non possono che beneficiare.

Il Fatto 25.11.17
Sinai, ecatombe in moschea. Il caos jihadista su Al-Sisi
Attacco degli estremisti islamici ai sufi durante la preghiera con bombe e mitra: l’imam a capo della funzione era stato minacciato
di Andrea Valdambrini

È di almeno 235 morti e 120 feriti il bilancio dell’attentato in una moschea nel nord della penisola del Sinai, in Egitto. L’attacco terroristico – il più grave dal 2013 nella regione e uno dei più sanguinosi nella storia egiziana – è stato sferrato nel villaggio di al-Rawda poco dopo la preghiera del venerdì. Per ricordarne uno di uguale intensità si deve tornare al 31 ottobre 2015 con l’esplosione in volo di un aereo di linea pieno di turisti: 224 morti.
I responsabili dell’attacco hanno usato esplosivi, lanciarazzi e fucili d’assalto. Alcuni di loro sarebbero stati uccisi durante il conflitto a fuoco con la polizia.
Anche se manca una rivendicazione formale, l’ipotesi più accreditata è che l’azione sia da attribuire all’Isis, che ha voluto colpire con ferocia un luogo di culto frequentato da musulmani seguaci del sufismo, una corrente mistica, considerata eretica dai jihadisti.
L’imam della moschea colpita dall’attacco, secondo fonti di stampa egiziane, organizzava due volte a settimana culti sufi e aveva ricevuto di recente minacce che puntavano a farlo smettere. Lo stesso prelato sarebbe stato caduto nel raid degli estremisti islamici.
Il presidente Abel Fattah al-Sisi, nemico giurato dei terroristi, in seguito all’attentato ha annunciato una “risposta brutale”, in effetti già iniziata con il bombardamento delle basi dei terroristi, nel quadro dell’operazione “Vendetta per i martiri”, che va avanti dal 2014.
“I jihadisti hanno voluto colpire esattamente i proclami del presidente, secondo cui il Sinai sarebbe pacificato”, commenta Giuseppe Dentice, ricercatore dell’Ispi di Milano ed esperto di Egitto.
“Il terrore lancia anche un messaggio intimidatorio nei confronti della popolazione, che di recente stava collaborando con le forze di sicurezza egiziane e quindi voltando le spalle all’Isis”.
La violenza jihadista non è purtroppo una novità, in Sinai. Non più tardi di settembre, i miliziani del gruppo locale affiliato all’Isis avevano circondato alcuni blindati dell’esercito e ucciso 18 soldati in un’imboscata nei pressi di el-Arish, nel nord della penisola. A luglio ne erano stati uccisi 23 nell’avamposto di confine di Rafah. La regione, al confine tra Egitto, Israele e la Striscia di Gaza, è instabile fin dalla caduta del regime di Mubarak nel 2011.
Lo scontro tra i jihadisti del Sinai e Il Cairo è esploso dopo che al-Sisi ha preso il potere nel 2013, mettendo fine alla presidenza di Mohammed Morsi, leader di un partito legato al gruppo fondamentalista dei Fratelli Musulmani. Da allora, una lunga scia di attacchi a poliziotti e militari, in un’escalation di violenza nutrita anche dall’ostilità delle popolazioni beduine verso il governo centrale da cui si sentono abbandonati.
I gruppi jihadisti del Sinai giurano fedeltà al Califfato nel novembre 2014. Il principale tra questi è Ansar Beit al-Maqdis (“sostenitori di Gerusalemme”), i cui miliziani, si stima, sono tra i 1.000 e i 1.500. Il primo attacco firmato Isis risale all’ottobre 2014, quando furono uccisi 33 militari. L’allora primo ministro egiziano Irahim Mehleb descrisse la situazione del Sinai parlando apertamente di stato di guerra. Le autorità egiziane, sotto la guida di Al-Sisi, hanno cominciato allora l’operazione antiterrorismo “Vendetta per i martiri”, concentrata soprattutto sulla parte nord della penisola dove hanno luogo la maggior parte degli attentati. I jihadisti hanno intensificato gli attacchi (nel 2016 se ne sono ha contati decine).
Se il periferico Sinai rappresenta l’epicentro del terrore, anche le zone più centrali del Paese non sono risparmiate dagli attacchi di matrice islamista. È passato quasi un anno dall’esplosione di una bomba e contro la cattedrale cristiana copta di San Marco al Cairo, che ha fatto 25 morti e decine di feriti. La minoranza cristiana, nel mirino anche per la sua ostilità a Morsi, è stata colpita altre volte; nell’attentato alla chiesa di San Marco (2 morti nell’aprile 2013), e il 9 aprile con un duplice attentato kamikaze in due chiese durante la Domenica delle Palme: 48 le vittime.

La Stampa 25.11.17
Il vuoto che allarma la Chiesa: mancano ottomila parroci
Tra i motivi dell’emergenza c’è il calo delle vocazioni
Molte diocesi facilitano l’arrivo di seminaristi stranieri
di Domenico Agasso Jr Andrea Tornielli

Ci dovremo abituare alla scomparsa della tradizionale figura del parroco, guida unica della chiesa che sorge vicino a casa nostra, factotum per i sacramenti, il culto, l’oratorio e le attività sociali. Lo dicono i numeri (forniti dalla Conferenza episcopale italiana e dall’Istituto centrale per il Sostentamento del Clero): nelle 224 diocesi italiane le parrocchie sono 25.610, mentre i parroci 16.905. Il bilancio è un meno 8.705, che significa: molti sacerdoti devono guidare due o tre parrocchie, quando va bene. Quando va male, anche 15, anche 19, come don Maurizio Toldo nella diocesi di Trento. In loro aiuto ci sono 6.922 viceparroci, ma la coperta resta corta. E senza prospettive di inversione di rotta: il calo di vocazioni – circa il 12% nell’ultimo decennio - interessa anche il nostro Paese.
Dunque non è pensabile mantenere in vita come un tempo tutta la rete capillare di parrocchie e chiese che intessono le strutture delle città e dei paesi, tantomeno garantire le messe in orari comodi per tutti. Ma se il modello don Camillo, immortalato nei romanzi di Giovannino Guareschi e citato anche da Papa Francesco al recente convegno della Chiesa italiana di Firenze, appare in declino, questo non significa che le parrocchie rimarranno senza un prete. Paragonare solo il numero delle parrocchie con quello dei parroci può servire a prendere coscienza del problema, ma rischia di essere fuorviante. Infatti ci sono altre cifre di cui tenere conto: i sacerdoti – secolari, ossia diocesani, e religiosi appartenenti a famiglie religiose – sono infatti quasi 35mila, di cui, nel 2016, 31.728 attivi, mentre 3.082 sono non operativi per motivi di età o di salute (senza dimenticare i 399 impegnati nelle missioni del Terzo Mondo).
Poi, già da diversi anni le diocesi si sono attrezzate per sopperire alla mancanza di clero: c’è chi ha favorito l’arrivo di seminaristi da altre nazioni, in particolare dall’Africa, l’America latina e l’Asia. Più di mille, si legge in un dossier della rivista Popoli e Missione delle Pontificie Opere missionarie. E c’è chi ha sperimentato le unità pastorali, come volle fare vent’anni fa il cardinale Carlo Maria Martini a Milano, unendo alcune parrocchie a due a due, e ponendole sotto la responsabilità di un unico parroco. Le unità pastorali sono state poi trasformate in comunità pastorali: la parrocchia resta, con un prete che vi risiede, ma è inserita in una comunità più grande, che raduna diverse parrocchie sotto un unico responsabile che rimane in carica per 9 anni e un direttivo che vede presenti gli altri preti, ma anche laici. «In certi casi – spiegano dalla diocesi di Milano – c’è un’unica comunità pastorale che raggruppa tutte le parrocchie del paese: come nel caso di Cernusco sul Naviglio, tre parrocchie unite, o Brugherio, quattro parrocchie unite. Ogni parrocchia continua ad avere un prete che vi risiede, ma non è più il parroco». Nella diocesi ambrosiana le parrocchie sono 1107, i parroci poco meno di 800, i preti – compresi i religiosi e quelli ritirati – sono circa 3.000.
La necessità di coordinare meglio le forze esistenti è ben visibile anche nei centri storici: a Chioggia, in provincia di Venezia, città lagunare con moltissime chiese, c’è un responsabile unico per quattro parrocchie, ma in ognuna viene celebrata la messa grazie anche all’aiuto dei sacerdoti anziani.
Nei paesi di provincia i campanilismi – anche parrocchiali - sono più difficili da superare, ma ci si dovrà fare una ragione, perché la tendenza generale è quella per esempio di Carmagnola, nel Torinese, circa 30mila abitanti: fino a pochi anni fa c’erano 7 parroci per 7 parrocchie, ora i parroci sono 3, aiutati da un viceparroco e 7 preti tra cui quattro in pensione. Meno battuta è un’altra via, quella del coinvolgimento dei laici, che costituendo comunità di famiglie possano vivere nella parrocchia facendosene carico per tutto ciò che non richiede la presenza del prete.

La Stampa 25.11.17
Cento parrocchie senza parroco
Il prete è part-time L’arcivescovo: tre ordinazioni l’anno e dieci decessi
di Maria Teresa Martinengo

Nella diocesi di Torino cento parrocchie su 355 sopravvivono ormai senza parroco residente. Il fenomeno ne riguarda oltre dieci in città, le altre sono soprattutto nelle Valli di Lanzo e nel Canavese. Nelle valli ci sono sacerdoti che ne curano anche quattro, cinque. «Quando sono diventato arcivescovo di Torino, sette anni fa, i preti erano 550, ora sono circa 480. Abbiamo in media tre ordinazioni l’anno, mentre i decessi sono una decina. La mancanza di preti - spiega monsignor Cesare Nosiglia - comporta la necessità di mettere insieme parrocchie vicine. Il percorso prevede, molto gradualmente, di unire le comunità a partire dai consigli pastorali, dalla pastorale giovanile, da quella della carità. Bisogna camminare insieme, far crescere sensibilità, valorizzare risorse personali. I laici oggi devono sentirsi corresponsabili, dando il loro contributo alla missionarietà, alla Chiesa in uscita». Le unioni si realizzano con stili diversi e diversi aiuti: qui suore, là collaboratori. «Ci sono religiosi o preti anziani che aiutano per le confessioni. La responsabilità degli indirizzi è dei parroci. Che sono oberati perché le incombenze raddoppiano: certamente è più facile avere una parrocchia che due piccole». Nel presente accade anche qualche episodio «estremo», come pochi giorni fa a Borgaretto: un sacerdote che coadiuva il parroco ha mancato l’appuntamento con una Messa. «Per fortuna un ministro straordinario dell’Eucarestia - ricorda l’arcivescovo - ha preso in mano la situazione. I ministri straordinari possono fare la liturgia della Parola e distribuire l’Eucarestia. Ma l’episodio conferma le difficoltà che attraversiamo».

La Stampa 25.11.17
“I preti rimasti faticano il doppio
È necessario l’aiuto dei laici”
Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino: “Chi è impegnato in prima linea si fa carico di un’enorme responsabilità”
di Maria Teresa Martinengo

«I conti sono presto fatti: abbiamo una media di tre ordinazioni e una decina di decessi l’anno. Nei miei sette anni a Torino i preti sono passati da 550 a meno di 480». L’arcivescovo, monsignor Cesare Nosiglia, puntualizza i numeri del suo clero come premessa per un altro numero. Capace, questo, di riassumere come stia cambiando la Chiesa, la sua organizzazione. Come la crisi delle vocazioni non possa più essere ignorata dai fedeli. «In Diocesi - prosegue l’arcivescovo - cento parrocchie non hanno più il parroco residente. Il parroco vicino ha accettato di assumere l’incarico anche per la comunità rimasta scoperta. Io dico che è come un padre con due figli. Ne aveva uno, poi ne è nato un altro».
Nella Diocesi le parrocchie sono 355, 110 a Torino. «Nel territorio cittadino abbiamo cercato di limitare a due il carico, di queste situazioni ne abbiamo una decina. In alcuni casi, invece, si sono formate comunità di tre-quattro preti che si occupano insieme di altrettante parrocchie». È fuori città, invece, in zone di montagna come le Valli di Lanzo, o in Canavese, che la media si alza. In certe vallate un parroco può avere la cura anche di quattro piccole comunità.
Collaborazione
«Per il sacerdote - riflette Nosiglia - significa senza dubbio moltiplicare le responsabilità. Ma il lavoro che tutti stanno facendo, gradualmente, con molta pazienza e coinvolgimento della gente, è finalizzato a una collaborazione con i laici sempre più intensa in tutti gli ambiti pastorali. Per favorire una pastorale giovanile comune, molto importante perché i giovani si muovono nel quartiere e possono fare molto per amalgamare». Un altro ambito è la carità. «Se le Caritas e le San Vincenzo lavorano insieme vedono meglio le povertà del territorio, possono usare al meglio le risorse», dice l’arcivescovo. «Tutto questo - prosegue - bisogna farlo anche come Unità Pastorali, che in città comprendono le 3-4 parrocchie di un quartiere: per dare risposte omogenee. Sempre con il forte apporto dei laici, che ci sono: diaconi, ministri dell’eucaristia, educatori. I laici devono rendersi conto di essere indispensabili. E che tutto si fa in vista della missionarietà della Chiesa. La singola parrocchia non è in grado di andare verso i lontani, le periferie esistenziali. Insieme si può essere invece evangelizzatori efficaci».
Il peso
Questo cammino oggi per i parroci significa grande fatica. Nosiglia ne è consapevole. «È più facile - osserva - avere una comunità di ventimila persone piuttosto che due da diecimila con tutto il peso di doppie questioni amministrative. I preti sono oberati, le questioni pratiche portano via tempo. Noi abbiamo attivato un gruppo di esperti: commercialisti, architetti, che possano supportarli in diversi ambiti. È un discorso che abbiamo fatto anche a livello di Cei. Sappiamo che i sacerdoti vanno aiutati e speriamo di arrivarci. Intanto ogni giorno ringrazio i parroci e tanti altri che lavorano con grande generosità nelle loro parrocchie amando profondamente i loro fedeli e sostenendo il carico di impegni sempre più ampio e pressante. Io stesso imparo da loro ad affrontare serenamente le difficoltà che a volte debbo incontrare nel mio ministero».

La Stampa 25.11.17
“I fedeli sono di fronte a una nuova figura:
il pastore condiviso tra più comunità”
Il sociologo Garelli: così si favoriscono il confronto e l’aggregazione

Professor Franco Garelli, dove scompare la figura tradizionale del parroco guida unica della chiesa locale, quali cambiamenti avvengono?
«Passare da un unico responsabile, un unico pastore, figura di riferimento anche dal punto di vista sociale, a una gestione collegiale di più preti occupati in più parrocchie, oppure a un unico parroco condiviso con altre parrocchie, può portare disorientamento nei fedeli, soprattutto i più anziani. Di sicuro è una novità che interpella la fede, perché la rende meno comoda. Ma il laicato è chiamato ad abituarsi e anche a valorizzare queste dinamiche nuove».
E il parroco? Quanto gli si complica la vita?
«I parroci di più comunità spesso non hanno il coraggio di chiedere di costituire un’unica realtà parrocchiale, con una chiesa “centrale” e le altre “satelliti”. Allora fanno “salti mortali” per celebrare messa in tutto il territorio: questo crea problemi grossi. Diventano preti pendolari, rischiando di disperdersi, di vivere a spicchi».
Stiamo assistendo a un declino della Chiesa in Italia?
«No. Queste situazioni possono anche essere un arricchimento, già solo per il fatto che non ci si abitua troppo al parroco. Ci si può confrontare con le sensibilità diverse dei vari sacerdoti che ruotano. C’è sicuramente chi fa fatica ad abbandonare il vecchio modello, ma la possibilità del confronto tra realtà diverse vicine territorialmente, spesso della stessa città ma fino a poco tempo prima separate da steccati campanilistici, può essere stimolante per tutti. Si può sperimentare la bellezza di avere progetti comuni».
Quindi nessun dramma?
«Chi vuole la messa sotto casa vive con inquietudine le unità o le comunità pastorali tra più parrocchie. Ma la religiosità è anche vita comunitaria aperta, e se c’è dinamismo tra realtà diverse tutto può diventare più incoraggiante. Se si riesce a creare aggregazione tra le parrocchie della zona si evita di rendere viziata l’aria della propria comunità a causa della chiusura, e vivere così momenti – spirituali e di festa – nuovi e piacevoli».
La gestione delle parrocchie affidata ai laici è una via percorribile?
«Sì. Bisogna dare loro più spazio soprattutto per i ruoli organizzativi, amministrativi ed educativi. Il parroco deve imparare a delegare, mantenendo funzioni più di coordinamento e di garante, focalizzandosi sull’aspetto spirituale; dovrebbe essere attorniato da laici responsabili nei vari campi. Senza dimenticare l’associazionismo ecclesiale, un bacino da cui si può sempre attingere. Ovviamente c’è il pericolo di una mancanza di sintonia tra laici e parroco, o quello delle fazioni tra laici, ma sono rischi da correre».
La Chiesa dovrebbe prendere altre iniziative?
«L’invecchiamento del clero italiano dovrebbe portare a ristrutturazioni a livello delle diocesi. Per esempio trasferimenti: c’è molto più clero al Sud che al Nord. Oppure andrebbe sfoltito l’elevato numero di preti impegnati in apparati amministrativi delle diocesi: accorpandole si eviterebbe la moltiplicazione degli uffici e così si libererebbero risorse sacerdotali».
[d. a. j.]

Corriere 25.11.17
L’analisi I flussi migratori
di Federico Fubini

Le immagini degli sbarchi dalla Libia hanno segnato così a fondo noi italiani, che un dettaglio rischia di sfuggirci: il 2017 potrebbe rivelarsi il primo anno nella storia recente nel quale il numero di stranieri che vivono in Italia inizia a diminuire. Da quasi quattro decenni l’istituto statistico Istat ha iniziato a registrare la quantità di immigrati residenti e finora non si è mai visto un calo. Nel 1981 si contavano fra le Alpi e la Sicilia meno di 100 mila stranieri, alla fine del 2016 poco più di cinque milioni. Ma quando i dati più recenti saranno resi noti, sembra quasi inevitabile che emerga la prima inversione di tendenza.
Essa sarebbe il frutto di dinamiche diverse: alcune preoccupanti, altre incoraggianti, altre ancora del tutto naturali. Normale per un Paese meta dell’immigrazione di massa da tre decenni è per esempio che inizi a crescere rapidamente anche il gruppo di coloro che decidono di diventare italiani. Queste persone spariscono dal conto degli stranieri solo per questo motivo: solo fra i non europei, nel 2016 hanno preso la cittadinanza italiana a pieno titolo 184 mila persone, quasi il quadruplo rispetto all’inizio del decennio. Dunque il primo calo del plotone degli stranieri non equivale a una riduzione di coloro che sono nati all’estero.
Un secondo fattore relativamente incoraggiante all’origine dell’inversione di tendenza viene dal canale di Sicilia. Da agosto, i tentativi di sbarco in Italia sono nettamente diminuiti. Se anche gli arrivi dal mare questo mese e il prossimo si confermassero pari a quelli di fine 2016, quest’anno si chiuderebbe con oltre 50 mila arrivi via mare in meno. Questo crollo potrebbe rivelarsi decisivo, perché dal 2013 il totale dei residenti stranieri è sempre aumentato di meno di 50 mila all’anno. Solo un flusso di sbarchi molto sostenuto permetteva che il numero degli stranieri crescesse un po’: 21 mila in più l’anno scorso, 12 mila nel 2015.
C’è poi un terzo fattore che spiega la storica inversione di tendenza a cui l’Italia va incontro: gli immigrati ri-emigrano. Sono arrivati per farsi una vita tempo fa e ora sempre più spesso vanno via per rifarsene un’altra in un altro Paese. Lo fanno anche dopo aver conquistato il passaporto italiano, che permette loro di non dover chiedere permessi per cercare lavoro in Svizzera, Svezia, Norvegia o Germania. Del mezzo milione di «nuovi italiani» diventati tali fra il 2012 e il 2016, nello stesso periodo 24 mila erano già migrati altrove.
La fuga dei giovani nati in Italia, a ben vedere, rischia di far nascondere un po’ il fenomeno — più intenso — della fuga dall’Italia dei nati all’estero. In realtà però gli immigrati stanno ri-emigrando fuori dall’Italia a ritmo cinque volte più veloce di quanto facciano i giovani italiani. Nel 2015, ultimo anno registrato, risulta ufficialmente trasferito all’estero un italiano ogni 500 circa e uno straniero ogni cento. Così gli stranieri che hanno gettato la spugna nel 2015 sono stati 44 mila, il triplo rispetto a nove anni prima. Molto probabilmente però i numeri reali sono maggiori sia per loro che per i migranti italiani, perché in tanti partono senza cancellare la residenza di origine.
La ri-emigrazione degli immigrati è un fenomeno, per certi aspetti, comprensibile. Secondo il centro-studi di Parigi Ocse, l’Italia divide con la Slovacchia il primato europeo di giovani stranieri «Neet», che non studiano né lavorano: fra loro uno su tre vive ai margini della società, una quota anche più alta di quella già da record dei loro coetanei italiani. L’Italia divide poi con la Grecia il primato di immigrati occupati in ruoli nettamente inferiori alle loro qualifiche.
La disaffezione verso l’Italia non è uguale per tutte le comunità più numerose e insediate storicamente nel nostro Paese. Essa è molto pronunciata fra i rumeni e fra i polacchi, che stanno andando via in gran numero (vedi grafico). Sembra invece esserlo di meno fra gli albanesi, i cinesi, i filippini o gli ucraini.
Di certo l’Italia ha l’aria di soffrire di una specie di inversione cognitiva: mentre il ceto politico non fa che dibattere su un’«invasione» dall’estero — riflesso delle immagini televisive degli sbarchi — si consuma fra gli stranieri più qualificati e (un tempo) più integrati una sorta di silenzioso deflusso verso l’estero. Nell’ultimo anno per esempio sono «spariti» dalle statistiche 55 mila marocchini, solo 35 mila dei quali avevano preso cittadinanza italiana; gli altri hanno gettato la spugna.
Così l’Italia si sente talmente presa d’assedio da non cogliere di non essere più considerata attraente. Fra il 2007 e il 2015 è fra le prima trenta democrazie avanzate dell’Ocse quella che ha visto il maggiore crollo di afflussi di migranti (-67%). E in un’Era di cultura globalizzata, divide con la Grecia anche il primato nel calo di visti d’ingresso agli studenti dall’estero: dal 2008, si sono quasi dimezzati.

Repubblica 25.11.17
Informazione e politica
Come ti costruisco una bufala anche il Nyt suona l’allarme Italia
Secondo un’inchiesta della testata Usa la nostra campagna elettorale rischia di essere inquinata dalle post-verità, sotto accusa 5Stelle e Lega. Ricostruzione di un caso: il finto funerale di Riina
di Carlo Brunelli

ROMA L’Italia sotto la morsa delle fake news? Lo denuncia il Pd. Lo nega il M5S, che ribalta l’accusa sul leader Pd.
Lo sostiene il New York Times in un’inchiesta pubblicata ieri sul proprio sito: «Come già successo negli USA, in Francia, in Germania e per la Brexit, anche in italia la tornata elettorale potrebbe essere falsata dalla propaganda incentrata sulla disinformazione».
Il caso è riesploso dopo la diffusione incontrollata sul web di una foto fake che ritraeva Maria Elena Boschi, Laura Boldrini e altri dem tutti insieme «al funerale di Riina».
Funerale che, nella realtà, non si è mai tenuto. Tantomeno con i suddetti ospiti dem.
Pubblicata mercoledì scorso, nelle successive 24 ore la foto è diventata virale. La foto con Boschi era in realtà stata scattata ai funerali di Emmanuel Chidi Namdi, ucciso a Fermo in un episodio di razzismo. La sottosegretaria denuncia il falso dai suoi profili social. Il fantomatico Mario De Luise, che l’ha postata su Facebook per primo, sparisce dal social. Eppure mercoledì sera la foto fake viene rilanciata dalla pagina Facebook Virus5Stelle.
Virus5Stelle è una delle migliaia di pagine non ufficiali che fanno propaganda per il Movimento. La pagina è gestita da Claudio Piersanti e Adriano Valente, già noto nel mondo dei debunker perché accusato di una fake news sulla Leopolda diffusa nel novembre 2016. I gestori del sito, contattati dal debunker David Puente, si dissociano spiegando che non si sono mai occupati di politica e non intendono farlo. Ma l’editor di BuzzFeed Alberto Nardelli twitta i legami di Valente con i vertici del M5s: oltre alle foto del profilo in cui abbraccia Beppe Grillo, anche il tag in un post del vice-Presidente della Camera Luigi Di Maio. I legami tra Valente e il Movimento sono palesi, basta visitare il suo profilo e trovare in primo piano foto con Carla Ruocco e Luigi Di Maio. Valente smentisce però di aver postato la bufala. E spiega: «La pagina Virus 5 stelle è gestita da 6 ragazzi compreso io. La foto l’ha postata un ragazzo che tra l’altro non conosco e non io». Ma chi è Mario de Luise? Un profilo vero o un fake usa-e-getta da utilizzare per postare contenuti diffamatori?
Proprio della galassia dei siti che propalano fake news si occupa l’inchiesta del NYT.
Raccontando che Andrea Stroppa, ricercatore di Ghost Data e consulente di Renzi sulle cybersecurity, ha compilato un dossier nel quale si dimostra che la pagina ufficiale del movimento Noi con Salvini condivide lo stesso identificativo Google con diversi siti di disinformazione come IoStoConPutin.info, MondoLibero.org, ma soprattutto con una delle tante pagine non ufficiali di propaganda del Movimento 5 Stelle. Il codice unico di Google permette di collegare tutti i siti allo stesso account pubblicitario, permettendo ad una sola persona di gestire tutti gli introiti. Google non ha voluto rivelare il nome del proprietario dell’account e ha cercato di calmare le acque sostenendo che a volte siti non collegati utilizzano lo stesso ID Google. Da Noi con Salvini dicono di non sapere di cosa si stia parlando. Luca Morisi, il digital philosopher di Matteo Salvini, non ha voluto commentare. Dal M5s spiegano che, essendo pagine create dai fan, non possono essere collegate al Movimento.
Non smentibili sono i bersagli delle campagne fake. Nelle foto di questi siti Renzi è un clown, oppure ha il naso di Pinocchio, la Meloni è Gollum, Berlusconi è truccato da donna. Poi c’è il filone Cecile Kyenge. Lei che, cattolica, avrebbe voluto abolire mercatini di Natale e presepi nelle scuole. Lei che, da ministro, avrebbe augurato attentati all’Italia. Lei che avrebbe assunto al ministero la figlia, che nella foto è la cantante Rihanna, con uno stipendio da 15.000 euro al mese. La Presidente della Camera Laura Boldrini è stata vittima dello stesso tipo di campagna diffamatoria violenta, che ha toccato il suo apice nella diffusione della notizia che avesse fatto andare in pensione a 35 anni sua sorella minore, scomparsa prematuramente anni fa.
Ma i leader del Movimento cosa pensano di queste pagine che ogni giorno vomitano odio?
«Renzi lancia un appello anti fake news? Cominci da se stesso», dice il capogruppo M5S in Senato Giovanni Enrizzi.
Sostiene Nicola Biondo, ex responsabile della comunicazione grillina alla Camera dei Deputati e autore insieme a Marco Canestrari di
Supernova: Com’è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle: «Bisogna chiedersi se chi ha responsabilità politiche pubbliche può ammettere che nella propaganda del suo partito, gestita da professionisti, ci siano certi toni e certi atteggiamenti. Da anni la propaganda sul web è andata oltre».
Secondo le indiscrezioni del New York Times, Facebook sarebbe pronto a schierare una task force tutta italiana per vigilare sulla diffusione delle bufale sulla sua piattaforma.

il manifesto 25.11.17
L’infernale elettroshock del quotidiano
Oltre la follia. «Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio», a cura di Dario Stefano dell’Aquila e Antonio Esposito. In un libro uscito per Sensibili alle foglie, tutti i documenti, gli atti processuali e i racconti di una esistenza interrotta
di Graziella Durante e Giovanna Ferrara

È dalle pagine di questo giornale che, il 7 gennaio del 1975, Luigi Pintor scriveva parole definitive sulla morte di «un’innocente arsa viva» nel rogo del suo letto di contenzione. «Una donna povera di mezz’età» internata nella sezione «agitate e coercite» del manicomio giudiziario di Pozzuoli dove arriva nell’ottobre del 1973. «Una donna che aveva addosso lo stato tutto intero» e che, in poco più di un anno, è stata perseguitata e uccisa dal dispositivo perverso delle sue istituzioni. La notizia della sua morte rimbalza sulle pagine dei quotidiani e crea scompiglio in un’opinione pubblica fino troppo abituata a rassicuranti resoconti giornalistici della vita manicomiale.
ANTONIA BERNARDINI è invece una subalterna, marginale e sconfitta. Sul suo corpo è stato posto lo stigma indelebile della follia e della pericolosità sociale. Ma la sua morte mette inaspettatamente l’intero sistema sotto processo. Agita istituzioni e partiti. Pone, con incredibile forza, interrogativi politici mai nominati prima. Mette a nudo un dispositivo repressivo che sequestra e silenzia, con metodica efferatezza, le vite degli ultimi. Nei manicomi, come in carcere, si muore in primo luogo di classe – scriveva Franco Basaglia in un fondo de Il Corriere della Sera.
A distanza di quarant’anni, Antonia Bernardini ci convoca ancora perché l’orrore che ha patito ci desti dal sogno di una giustizia uguale per tutti. Gli atti processuali, le cartelle cliniche, i fatti della sua vita, il panorama giornalistico e televisivo dell’epoca sono raccolti ora da Dario Stefano dell’Aquila e Antonio Esposito in Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio (Sensibili alle foglie, pp. 304, euro 18): un’inchiesta condotta con passione e metodo, una botola che si apre e fa luce nei cunicoli della cura della malattia mentale in un paese democratico.
LA BIOGRAFIA CLINICA di Antonia ha un lungo passato. Il primo ricovero in manicomio risale ai suoi sedici anni. Da lì, una interminabile sequenza di internamenti, alcuni dei quali volontari, ripetuti elettroshock, neurolettici, camicie di forza e letti di contenimento. Nessun medico collega i sintomi che la paziente presenta con l’ambiente nel quale vive: l’infanzia con un padre violento, il degrado delle borgate romane, un marito assente, una malattia – la tubercolosi polmonare – curata nei sanatori. A questo inferno quotidiano, Antonia risponde con una ostinata incapacità a piegarsi all’ingiustizia e alla stigmatizzazione sociale.
I SUOI FREQUENTI «stati di eccitamento» ascrivibili d’ufficio al «patologico» sconfinano, in una scontata sequenza, nel crimine. Ad Antonia accade il 12 settembre del 1973, che un banale diverbio con un pubblico ufficiale in borghese, alla stazione Termini di Roma, la strappi via dal mondo, per consegnarla agli istituti di pena, dove non esiste riabilitazione e non esiste cura. «Un morso guaribile in quattro giorni» – questo il ‘trauma’ che Antonia procura al militare: scatta immediato l’ordine di arresto. La donna è condotta a Rebibbia. Da qui è trasferita al manicomio romano di Santa Maria della Pietà perché dichiarata «particolarmente aggressiva».
Antonia tenta di difendersi, assistita da un avvocato d’ufficio, raccontando la sua versione dei fatti, ma quale attendibilità possono avere le parole di una pazza? La sua verità è allucinata e compromessa. Si convalida l’arresto e si dispone la custodia cautelare presso il manicomio provinciale. L’assurdo congegno di colpa e malattia, pena e cura, reato e sintomo è ormai innescato. Lo stesso iter formale che segna i ripetuti trasferimenti di Antonia dal carcere al manicomio mostra inadempienze, lacune, ritardi. Tra la cancelleria del Tribunale e la direzione degli istituti carcerari e manicomiali le ordinanze si moltiplicano e si perdono.
DI URGENZA IN URGENZA, la detenuta, l’internata, la malata, la criminale Antonia Bernardini arriva nell’ex-convento di Pozzuoli, a picco sul mare. Qui per cinque giorni è legata al letto di contenzione senza alcuna motivazione reperibile negli atti. I quattordici mesi che seguono sono il normale svolgimento della vita di un’internata in custodia cautelare all’interno di un lager. Un luogo che solo l’ipocrisia sociale definisce, ancora oggi, ospedale psichiatrico-giudiziario o anche casa di cura e custodia. Antonia subisce misure disciplinari disumane che hanno come unico scopo quello di rendere mansueti i corpi e rispettose le menti. Corpi considerati dalla medicina e dalla legge, ordigni esplosivi da immobilizzare con le fascette, con i legacci della camisolle chimique, una somministrazione di farmaci invalidanti che, a partire dagli anni cinquanta, la psichiatria sperimenta sulle cavie dimenticate dal mondo.
A GARANTIRE la piena realizzazione di questo metodico piano di disumanizzazione, la vigilanza delle suore, ancelle spirituali della «rieducazione» delle prigioniere. Dalla sala di rianimazione del Cardarelli dove viene condotta d’urgenza il 28 dicembre del 1974 con gravissime ustioni su tutto il corpo, mentre lotta tra la vita e la morte, Antonia dichiarerà al pubblico ministero: «C’è una suora Anna Teresina che mi metteva ai lavori forzati. Ci legava come Cristo in croce».
Si apre il processo. Un’inchiesta ministeriale. Si appura che la pratica della contenzione era disposta, su richiesta delle suore, dal medico di turno. Sul registro non sono riportate motivazioni e termine della misura prescritta. Le firme del responsabile erano apposte prima ancora che fosse applicata. Cominciano le ipotesi. Forse Antonia voleva fumare e accidentalmente ha lasciato cadere la sigaretta: la contenzione prevedeva, quindi, tempi tanto lunghi di solitudine da poter accendere una sigaretta, fumarla e poi spingere il mozzicone chissà dove? Ipotesi due: una compagna l’ha uccisa, anche se era sola in stanza. Ipotesi numero tre, la più feroce: si è suicidata perché malata mentale. In questa ipotesi, abita un’altra perversione dei meccanismi di controllo.
SE SI UCCIDE un figlio si sottopone l’assassino alle perizie per stabilire se l’assassino è capace di intendere e di volere, come si classifica la «normalità» per la legge. Ma se una donna si dà fuoco perché legata da 43 giorni per un reato minimo, si presuppone che la sua patologia mentale abiti ogni suo atto, anche quello, «normalissimo» di cercare di richiamare l’attenzione di qualcuno in un modo eclatante. Gridava da diverse ore chiedendo un bicchiere d’acqua. Dopo il processo di primo grado, che commina qualche responsabilità, arriva la sentenza d’appello: nessun imputato è colpevole. Che Bernardini fosse legata rientrava nelle possibilità terapeutiche a disposizione dei medici. Quello in cui è arso un letto con dentro una donna, era dunque uno scenario lecito.
Se fosse una storia passata, potremmo dire che l’umanità degli uomini è un valore in divenire. Ma la storia di Antonia rivive, ancora e ancora, nei «centri» dove i migranti, sopravvissuti ai loro naufragi, colpevoli solo di voler vivere, sono accolti ogni giorno. In un dispositivo psichiatrico che continua a operare, con ottusa ferocia, dentro e fuori alle sue residenze.

il manifesto 25.11.17
In tutta Italia, un sostegno deciso alla lotta delle donne. Non Una Di Meno invita oggi alla grande manifestazione nazionale. Partenza alle 14 da piazza della Repubblica e conclusione in piazza San Giovanni in Laterano
di Alessandra Pigliaru

Che sia una panchina rossa inaugurata a Milano, un flash mob a Sassari per dire che «l’unico segno che voglio è quello di un bacio», o ancora un nuovo centro antiviolenza con annessa casa rifugio in Ciociaria, fino alla installazione performativa in quel di Lecce, oggi l’Italia sarà attraversata – in lungo e in largo – da iniziative che aderiscono alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Seppure la qualità e il peso politico di ciascun appuntamento siano assai diversi, è vero che dalla Basilicata al Veneto, passando per Calabria, Sicilia e Liguaria, in ogni territorio (nessuno escluso) si moltiplicheranno gli incontri e in decine di città si scenderà in piazza per dire no alla violenza contro le donne.
Il movimento Non Una Di Meno, che lo scorso anno ha portato nelle strade della capitale più di 200mila tra donne e uomini, invita oggi nuovamente a Roma (dalle 14). Partenza da partire da piazza della Repubblica per una grande e – si spera – oceanica manifestazione nazionale; dopo aver rasentato Termini, costeggerà piazza Vittorio, passerà per via Emanuele Filiberto e, tagliando viale Manzoni, arriverà fino a piazza San Giovanni in Laterano. Le varie assemblee cittadine sparse per i territori organizzeranno certo ulteriori incontri nei propri luoghi di provenienza, ma è nella capitale che confluiscono oggi più di 20 città; si attende in questo modo l’addensarsi della marea. Diversi i soggetti politici che hanno aderito all’appello di Non Una Di Meno che ha appena diffuso le 57 pagine del primo «Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e tutte le forme di violenza di genere». Dalla Flc Cgil alla Fish, quest’ultima (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) annunciando già da diversi giorni la propria partecipazione per segnalare la maggiore esposizione a violenze e molestie delle donne con disabilità.
Quel che si attende a Roma è una composizione piuttosto vasta, libera e soprattutto organizzata da molti movimenti e associazioni, così come centri antiviolenza e collettivi, che tagliano il territorio italiano da nord a sud e che rappresenteranno la propria parzialità di lotta e sostegno al progetto politico di Non Una Di Meno. Un modo per dire che il femminismo, da cui nell’ultimo anno sono esplose le più incisive forme di dissenso critico a livello mondiale, è inaggirabile. Bisognerebbe imparare dalla propria radicalità generativa, dal proprio smalto insorgente. Le migliaia di donne e uomini che oggi saranno in piazza non faranno altro che testimoniarlo.
Nonostante la pratica politica e i saperi di molte donne rendano grande e sensato lo stesso stare al mondo di tutte e tutti, una scommessa di civiltà, continuano a persistere delle contraddizioni che paiono insanabili, pervicace è infatti la sottocultura che le produce. Tra gli esempi più recenti c’è l’interrogatorio – per 12 ore di fila – si due ragazze che hanno denunciato il proprio stupro, sottoponendole – come è capitato al tribunale di Firenze due giorni fa – allo sfinimento di circa 200 domande tra cui spicca, per eleganza e misura, una relativa all’aver portato o meno biancheria intima.
Nello stesso paese, quello che oggi accenderà calde luci arancioni sui monumenti e in cui Laura Boldrini organizza #InQuantoDonna, lodevole iniziativa a Montecitorio, sembra spuntare sempre la gramigna del sospetto che, in effetti, dietro la parola delle donne possa celarsi un qualche inganno. È su quella, perché risponde a un’esperienza, non importa se riportata dopo un’ora o 20 anni, che invece bisognerebbe puntare tutto. O almeno l’inizio di un ragionamento politico che possa dirsi credibile. Alla vigilia di questa giornata apprendiamo che per il rapporto dell’Eures, presentato giovedì, anche la metà dei femminicidi non sarebbero forse avvenuti se solo si fosse fatto lo sforzo di dare seguito alle denunce da parte delle donne poi uccise. Ancora una volta ciò dimostra che il fenomeno della violenza maschile contro le donne va fermato non in quanto emergenza sociale, bensì con un lavoro capillare e politico che sappia rinnovarsi costantemente in tutti i luoghi della vita. Per decostruire alcune forme endemiche di patriarcalismo. E per dire che nessuna è vittima fino a quando si lotta insieme, per la propria libertà già guadagnata. Oggi, come ieri.

il manifesto 25.11.17
«Qui scoprono che non hanno colpa per quello che sono costrette a subire»
Centri antiviolenza. La maggioranza dei casi conferma gli abusi in famiglia. Spesso l’uomo che violenta a sua volta ha subito soprusi. L'esperienza del Cav di Miano
di Adriana Pollice

NAPOLI «In undici mesi si sono rivolte al Centro antiviolenza di Miano sessanta donne. Arrivano soprattutto grazie ai servizi sociali oppure attraverso le forze dell’ordine o le Asl e le parrocchie. Ma ci sono anche donne che chiamano il numero verde, attivo 24 ore su 24. Gli operatori le indirizzano al Cav più vicino ma non è una regola rigida, spesso non vogliono farsi vedere dai conoscenti o hanno paura, soprattutto se vivono in piccoli centri. In quel caso l’operatore le indirizza in altre zone. Da noi, ad esempio, vengono anche dall’hinterland, come Casoria o Quarto» spiega Anna Maria Ambrosio, che dirige la struttura di via Valente. Si tratta di uno dei cinque Centri antiviolenza del comune di Napoli, ogni presidio ha in carico due municipalità. Il Cav 3 si occupa di una vasta area che riunisce sette quartieri della periferia est e nord della città: Miano, Secondigliano e San Pietro a Patierno; Piscinola, Marianella, Chiaiano e Scampia, circa 200mila abitanti in totale, una città nella città (alta evasione scolastica e picchi di disoccupazione), che fa da cuscinetto con comuni ad alto rischio camorra, come Marano o Melito.
Il disagio sociale però non spiega la violenza di genere, diffusa anche nella borghesia, neppure l’istruzione è un fattore né l’età: «Arrivano ragazze molto giovani così come ultra cinquantenni, casalinghe con bassa scolarizzazione e laureate – prosegue Ambrosio -. Le statistiche spiegano che chi ha subito abusi o ha assistito ad abusi molto spesso diventa poi violento, ma nel nostro territorio c’è soprattutto un comportamento che si ripete da una generazione all’altra: mariti, compagni o ex che picchiano la moglie, la compagna o la donna con cui avevano una relazione. È un effetto della cultura patriarcale: ricevere uno schiaffo per gelosia o rabbia è ritenuto un comportamento accettabile e accettato in un sistema sociale che si regge sulla disparità di ruoli. L’atteggiamento generale è quello di sopportare».
Le donne che si rivolgono ai Cav nell’hinterland partenopeo, oltre agli abusi, spesso soffrono per l’isolamento a cui vengono costrette, rinchiuse nelle pareti domestiche dove sono controllabili: «Le nostre municipalità sono costituite da quartieri molto popolari, il reddito è basso, la vita complicata ma c’è una forte socialità, l’isolamento gioca un ruolo inferiore. Spesso le donne che arrivano da noi sono aiutate nei primi passi dalla rete di amicizie che hanno intorno. Rispetto al passato, anche l’atteggiamento della famiglia sta cambiando: prima i genitori spingevano le figlie al silenzio, adesso cominciano ad accompagnarle nei Cav. Il sostegno della famiglia è importante perché, superata la paura del compagno, l’elemento che tiene comunque le donne prigioniere di rapporti violenti è la dipendenze economica. Inoltre, il fatto che ci sia un contesto sociale che le sostiene consente loro di rimanere nel quartiere dove vivono. Quando non avviene, sono costrette ad allontanarsi».
Non avere un reddito, né una casa rende difficile liberarsi, soprattutto in contesti economici ad alta disoccupazione. Nei centri antiviolenza trovano lo psicologo, l’assistente sociale e il mediatore culturale ma anche l’avvocato gratuito per le denunce, le cause di divorzio o di affido dei figli, si cerca anche di indirizzarle verso corsi per il ritorno nel mercato del lavoro e, in alcuni casi, il sostegno per la creazione di cooperative. Poi ci sono i consulenti per i gruppi di autoaiuto, in cui le donne imparano a sostenersi e fare rete: «È importante – conclude Ambrosio – perché scoprono che non è colpa loro, l’incubo in cui vivevano non è frutto di una loro mancanza ma è un fenomeno più generale, che ha a che fare con la distorsione dei rapporti. Le rende protagoniste di un percorso comune».
Dei 49 i Cav campani, solo due si occupano di uomini maltrattanti (uno a Napoli, l’altro a Pontecagnano). Le statistiche raccontano di una regione non ai primi posti in fatto di abusi di genere. Secondo il rapporto Eures sul femminicidio, in Campania si è passati da 31 nel 2015 a 16 l’anno scorso. L’Istituto Demoskopika ha analizzato il quinquennio 2010-2014: la Campania è le regione italiana con meno violenze sessuali con 47 episodi denunciati. I numeri però salgono se si amplia il raggio agli episodi di violenza: si passa infatti a 1.162. All’ospedale Cardarelli di Napoli è attivo il Codice rosa a sostegno delle vittime di abusi: da gennaio a ottobre 2017, sono stati 144 i casi seguiti, tre riguardavano minori, nove donne straniere, due hanno denunciato una violenza sessuale, 96 hanno scelto di seguire il percorso psicologico. Il Consiglio regionale ieri ha approvato la legge per favorire l’autonomia personale, sociale ed economica delle donne vittime di violenza e dei loro figli. Stanziati 100mila euro per il 2018 e 100mila per il 2019.

Il Fatto 25.11.17
Adesso il Pd vuole smontare i collegi gestiti dalla Boschi
Rivolta interna - Il disegno dei tecnici coordinati dall’ex ministra non piace al segretario, che si muove per cambiarlo in Parlamento
di Wanda Marra

I collegi elettorali sono stati disegnati dall’Istat in modo “meraviglioso”. Matteo Renzi sul treno che lo sta portando alla Leopolda ironizza. La battuta la fa due, tre volte. Sta passando per Rignano e dunque la spiega così: “Vi rendete conto che il collegio di Rignano è in quello plurinominale di Livorno? Comodo, no? Se mi candido a Rignano sono capolista a Livorno, è meraviglioso. L’Istat ha attaccato Rignano a Livorno anziché a Firenze”. E insiste: “Dove mi candido? A questo punto non lo so…”.
Nel suo più classico modo, il segretario del Pd annuncia che darà battaglia perché il disegno dei collegi – approvato dal Consiglio dei ministri giovedì sera e trasmesso alle commissioni competenti (le Affari costituzionali) di Camera e Senato – venga modificato. Come previsto dal Rosatellum 2.0, le Commissioni devono dare un parere solo consultivo, entro il 9 dicembre. “Però, storicamente, il governo ha sempre accolto i suggerimenti del Parlamento”, dice il capogruppo dem, nonché padre della legge, Ettore Rosato.
Si annunciano grandi trattative. Con il Pd in prima linea: modificare il disegno di un collegio in un modo piuttosto che in un altro, significa favorire un partito rispetto a un altro. La situazione ha del paradossale, visto che a gestire tutto il lavoro sono stati dall’inizio gli uffici della Sottosegretaria, Maria Elena Boschi, detti “Chigi 2”. Il disegno dei collegi è stato fatto da una commissione presieduta dal presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, della quale facevano parte alcuni esperti. Una parte di loro già da tempo lavorava informalmente con gli uffici della Boschi, che stavano gestendo la vicenda. I collegi sono stati rifatti sulla base di quelli del Mattarellum del ’93. Con aumento degli eletti per Lombardia, Veneto ed Emilia e una riduzione per Basilicata, Molise e Sicilia.
Il problema, però, per i renziani, non è il numero, ma il disegno. Il lavoro della commissione era stato presentato alla Boschi nella notte di martedì. La Sottosegretaria aveva notato una serie di cose che non tornavano, dal suo punto di vista, soprattutto in Toscana (roccaforte del renzismo) e in Sicilia, Lazio, Umbria e Marche. Quindi ha cercato di inserire delle modifiche. A quel punto si è opposto Marco Minniti, che in quanto titolare del Viminale rischiava di metterci la faccia. Il Cdm ha approvato lo schema della commissione tecnica, non senza una relazione del governo, (predisposta dalla stessa Sottosegretaria) trasmessa ieri alla Camera, che la dice lunga: “Le soluzioni prescelte sono state valutate dal governo e, pur avendo individuato in alcune di esse elementi che si prestano a valutazione diversa da quella effettuata dalla Commissione, ha ritenuto comunque di sottoporre all’esame parlamentare la determinazione dei collegi elettorali che discende dalla proposta”. Spiegazione: “Tali elementi suscettibili di diversa valutazione riguardano circoscrizioni in cui la Commissione si è trovata nell’impossibilità di fare ricorso ai collegi uninominali del Senato del 1993, oppure, per il cambiamento demografico di singoli collegi”. E dunque: “In questi casi, gli interventi della Commissione hanno alla base uno spiccato carattere valutativo”.
Seguono esempi su dove bisognerebbe rimettere le mani. “L’aggregazione dei collegi uninominali è stata effettuata accorpando collegi di province diverse, come Prato e Firenze, separando collegi appartenenti alla stessa città metropolitana come Empoli”, per dire. I tecnici hanno presentato la loro relazione nella quale motivano ogni scelta. Pare che sia stato determinante l’apporto di alcuni professori, arrivati nella seconda fase, quella formale. Rivolta nel Pd contro la gestione-Boschi: a rischiare sono moltissimi. Uno su tutti, Gianni Pittella, che si è visto accorpare il suo collegio in Basilicata con il territorio di Matera. In serata Rosato prova a minimizzare: “Da Renzi solo una battuta. Lavoreremo con gli altri partiti”. I quali – capita l’antifona – sono già in guerra.

Il Fatto 25.11.17
Leopolda 2017, i requisiti del perfetto renziano
di Andrea Scanzi

Ci siamo: è il gran giorno. Oggi comincia la Leopolda 8, imperdibile sin dal nome: “L8”. Per sceglierlo, i renziani hanno preso tre mesi di ferie. Certo, forse non sarà l’edizione migliore. Non ci sarà la regista Simona Ercolani, stranamente non confermata dopo le edizioni precedenti e la gloriosa campagna referendaria del 4 dicembre. Non ci saranno vip. A dirla tutta, non ci vuole andare nessuno. Non importa: se c’è Renzi, c’è spettacolo. Garantisce Eugenio Scalfari. La Leopolda 8, anzi “L8”, si preannuncia imperdibile. Lo staff renziano sta selezionando le nuove leve da sfoggiare per le prossime elezioni. Il “Renzi Casting” è partito da alcune settimane nel RenziTrain, che sta attraversando l’Italia con straordinario insuccesso e trasversale ignominia.
Il Fatto Quotidiano, grazie a un’operazione di hackeraggio ordita dai sommamente vili Marco Lillo e Davide Vecchi, può qui anticipare i requisiti che l’Amena Lince Goffa di Rignano chiederà ai suoi sudditi. Vediamoli in dettaglio.
Età. I candidati non dovranno avere più di 40 anni, per ostentare sin dall’anagrafe quel senso di nuovo e rottamatorio che esonda – come noto – da tutto ciò che è renziano. Coloro che oseranno candidarsi pur essendo nati prima del 1977 verranno, se va bene, passati per le armi. Se invece andrà loro male, saranno abbonati a forza a “Democratica”, la pubblicazione clandestina diretta da Andrea Romano. Che non legge neanche Andrea Romano.
Bruttini. I candidati dovranno essere bruttini. Ciò si ritiene necessario per far sì che Renzi possa continuare a coltivare l’illusione di non essere la copia stinta di Mister Bean, ma la variante aitante di Johnny Depp. È per questo che il Diversamente Statista si fa circondare dai Nardella, Lotti, Faraone, Anzaldi e Filippo Sensi. Nei rari casi in cui ad accompagnarlo c’è uno appena più guardabile (e non ci vuol molto), Renzi si cruccia. E a quel punto infierisce. È il caso di Matteo Richetti, zimbellato settimane fa in una diretta Instagram perché “stai perdendo i capelli.” Richetti ci è rimasto malissimo, ma non ha detto nulla: fedele al Duce, fino alla fine. Eia Renzi alalà.
Carfagne Deboli. Le candidate dovranno corrispondere allo stereotipo, da tempo sdoganato in tivù, delle droidi invasate. Meglio ancora, delle “Carfagne che non ce l’hanno fatta”: carucce, ma poi non così tanto; fedelissime al Capo, ma ancor più impreparatissime. Insomma: quelle che, quando ti ci imbatti, pensi: “Accidenti, in confronto Mara Carfagna pare Rosa Luxemburg”.
Gessati. Il look dei puledri renziani dovrà uniformarsi ai gessati di Ernesto “Ciaone” Carbone, affinché il quadro d’insieme ricordi Goodfellas di Martin Scorsese.
Poster. Tutti i candidati dovranno avere in camera il poster di Dario Nardella vestito da John Wayne ne Il grinta. I poster sono in vendita nel sito ufficiale di Maria Teresa Meli a 600 euro l’uno. Scontati.
Parla come Renzi. I candidati dovranno improvvisare alcune frasi da usare qualora fossero ospiti in radio o tivù. Qualche esempio: “Noi siamo per il futuro”. “Il cambiamento è Salvezza”. “Chi dice no è un gufo”. “Renzi è Luce, Boschi è Vita, Orfini è il nuovo Ardiles”. “Kennedy l’ha ammazzato Di Maio”. “La Gualmini mi ricorda Nilde Iotti, però io ci ho poca memoria”. E via così.
Voodoo Raggi. I Balilla Renziani più dotati verranno premiati con “Voodoo Raggi”, un bambolotto cucito a mano da Pina Picierno grazie al quale si potrà metaforicamente infilzare il sindaco di Roma. Per portarle sfiga, o anche solo per passare il tempo.
Filosofo di riferimento: Mario Lavia.
Programma preferito: La ruota della fortuna, ma solo perché è lì che ha iniziato Renzi. E tutto sommato, almeno come preparazione, lì è rimasto.
Artisti preferiti: Bono Vox. Però solo quello recente.
Giornalista preferito: Claudia Fusani. Che forse non è neanche una giornalista. Quindi è perfetta.
Scrittore preferito: Massimo Recalcati. Anche se non lo si è mai letto. Soprattutto se non lo si è mai letto.
Momento più bello della vita. Cenare a Eataly a lume di candela con Gozi, ascoltando Il Volo e riguardando Dirty Dancing, magari immaginando che “Baby” sia Alessia Morani e Patrick Swayze quel rubacuori impenitente di Genny Migliore.

Il Sole 25.11.17
La Leopolda tra l’ombra di Berlusconi e il ritorno dei «padri» del Pd
di Lina Palmerini

Si è aperta la prima Leopolda dopo la sconfitta referendaria. La prima dopo quella scommessa persa che ha messo in discussione molti degli obiettivi che si era dato Matteo Renzi. Ed è certo per questo che l’appuntamento iniziato ieri sembra così distante dagli slogan di una volta. La rottamazione che sbiadisce davanti al ritorno – necessario - dei “padri nobili”, di quegli “ex” richiamati in campo proprio dal leader Pd per tessere la tela delle alleanze. Tornano Romano Prodi, Walter Veltroni e pure Piero Fassino che un po’ di tempo fa erano tenuti in disparte da un leader che doveva segnare la discontinuità con la storia e la tradizione della sinistra. E torna la parola coalizione, una volta bandita da ogni discorso perché così stantìa, così tanto vicina a quei ragionamenti in politichese che Renzi rifuggiva. Eppure ora gli tocca pronunciarla e parlare di pensioni e superticket, di bonus bebè e ius soli soprattutto in chiave di un patto tra futuri alleati.
Insomma, è come se le ferite della sconfitta di un anno fa si riaprissero tutte alle Leopolda perché in fondo proprio questo è stato il luogo in cui tutto è cominciato, un avamposto della rivoluzione renziana che ha poi trovato la sua principale realizzazione nella riforma costituzionale. Fallito quel referendum, e il sistema elettorale con ballottaggio a cui era collegato, fallisce pure la potenza di quegli slogan sulla rottamazione, sul ricambio di classe dirigente, sugli italiani che decidono chi li governa e che la sera stessa sanno chi ha vinto. A Renzi resta un Pd che nel frattempo ha avuto una scissione, un partito nato a sinistra in diretta competizione con il suo, un Governo guidato da un premier – Paolo Gentiloni – che molti vedrebbero bene al suo posto e una legge elettorale che lui ha votato ma che rimette in gioco i negoziati tra partiti e cambia i connotati della sua leadership.
È un po’ questa la terra incognita del segretario Pd. Dover trovare una nuova chiave alla sua guida politica che è nata ed è ancora percepita dagli elettori non per fare mediazioni ma per cambiare schemi di gioco. Ed è questo il suo dilemma tanto più se la corrente di oggi, proprio per il Rosatellum, spinge non solo verso i patti a sinistra ma verso le larghe intese con Silvio Berlusconi. Uno scenario imprevisto e pure beffardo che aleggia sulla Leopolda che era nata per ribaltare la politica italiana dell’inciucio, per rimuovere i leader incollati alla poltrona e si ritrova a fare i conti con un possibile patto con il Cavaliere, 81 anni anche se ben portati. Ecco, in questa kermesse Renzi e i suoi dovrebbero cercare di dare un senso a questo mondo al rovescio e trovare un filo tra le promesse delle origini e una realtà così distante da come l’avevano pensata. Che oggi richiama più alla responsabilità che alla rottamazione.

Repubblica 25.11.17
L’ultimo messaggio dei boss “A Ostia comandiamo noi”
Dall’aggressione al giornalista Rai all’agguato notturno in una pizzeria davanti a decine di testimoni
di Federica Angeli

ROMA Tre settimane di riflettori, promesse dello Stato, cortei a testa alta e inchieste giornalistiche. Tre settimane spazzate via dagli spari in una pizzeria del centro sotto gli occhi di decine di testimoni. Un agguato plateale, in pieno stile mafioso, un messaggio chiaro alle forze dell’ordine e a chi vive da quelle parti: « A Ostia comandano i clan, qui comandiamo noi».
E’ solo l’ultima sfida: dalla testata che ha fratturato il naso al cronista di Nemo ai due gambizzati dell’altra sera, la mafia a Ostia rilancia e non arretra di un passo. A raccontarlo sono proprio le cronache degli ultimi giorni che, tutte insieme, portano ad un’unica, desolante verità: la criminalità che da anni si è presa il X Municipio, il mare di Roma, non ha nessuna intenzione di cedere alla legalità. I segnali sono inequivocabili e, come ha osservato il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone agli Stati Generali della lotta alle mafie a Milano, « Ostia può servire come microcosmo di osservazione per dire che non esiste più una mafia ma ne esistono tante: lo ha capito il legislatore, lo ha capito la Cassazione e piano piano lo capiremo tutti». Tutti, persino la stessa mafia di Ostia, che, sfrontata, si autolegittima e nel braccio di ferro con lo Stato non teme riflettori di tv e giornali, né le manette o la riprovazione sociale. Così due sere fa l’ultimo clamoroso colpo in un locale in via delle Canarie, la parte centrale di Ostia. Due uomini in sella a uno scooter sono arrivati lì davanti alle 22, uno dei due è sceso impugnando una pistola e ha aperto il fuoco prima contro il titolare del locale, Bruno Alessandro, e poi contro il pizzaiolo Alessio Ferreri, il vero destinatario dell’agguato.
Il 40enne, infatti, è nipote di Terenzio Fasciani, fratello di don Carmine, boss al 41bis del clan più potente del litorale, e dall’altro ramo, è nipote di Rosario Ferreri legato ai boss mafiosi D’agati e Pippo Calò, lo storico cassiere di Cosa Nostra. Il fratello del pizzaiolo, Fabrizio, detto Dentone, nel 2015 aveva pianificato un agguato identico a quello che ha provocato il ferimento al gluteo e al polpaccio di Alessio, contro una persona che voleva contendergli la gestione della droga su Ostia. Nel ridisegnare la mappa criminale, per altri clan non c’era posto. E andava messo in chiaro.
Dallo scorso maggio Fabrizio Ferretti è in carcere, arrestato per traffico internazionale di stupefacenti insieme a Ottavio Spada — il nipote di Roberto che ieri si è visto respingere la scarcerazione dal Riesame e dunque resta nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo — che lo aiutò a procurarsi una calibro 38, un T-max e delle taniche di benzina per far sparire tutto dopo l’esecuzione che aveva progettato. Proprio come ieri hanno fatto i due killer della pizzeria che hanno bruciato lo scooter, ritrovato ieri mattina dalla polizia. L’agguato di Fabrizio fallì solo grazie all’ascolto delle intercettazioni e all’arresto di un suo scagnozzo da parte dei carabinieri.
Una sfida a Fasciani e Spada, famiglie da sempre alleate e una vendetta consumata a distanza di due anni quella di due sere fa dunque. Gli arresti e le attenzioni stanno fiaccando i due clan e la mala “rivale” dà il colpo di grazia per far capire che è pronta a prendere il loro posto su quella piazza così strategica per business di ogni sorta: dallo spaccio alla gestione di lidi a quella di ristoranti e bar.Nessuna delle famiglie che comandano a Ostia ha paura di niente e sono altri tre episodi a dimostrarlo. Episodi che lo stesso prefetto Vulpiani, alla guida del municipio sciolto per mafia per due anni, ha così interpretato: « è un segnale alla politica. Stanno chiaramente dicendo: questo territorio è nostro». Il 3 novembre il rogo doloso di 30 cassonetti, il 4, la notte prima delle elezioni, un altro cassonetto a fuoco proprio sotto il municipio e il 9 l’aggressione di Roberto Spada al giornalista Daniele Piervincenzi e al suo cameraman a telecamere accese. Ancora: il 16 novembre, nel corso di una manifestazione in piazza che gridava “fuori la mafia di Ostia”, una troupe della 7 che girava per piazza Gasparri, il quartier generale di Spada, si è ritrovata con due ruote della macchina squarciate.
La neoeletta Giuliana Di Pillo, minisindaca di Ostia, sembra rassegnata all’escalation: « Da soli non ce la possiamo fare, c’è bisogno di un lavoro di squadra e chiediamo aiuto a Minniti». Il mostro è più grande di qualsiasi buona intenzione, sbandierata o sentita che sia.

il manifesto 25.11.17
La battaglia di Belfast contro la legge oscurantista sull’aborto
Irlanda del Nord. L’interruzione di gravidanza è permessa solo a donne in grave pericolo di vita e solo da quest’anno è stata data la possibilità di usufruire gratuitamente del servizio offerto dal sistema sanitario nazionale (Nhs) nel resto del Regno Unito
di Federica Simone

BELFAST La manifestazione di Belfast per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, organizzata dal Belfast Feminist Network, mette al centro un tema che in Irlanda del Nord pesa più che altrove: l’accesso all’aborto.
La legge nordirlandese sull’aborto, la più restrittiva d’Europa, in vigore dal 1861 con qualche modifica, permette l’interruzione di gravidanza solo a donne in grave pericolo di vita. Nel 2015 la corte suprema di Belfast ha dichiarato la legge una violazione dei diritti delle donne, ma la sentenza è caduta nel vuoto. Da allora si sono fatti pochissimi passi in avanti: solo da quest’anno le cittadine nordirlandesi hanno la possibilità di usufruire gratuitamente dei servizi d’interruzione volontaria di gravidanza offerti dal sistema sanitario nazionale (Nhs) nel resto del Regno Unito, dove l’aborto è legale dal 1967.
In un recente sondaggio condotto da Amnesty International più del 70% della popolazione vorrebbe la decriminalizzazione dell’aborto. Durante i vari governi sono stati proposti diversi emendamenti che miravano a cambiare leggermente la legge – per esempio permettere l’aborto a vittime di violenze e incesto -, ma sono stati fortemente respinti dal Dup (partito conservatore, unionista e protestante).
Secondo il Dipartimento della Salute britannico, nel 2016, 724 donne si sono recate in Inghilterra per sottoporsi a un aborto. Ma le cifre reali sono molto probabilmente più grandi, perché il Dipartimento non ha i dati relativi alle procedure condotte in Scozia o Galles. Secondo l’associazione Family Planning, le cifre fino al 2016 sono sicuramente sbagliate, non solo per il dato mancante su Scozia e Galles, ma anche perché molte donne hanno scelto di recarsi in altri paesi europei dove la procedura è meno costosa o perché comprano pillole abortive online, pratica punibile con il carcere. Secondo la legge, ogni gravidanza (eccezion fatta per rari casi dove la salute della donna è a rischio) deve essere portata a termine.
Questa sera, durante la marcia, molte persone attraverseranno la città per ricordare che nessuna donna dovrebbe soffrire alcun tipo di violenza, e la criminalizzazione dell’aborto rientra nella definizione.

il manifesto 25.11.17
Il femminismo radicale di Carla Lonzi
Teoria. L'etica dell'immediatezza e della radicalità dell'essere applicata all'esplorazione di sé come donne
di Ester de Miro

C’è una parola che percorre un certo filone della filosofia europea, da Kierkegaard in poi, sino ad Heidegger, ed è “autenticità”, ossia essere se stessi, liberarsi dei ruoli imposti dalla società, andare alla radice di un pensiero e di un comportamento che ci appartengono e ci identificano cercando di evitare ogni sovrastruttura e ogni maschera. L’autenticità è un’idea radicale (e un’esigenza paradossalmente sentita e vissuta da un filosofo come Kierkegaard che pure si è sdoppiato e moltiplicato nei vari pseudonimi con i quali ha firmato i suoi testi) che fatalmente abbandona il piano della teoria per incrociare quello dell’esistenza, dell’essere “qui” e “ora” di ogni individuo. L’esistenzialismo – soprattutto attraverso le opere di Sartre, Camus, e Simone de Bouvoir – ha segnato fortemente il pensiero degli anni ’50 ed ha creato un clima d’interesse per una nuova etica dell’autenticità del vissuto, divulgata persino dalla letteratura di Françoise Sagan, e in seguito affiorata nell’Ecole du regard di Robbe-Grillet, nel teatro di Beckett, nel cinema di Resnais e di Duras, e infine nella Nouvelle Vague. Quest’etica dell’immediatezza e della spontaneità, della radicalità dell’essere, aveva contagiato anche le arti visive e i nuovi artisti, che si staccano dalla tela per cogliere il movimento nel suo divenire, il corpo nel suo muoversi, la colata di colore nel suo cadere sulla tela. Già nei primi anni ’50 Jackson Pollock con l’”action painting” aveva spostato il fulcro della creazione dalla tela al “gesto” del dipingere, e tutta l’arte contemporanea si muoveva sempre più verso modi di essere e comportamenti. A Firenze, negli anni ‘60, una giovane critica d’arte allieva di Longhi, dopo alcune pubblicazioni su Seurat e Rousseau, mette in crisi il proprio ruolo di critica e decide di dare la parola agli artisti registrando su nastro i loro interventi orali. Il suo nome è Carla Lonzi e molto presto abbandonerà la carriera di critica, “contestando”, come si diceva allora, il suo professore e il ruolo della critica d’arte in generale per dedicarsi, oltre che alla voce degli artisti, all’esplorazione di sé, del suo statuto di donna, del suo posto nel mondo, all’autenticità dei suoi impulsi e dei suoi desideri attraverso il dialogo con altre donne e la costituzione di un gruppo all’interno del quale fosse possibile costruire ex novo la propria identità e guardare con “occhi di donna” il mondo circostante e il proprio universo interiore. Carla Lonzi si era formata attraverso anni che aveva scelto di trascorrere in un collegio religioso ed anni di militanza nel Partito Comunista, elementi che forse avevano contribuito a conferire al suo linguaggio una serietà, un’austerità, una logica stringente, che lasciavano poco spazio a cedimenti “femminili” o ad indulgenze nei confronti del mondo maschile, e, soprattutto, contrastavano con la cosiddetta “liberazione sessuale” nata negli Stati Uniti e giunta in Italia soprattutto attraverso Marcuse e gli scrittori della Beat Generation. Rileggere oggi Memorie di una Beatnik di Diane di Prima può dare un’idea – sebbene la stessa autrice confessi di aver “calcato la mano”, spinta dagli editori – della liberalizzazione dei costumi alla fine degli anni ’60 in America, tra spinelli e Figli dei fiori. Sebbene non tutte le ragazze si ritrovassero nel rigore e nell’intransigenza delle formulazioni di Carla Lonzi, che con Carla Accardi ed Elvira Banotti aveva fondato Rivolta Femminile, i piccoli libretti verdi stampati dalla Casa Editrice che aveva lo stesso nome, cominciarono a circolare e a destare interesse anche per i loro titoli esplosivi, venuti dopo il Manifesto di Rivolta femminile: Sputiamo su Hegel nel 1970, seguito l’anno successivo da La donna clitoridea e la donna vaginale, entrambi frutto delle riunioni di autocoscienza condotte settimanalmente dal gruppo milanese formatosi intorno a Carla Lonzi. Mentre in molte città erano nati gruppi femministi che organizzavano manifestazioni, si battevano per la libertà di abortire ed esibivano in pubblico la loro protesta colorata fatta di zoccoli, seni al vento e gonnellone zingaresche, dando vita all’aspetto più folcloristico e superficiale del femminismo, nelle stesse città si formavano i piccoli gruppi di Rivolta Femminile, in cui ognuna raccontava al registratore – in una confessione immediata, come Carla Lonzi aveva già fatto con gli artisti – il proprio vissuto e i problemi legati alla quotidianità, con una particolare attenzione ai rapporti con gli uomini e alla sessualità. E, come sta avvenendo oggi con le “confessioni” legate alle rivelazioni di Asia Argento, le reazioni del gruppo oscillavano tra la solidarietà e la disapprovazione, riunioni “difficili” quindi, anche perché assomigliavano in parte a sedute di analisi, ma senza l’analista e non strettamente private. Le pubblicazioni di Carla contenevano affermazioni molto scarne ed incisive sulla società e sulla stessa cultura, che risultavano effettivamente programmate e decise da una volontà maschile quasi mai contraddetta o contestata radicalmente, che aveva preso nel corso della Storia decisioni ed iniziative senza mai tener conto di una metà del genere umano di gran lunga maggioritaria: le donne. Il suo linguaggio, scarno e assolutamente piano, senza enfasi, più che il tono della rivendicazione, ha quello della constatazione, che, diversamente da ciò che si potrebbe pensare, non apre ad alcuna obiezione o discussione e si pone con la mitezza – e l’autorità – dell’osservazione, con la definitività dell’evidenza. Di qui a mio avviso la radicalità del suo femminismo, che rivendica l’orgoglio della differenza contro l’illusione dell’uguaglianza e radica nell’anatomia femminile – la clitoride come via regia all’orgasmo – l’autonomia di una sessualità svincolata dalle richieste maschili e dal fine generativo, considerato illegittimo. Oltre alle molte verità che i testi poco frequentati di Carla Lonzi ci hanno lasciato c’è da considerare la pazienza, la precisione e la costanza con cui ha trascritto ciò che in molti anni è stato prodotto da un particolare vissuto delle donne e dalla loro parola. Maria Luisa Boccia, che a Carla Lonzi ha dedicato un libro ampio ed esaustivo, L’io in rivolta, parla di uno “sguardo spietato” generato in lei dalla lettura del testo di Carla Lonzi Vai pure, indirizzato come commiato a Pietro Consagra, il grande artista a cui la Lonzi era stata legata per molti anni. Ecco, credo che questa sana, spartana spietatezza sia quel coltello che alle donne è necessario quando malintesi, convenzioni e falsi sentimenti le legano a situazioni invivibili distruggendone l’io e l’autenticità.

Repubblica 25.11.17
Stop alla violenza
Voci di donne che scelgono di dire basta
Ascoltarle trasmette coraggio. E una certezza: cambiare si può. A patto di non lasciarle sole
di Alessandra Longo

Bisogna entrare piano nelle storie delle donne. In punta di piedi e con rispetto perche ogni vissuto di sofferenza è una storia a sé. E ogni reazione è individuale e va rispettata: che sia rabbia, paura, rassegnazione, persino sottomissione. Di uguale c’è solo la violenza maschile che ha un unico scopo: il controllo di quella che si crede una proprietà, l’annientamento della compagna di vita che non si lascia domare come una cavalla, che difende i figli come una tigre, che ama la vita e magari pianifica, o solo pensa, che non ne può più di quel maschio dalle reazioni animali ( ma è far torto agli animali).
Reagire si può. Lo dimostrano le storie che pubblichiamo. Lo dimostra il coraggio di Lucia Annibali che addirittura, dopo la tragedia che ha vissuto, riesce a pronunciare la parola «speranza». Lo dimostra la forza di Gessica che era bellissima, e stringe il cuore vederla oggi così. Lei non la dà vinta al suo carnefice e mostra la sua faccia com’è. E nel farlo butta fuori rabbia e disperazione e le incanala in qualcosa di vitale, di sano, qualcosa che abbia un orizzonte per lei e altre vittime come lei.
Sì, ci può essere vita dopo le botte, le umiliazioni, la carne ferita. Ci può e ci deve essere.
L’insegnamento che viene da queste donne è che bisogna tirar fuori la rabbia, rispondere colpo su colpo, denunciare, mettere alla berlina i violenti. Non è facile, giocano i condizionamenti socioculturali, gioca la paura di essere uccise, il timore di turbare i figli (che peraltro bevono lo stesso la violenza), la vergogna di passare per sconfitte, l’ingenuità di chi crede che «lui cambierà, resisto ancora un po’». No, questi criminali non cambiano e non picchiano e uccidono per troppo amore. È un’altra leggenda metropolitana da sfatare.
Ma non è tutto come prima, qualcosa sta cambiando e le donne che soffrono in silenzio si devono fare forza e devono spezzare le loro catene di sofferenza. Nessuno può farlo meglio di loro. Sappiano che è questa la strada per uscire dall’incubo e vivere con pienezza la propria vita dando un esempio positivo ai figli.
Rassegnarsi, tenersi tutto dentro, non porta da nessuna parte se non a protrarre nel tempo il dolore e la prigionia.
Dice Bo, l’economista: «Il mio errore? Aver aspettato troppo a lungo». Olga ha finalmente urlato in un libro la sua indignazione: «Toglimi le mani di dosso».
Rialzatevi, provateci. Se vi umilia, vi picchia, vi ricatta, reagite, credete in voi e in noi.
Oggi scenderanno in piazza le donne di “Non una di meno”, oggi la Camera vi renderà omaggio. Certo, poi ognuno deve fare la sua parte, lo Stato in primis rafforzando le tutele e punendo i carnefici. E la società che non deve mai fregarsene.

il manifesto 25.11.17
Lo scandalo Camille Claudel
Mostre. Un museo dedicato alla scultrice è stato inaugurato a Nogent-sur-Seine, la mostra "Eternelle idole" si tiene a Villa Medici a Roma fino al 7 gennaio
di Matilde Hochkofler

«Mia cara mamma, sei davvero cinica nel negarmi riparo a Villeneuve. Non darei scandalo come tu immagini. Riprendere l’esistenza normale mi darebbe una gioia tale che non farei nient’altro. Non mi muoverei neppure, tanta è stata la sofferenza». Sono le prime parole che Camille Claudel scrive alla madre nel 1927 dal manicomio di Montdevergues, dove resterà rinchiusa fino alla morte avvenuta il 19 ottobre 1943, dopo essere stata ospite di Ville-Evrard fin dal 1913. Il suo nome è indissolubilmente legato a quello di Auguste Rodin, tanto che le sue opere sono ospitate nel grande museo di Parigi dedicato allo scultore. Solo da poco si è inaugurato un museo tutto per lei a Nogent-sur-Seine dove ha trascorso l’adolescenza e ha creato le prime opere in argilla. La sua preoccupazione di «dare scandalo» risponde al turbamento della famiglia borghese quando ha saputo dei suoi rapporti con Rodin, il suo deplorevole contegno nascosto dietro la collaborazione di lavoro. Anche suo fratello Paul Claudel, scrittore e console per la Francia in molti paesi del mondo fino alla Cina e più tardi ambasciatore a Washington, l’unico che le era stato molto vicino, quando si converte al cattolicesimo diventa un feroce accusatore anche se negli anni il suo atteggiamento si ammorbidirà. Ma purtroppo il male di Camille, acuito dall’abbandono dell’amante e dalla morte del padre, sarà tale da renderla pericolosa per sé e per gli altri. La sua mania di persecuzione, il sospetto di una minaccia che può venirle da tutti la fa chiudere in se stessa, la fa vivere nella sporcizia, la fa distruggere le sue ultime opere, fino a non volerne fare altre. Se la vita dell’artista non era stata sempre così, le ragioni del suo squilibrio sembrano venire da lontano. Una madre castrante che non perde occasione per rimproverarla preferendole la più docile Louise, di due anni più giovane e già sulla strada del conformismo. Un padre invece che la idolatra e raccoglie le più piccole note sul suo successo. Un fratello a cui è troppo attaccata e che prova a sua volta per lei un affetto morboso. Un amore infelice , quello per Auguste Rodin, violento, esclusivo, venato da gelosie professionali e soprattutto avvelenato da un’insicurezza di fondo, perché lui, molto più anziano e legato fin dagli anni della povertà a Rose Beuret, non si sentirà mai di lasciarla.
Camille nasce l’8 dicembre 1864 a Fère-en-Tardenois, una cittadina tra i campi e le colline dello Champagne. Ma ben presto la famiglia si trasferisce perché il padre curatore delle Ipoteche cambierà molte volte sede. È molto legata a Louis-Prosper Claudel di cui lascia un ritratto che mostra due occhi sorridenti su un lungo naso sottile, una corta barba bianca, la mano che impugna con grazie la matita e l’espressione intelligente e sensibile. Fin da bambina il suo tesoro è l’argilla, la preziosa argilla rossa che gli operai trasformano in tegole, con cui fa i visi dei suoi coetanei, se riesce a persuaderli a posare per lei. Quando i Claudel si trasferiscono a Nogent-sur-Seine, l’opera di Camille attira l’attenzione dello scultore Alfred Boucher, il primo a capire che dovrebbe frequentare una scuola d’arte. Ma ne esistono solo a Parigi. Le suppliche appassionate di Camille e la sua forte volontà riescono a convincere il padre, che resterà a Wassy-sur-Blaise.
LE BELLE ARTI
Così nel 1881 la signora Claudel si trasferisce con i tre figli a Parigi. Però l’Ecole des Beaux –Arts è preclusa alle donne in quanto non possono accedere ai modelli nudi dal vivo. Solo l’Accademia Colarossi le accetta, ma per loro il mestiere dello scultore sarà sempre un lavoro molto duro. L’argilla, il marmo, l’onice pesano e la proibizione di portare i pantaloni le costringerà a arrampicarsi sui ponteggi con le lunghe gonne che s’impigliano nella struttura. Camille trova in Rue Notre-Dame-des-Champs, vicino a casa, il suo primo atelier che affitta con altre artiste inglesi di cui resterà amica per tutta la vita. Da qui passa spesso Boucher che continua a darle i suoi preziosi consigli. È proprio lui che nel 1882 la presenta a Rodin per l’impressionante affinità delle loro opere. Il maestro riconosce subito le qualità della giovane e l’accetta come aiutante, modella e allieva nel suo atelier Dépot des Marbres. Alcuni lavori di Camille risentono l’influenza di Rodin, come l’«Homme penché», che nella contorsione del busto e nella resa espressionistica della muscolatura ricorda il suo «Penseur».
ESPOSIZIONI
Nel 1883 espone per la prima volta al Salon des Artistes Français e continuerà a farlo fino al 1889 per passare poi alla Société Nationale, l’esposizione concorrente fondata nel 1890. Le opere di Camille risentono da vicino i suoi stati d’animo, si potrebbero definire il suo diario, con i momenti di gioia, di tristezza, di disperazione, fino all’afasia finale. Il busto di suo fratello Paul a sedici anni vestito da antico romano, in gesso patinato e poi in bronzo, con lo sguardo intenso, l’espressione leggermente corrucciata, mostra la vicinanza tra di loro e il grande rispetto intellettuale che provava per lui. «Sakountala», dal nome dell’eroina di un dramma indù, rifatto in varie versioni, terra cotta e bronzo, scolpito durante la relazione con Rodin, manifesta l’amore ritrovato con le due figure abbracciate disperatamente, ma già come corrose dall’inquietudine. La scultura ha molto successo al Salon e riceve una medaglia d’onore perché esprime un profondo sentimento di tenerezza appassionata ma casta, un fremito e un ardore contenuto, quasi un lamento soffocato. Nel busto «Portrait d’Auguste Rodin», lo scultore dimostra molto di più dei suoi quarantaquattro anni, sembra un vecchio dalla folta barba, una figura paterna severa ma affettuosa. L’amplesso di «La Valse» ha una storia complicata. Se per l’artista è il tentativo di cogliere la vita nel suo movimento, nella trasformazione, nell’equilibrio precario di un legame tormentato, per i possibili committenti è troppo esplicito. I due corpi nudi, il cui movimento è sottolineato dalla leggerezza della lunga gonna, scandalizza l’ispettore del Ministero delle Belle Arti, a cui Camille aveva chiesto di ottenere del marmo, che è turbato dalla vicinanza dei sessi e dal violento realismo. Per lo scrittore Jules Renard, invitato a cena da Paul nell’atelier di Camille dove troneggia «La Valse» in bronzo, la coppia sembra voler andare a letto e finire la danza con l’amore.
L’ISLETTE
Nel 1892 Camille capisce che per essere trattata da vero scultore deve allontanarsi da Rodin. Sa bene d’altra parte che lui non vorrebbe mai prendere una decisione, ma che alla fine sceglierà Rose. È lei allora che si allontana. Durante l’estate va a l’Islette, dove erano già stati insieme e, tornata a Parigi, scrive all’amante-patron che la loro relazione è finita. Quando lascia l’atelier di Rodin è amareggiata e ferita, ma è proprio questa ferita che la rende ancora più determinata a farsi riconoscere come scultrice. Vive ormai solo per la sua arte e questi saranno gli anni più fecondi della sua carriera. Si sa di certo che Camille è ricorsa all’aborto e probabilmente si è recata a l’Islette per rimettersi in forze. Forse per ricordare il bambino perduto lavora al busto di una fanciulla dall’espressione intensa, gli occhi febbrili, con una grossa treccia sulla schiena, «La petite chatelaine» che rifarà in molte versioni.
Al Salon del 1893, Debussy, che era diventato amico di Camille, è impressionato da «Clotho», la Parca che tesse i destini degli uomini. Per sottolinearne l’aspetto terrorizzante l’autrice ne ha fatto una vecchia segnata da profonde rughe, il corpo scheletrico, aggrovigliata nei fili delle vite che tesse. Come un ragno imprigionato nella sua tela, cerca di liberarsi della matassa che le cade intorno e le copre la faccia avvizzita. La statua è sparita e negli anni del delirio Camille accuserà Rodin di avergliela rubata. Il gruppo di «Les Causeuses», che in onice e bronzo descrive l’intimità di donne che chiacchierano tra di loro, suscita l’ammirazione dei critici che definiscono la scultrice «una grande e meravigliosa artista, qualche cosa di unico, una rivolta della natura: la donna di genio». Quando Camille va alla mostra di Ginevra dove la scultura è esposta assieme alle opere di altri artisti, è presente anche Rodin. Al ritorno le scrive una lettera che esprime tutto l’amore che prova ancora per lei: «Mia sovrana, mia amica, sono ancora malato e tuttavia, se devo guarire, adesso guarirò perché l’avervi incontrata al vernissage è per me l’inizio di una consolazione che mi restituirà la salute». Al Salon del 1897 presenta «La Vague». Nonostante la scultura abbia la stessa ispirazione di «Les Causeuses», l’onda che si piega, minaccia o protegge?, le tre piccole donne intente a giocare nell’acqua rivela l’influenza di Hokusai, il pittore giapponese che ammirava molto. Ma i suoi eterni problemi economici le impediscono di continuare un’opera appena iniziata. Sarà Rodin, che comunque segue da lontano le sue vicende, a indurre il Ministero a erogarle duemilacinquecento franchi per realizzare in gesso «L’Age mur», poi rifatta in bronzo. L’uomo e l’anziana donna sono aggrovigliati in un implacabile destino, mentre la giovane implorante allunga le braccia verso la mano dell’uomo incerto se afferrarla. In Camille non esiste mai quiete o abbandono, ma sempre atteggiamenti estremi. Sullo sfondo della grande rivoluzione impressionista, si lascia alle spalle gli ultimi sussulti del romanticismo e cerca una modernità più intensa, conflittuale, tormentata. Cerca di cogliere l’emozione mentre il processo è ancora in corso, si affaccia sull’abisso senza mai pronunciare la parola fine.

La Stampa 25.11.17
Strategia spericolata a sinistra del Nazareno
di Marcello Sorgi

Consumata la rottura a sinistra, l’apertura della Leopolda ieri sera a Firenze e l’assemblea del 3 dicembre della sinistra-sinistra inaugurano la campagna elettorale delle liste contrapposte, anche se non è ancora chiaro se in contrapposizione a quella di centrosinistra in cui dovrebbero confluire Pd, Ap di Alfano, Campo progressista di Pisapia e Radicali di Bonino ci sarà solo uno o più raggruppamenti. L’accordo è ormai concluso tra Mdp, Sinistra italiana e Possibile, ma accanto a loro (e contro di loro) potrebbero schierarsi Rifondazione comunista e altri pezzi di sinistra radicale, mentre gli animatori dell’assemblea del Brancaccio Falcone e Montanari hanno chiarito che non si presenteranno alle elezioni, scegliendo molto probabilmente l’astensione.
L’ipotesi che questa frammentazione rischi di portare un risultato peggiore di quello di Bersani del 2013, quando il centrosinistra unito conseguì la famosa “non vittoria” non sembra affatto preoccupare Mdp, che punta a raggiungere il dieci per cento, e come ha spiegato D’Alema in un’intervista a Aldo Cazzullo del “Corriere della Sera”, farà una campagna per richiamare dall’astensionismo un elettorato di sinistra che s’è sentito tradito da Renzi, con due obiettivi: la cancellazione del Jobs Act per il recupero dell’articolo 18 e la riforma della riforma Fornero delle pensioni.
Questa strategia, in sè del tutto legittima, contiene però una contraddizione. Chi ha conosciuto i più tradizionali elettori di sinistra, a cui Mdp con i propri alleati intende rivolgersi, sa bene che si tratta di un pezzo di opinione pubblica politicamente acculturato, capace di distinguere tra una promessa elettorale irrealizzabile e un progetto concreto, consapevole dei problemi del Paese e in parte perfino disponibile a farsene carico, a patto di capire il senso di certe scelte e le conseguenze di medio termine. Se si è ritirato nell’astensione è a causa della delusione per l’inconcludenza della politica.
Ora, perché questo elettore disincantato dovrebbe ritenere possibile che un partito del dieci per cento - ammesso che ci arrivi - riesca a cancellare in Parlamento le riforme, discutibili quanti si vuole, approvate da una larga maggioranza in questa legislatura? La logica della sinistra di governo, in cui D’Alema e Bersani hanno militato negli ultimi venticinque anni, è stata di presentarsi unita, anche a prezzo di compromessi, per avere la forza di introdurre i cambiamenti necessari e realizzare i propri programmi. Cosa che, è evidente, è impossibile fare con piccoli gruppi parlamentari e andando all’opposizione.

Corriere 25.11.17
la Cina taglia i dazi per tener testa agli usa
di Massimo Gaggi

L a drastica riduzione dei dazi sulle importazioni di 187 prodotti (numerosi quelli italiani) decisa ieri dalla Cina prova che la linea dura della Casa Bianca con Pechino sul free trade funziona? Donald Trump ne è certamente convinto, ma le cose non stanno così, se non in minima parte. Il mondo è complicato e anche le grandi scelte economiche della potenza asiatica hanno motivazioni complesse. Xi Jinping ha voluto certamente dare un segnale di disponibilità agli Usa e anche alla Ue, impegnata in negoziati infiniti con la Cina sulle barriere commerciali. Ma la sostanza è un’altra: l’abbattimento dei dazi, il secondo in due anni, è soprattutto una mossa rivolta all’interno che ha l’obiettivo di accelerare la trasformazione di un sistema fin qui sostenuto dall’export e da massicci investimenti in infrastrutture in un’economia basata soprattutto sulla crescita dei consumi interni.
Che si tratta di questo è evidente già dall’elenco delle merci su cui i dazi verranno ridotti dal 17 al 7 per cento (e in qualche raro caso addirittura azzerati): niente prodotti tecnologici, macchinari, beni d’investimento. Solo normalissimi beni di consumo — dai pannolini al latte in polvere, passando per le bevande alcoliche e i profumi — che il ceto medio asiatico ormai benestante e affamato di merci occidentali (soprattutto dopo gli scandali che hanno messo in dubbio la qualità e la sicurezza di alcuni prodotti cinesi) va sempre più spesso ad acquistare fuori dai confini nazionali. Meglio, allora, spingere i cittadini a comprare questi prodotti in patria: il margine che spetta alla distribuzione commerciale resterà in Cina e si ridurranno le spese per viaggi all’estero.
Certo, tutto questo ha anche un significato a livello di relazioni internazionali, ma sarebbe miope ridurlo a una sorta di inchino cinese davanti ai pugni battuti sul tavolo da Trump. Dopo il recente viaggio asiatico del presidente molti organi d’informazione e anche i servizi Usa di intelligence hanno sottolineato come, capita la vulnerabilità psicologica di un leader così narcisista, i leader da lui incontrati abbiano tentato di compiacerlo con elogi e concessioni formali.
Più che un inchino, quindi, l’apertura sui dazi (come la possibilità di controllare fondi d’investimenti e altre attività finanziarie concessa alle imprese straniere pochi giorni fa, durante il viaggio di Trump) è un altro passo sulla via della trasformazione della Cina in una superpotenza politica, oltre che economica.
Non più la fabbrica del mondo che non raggiunge, però, l’eccellenza tecnologica, un’economia emergente retta da un regime autoritario, ma un Paese che, grazie anche alla crisi d’identità dell’America trumpiana, tende ad acquistare un ruolo centrale in varie aree: l’impegno per la tutela ambientale e lo sviluppo delle energie rinnovabili (Pechino protagonista dopo il sostanziale ritiro di Washington), la sfida agli Stati Uniti per la leadership nell’intelligenza artificiale, la tecnologia del futuro, strategica anche sul piano militare. E poi, ancora, questo stesso, forte sviluppo dei consumi interni destinato a rendere quello cinese un mercato irrinunciabile per le imprese di tutto il mondo e perfino l’impegno per la riduzione delle diseguaglianze economiche tra i cittadini: è lo slogan sbandierato da Xi Jinping al recente congresso del Partito comunista cinese che lo ha visto uscire da trionfatore. Ma non sono solo parole: i dati della Banca mondiale e dell’Ocse mostrano che in Cina le diseguaglianze, divenute estreme in 30 anni di rapido sviluppo economico, ora si stanno riducendo soprattutto grazie a un’industrializzazione che, dopo le città costiere, sta ora investendo le aree interne del Paese, le più povere.
La Cina vera superpotenza in grado di tenere testa agli Stati Uniti resterà ancora a lungo un sogno per la leadership di Pechino che deve occuparsi prima di tutto di evitare il collasso di un’economia surriscaldata dall’eccesso d’investimenti alimentati dai prestiti facili delle banche e gravata da un enorme debito pubblico (il 260 per cento del Pil, il doppio di quello italiano). Ma il taglio dei dazi e il sostegno ai consumi interni servono proprio a tentare di riequilibrare questa situazione e a dare credibilità allo yuan come valuta alternativa a dollaro ed euro. Offrendo al tempo stesso agli altri Paesi emergenti del mondo il modello di una tecnocrazia illiberale ma efficiente (le misure annunciate ieri entreranno in vigore tra pochi giorni) contrapposto a quello di liberaldemocrazie occidentali tutte scosse in misura più o meno rilevante da crisi di governabilità e da perdite di credibilità.

Il Sole 25.11.17
il reportage
Lo scoglio che divide Cina e Giappone
di Stefano Carrer

Ishigaki. Yoshitaka Nakayama è un sindaco strattonato dalle pressioni del governo centrale e da quelle di un Paese straniero, che lo mettono in difficoltà con i cittadini del piccolo comune che amministra, situato in un’amena isola tropicale che rischia di infuocarsi non solo per il sole.
Non c’è solo la Corea del Nord o il Mar Cinese Meridionale: anche il Mar Cinese Orientale fa da teatro a una latente crisi geopolitica che, messa per il momento in ombra dalle altre due, rischia in futuro di generare una guerra generale. E già oggi non fa dormire sonni tranquilli a Nakayama, che non ha ancora ufficializzato se si ripresenterà o meno alle elezioni di marzo per farsi rinnovare il mandato di primo cittadino di Ishigaki. Ma lo farà, questa volta con il pericolo di non farcela. Non saranno elezioni municipali come le altre: si tratterà di un vero e proprio referendum sul quesito se accettare o meno la presenza di ben 600 soldati sulla piccola isola all’estremo sud dell’arcipelago delle Ryukyu, prefettura di Okinawa.
Già da qualche anno i piani del ministero della Difesa giapponese sono chiari: più che dedicare grandi risorse a contrastare la minaccia nordcoreana, va spostato il baricentro della difesa nazionale sullo scacchiere Sud, per proteggere dalle mire cinesi le disabitate isolette Senkaku, che sul piano amministrativo dipendono da Ishigaki (distante da esse 170 km, molto meno dei 410 km da Okinawa). I turisti fanno immersioni nelle acque cristalline di Ishigaki sotto un cielo diventato minaccioso dal 23 novembre di quattro anni fa, quando la Cina istituì una Zona di identificazione per la difesa aerea (Adiz) che si sovrappone a quella giapponese sopra le Senkaku, di cui rivendica la sovranità chiamandole Diaoyu. Secondo vari analisti, è stato così gettato il seme permanente di un potenziale conflitto mondiale. Il “9/11” giapponese è stato nel 2012, quando l’11 settembre il governo centrale nazionalizzò le tre principali isole del piccolo arcipelago (fino ad allora di proprietà privata) per evitare che le comprasse il governatore nazionalista di Tokyo Shintaro Ishihara: Pechino reagì con un boicottaggio economico e cominciò a moltiplicare le incursioni nell’area. Tokyo non intende solo continuare ad aumentare le unità della guardia costiera a Ishigaki, ma inviarvi un forte contingente permanente di Forze di Autodifesa di Terra (l’esercito), con tanto di sistemi missilistici antinavi. Già su un’altra remota isola, Yonaguni, sono comparse nuove installazioni radar, mentre anche le isole di Miyako e Amami dovranno essere presidiate.
«I miei cittadini sono divisi: c’è chi comprende che si tratta di uno sviluppo inevitabile e chi si oppone: occorrerà tempo per cercare di raggiungere un consenso, ma non si può far finta di niente di fronte alle aumentate pressioni cinesi», afferma Nakayama. «Si tratta di una questione di primaria importanza nazionale: sarebbe assurdo vederla sotto un’ottica locale», afferma Yushiyuki Toita, segretario della Yaeyama Defense Association, che raggruppa cittadini di Ishigaki e delle isole vicine. «Direi anzi - prosegue - che il governo centrale sta dando priorità ai legami economici con la Cina ed è fin troppo accondiscendente». La situazione appare unica nel mondo: Nakayama amministra un territorio, ma alle Senkaku nessuno può andare. Neanche lui. Lo vieta il governo nazionale, per evitare ritorsioni cinesi. «Pensare – sospira Nakayama – che sull’isola principale, Uotsuri, sarebbe indispensabile quantomeno un management ecologico». L’ecosistema è stato danneggiato dalla moltiplicazione esponenziale delle capre, dopo che una coppia di questi animali fu portata lì alcuni anni fa da un gruppetto di nazionalisti. «Vorremo andarci a pescare, ma siamo costretti a evitare possibili incidenti. E questo ci danneggia molto», dice Koukichi Irabu, direttore della cooperativa dei pescatori delle Yaeyama. Per la verità, parlando con i pescatori si ha la sensazione che il problema più sentito non sia tanto andare alle Senkaku (piuttosto lontane), ma l’accordo sulla pesca che Tokyo ha fatto con Taiwan, concedendo molto ai pescatori taiwanesi per evitare un fronte comune tra Taipei (che rivendica anch’essa la sovranità sulle Senkaku) e Pechino. «L’anno scorso – afferma il tenente colonnello Taro Murao del 9th Air Wing della Japan Self-Defense Force, istituito l’anno scorso presso l’aeroporto di Naha, a Okinawa, con un raddoppio dei caccia F-15 da 20 a 40 – su un totale di 1.168 missioni di intercettazione, 851 hanno riguardato sospette incursioni cinesi nel nostro spazio aereo. Quest’anno sono un po’ calate, ma non le pressioni complessive». Pechino ora guarda all’oceano aperto: i suoi caccia e bombardieri hanno cominciato dall’anno scorso a volare tra Okinawa e Miyako o anche sul Mar del Giappone. È chiaro che lo faranno sempre più, ponendo nuovi problemi strategici, anche se hanno il pieno diritto di passare in corridoi aerei internazionali. Più critiche, dal punto di vista giapponese, le flottiglie di pescherecci, anche armati, o di unità costiere cinesi che periodicamente girano intorno alle Senkaku. Nel corso di una recente puntata effettuata il 2 novembre scorso, ad affacciarsi sono state 4 navi della Guardia costiera cinese.
Nelle scorse settimane a Tokyo il premier Shinzo Abe non ha chiesto a Donald Trump quello che aveva preteso da Obama: una solenne riaffermazione che l’art. 5 del trattato di alleanza militare impegna gli Usa alla guerra se il Giappone, come è scontato, decidesse di difendere le isolette da un attacco nemico. Il premier ha deciso di non fare nulla per contrariare o imbarazzare l’ombroso compagno di diplomazia del golf. Insistere sul punto avrebbe rovinato l’allora imminente viaggio di Trump dal presidente cinese Xi Jinping. Inoltre il campione dell’America First può ben agitare venti di guerra se si tratta di difendere città Usa da minacce missilistiche nordcoreane; meno apprezzabile dalla sua base elettorale sarebbe evidenziare il conferimento in atto a un Paese straniero di carta bianca per coinvolgere gli States in una possibile guerra mondiale a causa di remotissime isolette disabitate di cui il 99% degli americani non ha mai sentito parlare. Tanto più che gli Usa non hanno mai preso posizione sulla questione ultima della sovranità su queste isole: le devono difendere in quanto territorio “amministrato” dall’alleato. Una delle isole contestate si chiami Kuba: inquietante reminiscenza, almeno fonetica, della crisi caraibica che portò il mondo sull’orlo della guerra nucleare nel 1962.

Il Sole 25.11.17
L’analista. Giulio Pugliese
Una controversia difficile: «Xi e Abe sono nazionalisti»
di S.Car.

«La disputa sulle isole Senkaku/Diaoyu è sintomo per eccellenza della turbolenta transizione di potere in Asia Orientale. Una Cina in forte ascesa – politica, economica e militare - persegue ora una politica estera assertiva. Il Giappone, scalzato dalla Cina come potenza egemonica regionale, si ritrova nella necessità di rivoluzionare la propria politica di sicurezza per meglio fronteggiare una Cina più aggressiva e un alleato recalcitrante all’intervento in un conflitto armato per delle isole di scarso valore strategico ed economico. Ciò detto, una redifinizione definitiva dei rapporti di potere in Asia-Pacifico potrebbe chetare le acque in futuro». Giulio Pugliese, ricercatore presso il dipartimento di War Studies al King’s College London, ha da poco scritto - con Aurelio Insisa dell’università di Hong Kong - il saggio “Sino-Japanese Power Politics: Might, Money and Minds” (Palgrave Macmillan), che illustra origine e pericolosità del problema delle isole contese. «La Cina – spiega – ha lamentato la nazionalizzazione del 2012, stigmatizzando il Giappone come potenza revisionista. La nazionalizzazione ha di fatto contribuito a legittimare l’invio cinese di navi, droni e pescherecci nei mari adiacenti. Il Giappone ha sbagliato a nazionalizzare gli isolotti durante il 18esimo congresso del Partito comunista cinese e il passaggio del testimone a una nuova leadership. In virtù delle montanti sfide interne e delle guerre tra fazioni del Pcc, l’amministrazione Xi ha cavalcato la tigre del nazionalismo anti-giapponese per legittimare le credenziali del leader supremo. L’ascesa di Shinzo Abe e il passaggio di un pacchetto di riforme sulla sicurezza ha rinforzato queste dinamiche». Al netto della figura controversa di Abe, il Giappone «si è comportato in maniera esemplare: Tokyo ha evitato di costruire strutture militari o civili sulle isole contese e ha evitato visite di alcun tipo sulle stesse. Basti confrontare l’approccio giapponese a quello coreano, russo e cinese su simili territori e ricordare che Tokyo si è detta pronta all’arbitrato internazionale, rifiutato di Pechino».
Dopo il rafforzamento politico di Xi e Abe, è probabile che la situazione non sfuggirà di mano, ma le tensioni resteranno: «Sia Xi che Abe hanno dato prova di essere dei nazionalisti convinti. Xi desidera reclamare la centralità politico-economico della Cina in ambito internazionale, Abe aspira a normalizzare il Giappone, anche militarmente, come conviene a una grande potenza. Poiché tali obiettivi sono anatema per la controparte e poiché i rapporti di potere sono ancora in fase di definizione, le relazioni sino-giapponesi continueranno a registrare turbolenze nel breve-medio periodo, anche a fronte di incontri al vertice».

Corriere 25.11.17
Il Vaticano cauto sui segnali (ancora ambigui) della Cina al Papa
di Massimo Franco

Papa Francesco sarebbe «ansioso» di andare in Cina. Il Vaticano studia l’ultimo congresso del Partito comunista per intravedere segnali di apertura.
In Vaticano hanno cominciato a studiare la lunga relazione letta all’ultimo congresso del Partito comunista cinese dal presidente Xi Jinping. Si cerca di capire se contenga segnali di apertura; se alla presa ferrea sui gangli del potere da parte del «nuovo Mao» corrisponderà anche una maggiore apertura in materia di diritti umani e di libertà religiosa. Per il momento, l’evoluzione della Cina su questi temi «rimane un’incognita. Questo grande Paese continua a essere difficile da capire». Il giudizio è cauto, tipico di una diplomazia pontificia che analizza i segnali espliciti ma anche le mille sfumature di una relazione comunque tormentata. La Città Proibita di Pechino si aprirà a marzo a 40 opere cinesi conservate nei Musei vaticani: una «diplomazia dell’arte» che tende giustamente a sottolineare il miglioramento dei rapporti. E altrettante opere cinesi saranno esposte in uno spazio dei musei del Papa.
L’impressione, però, è che la strada per una riconciliazione tra la Chiesa di Francesco e la seconda potenza economica mondiale sarà ancora lunga. Sul dialogo con quell’immensa nazione asiatica, Jorge Mario Bergoglio sta investendo molto da quando è stato eletto. Il desiderio di visitare la Cina, e in prospettiva di stabilire relazioni diplomatiche, non è un mistero. E nel viaggio che comincia domani e lo porterà in Myanmar e Bangladesh, sullo sfondo rimarranno necessariamente i due giganti asiatici: l’India, che potrebbe visitare nel 2018, e appunto la Cina. A fine ottobre, ricevendo trenta religiosi cinesi, Francesco li ha congedati dicendo: «Verrò presto da voi a restituire la vostra graditissima visita». È un «presto» da leggere con i tempi lunghi delle strategie vaticane e cinesi. D’altronde, quando un anno fa è stato intervistato da Asia Times , Francesco ha usato parole di estrema apertura alla Cina. E ha ammesso che si sta parlando, lentamente: le cose lente vanno bene, quelle in fretta no.
È una lentezza più marcata da parte cinese, con segnali tuttora non univoci. Ultimamente si teme perfino un irrigidimento verso la cosiddetta «Chiesa cattolica clandestina»: quella non riconosciuta dal governo di Pechino, che nomina i vescovi della «Chiesa patriottica» senza concordarli con il Vaticano. Rimane uno dei punti di maggior tensione, sul quale si sta cercando da anni un compromesso. Qualche giorno fa, in un dibattito alla Civiltà cattolica , la rivista dei gesuiti, padre Federico Lombardi, oggi presidente della Fondazione Ratzinger, ha insistito sulla possibilità di una Chiesa «pienamente cinese e pienamente cattolica». Ha passato in rassegna le ragioni, tutte fondate, per le quali l’attenzione di Francesco «è ricambiata in Cina»: anche perché Bergoglio «non è un europeo. Non appartiene a quel continente di popoli colonizzatori che, soprattutto nel XIX e XX secolo, hanno fatto sentire alla Cina la potenza militare e il peso dei loro interessi economici. Né è stato coinvolto direttamente nel confronto con l’ideologia comunista e i regimi che vi si ispiravano».
Non è chiaro se questo basti a capovolgere in tempi brevi una strategia cinese nella quale l’incontro con la Santa Sede non sembra in cima alle priorità. Da quanto filtra in Vaticano, nel recente passato si è tentato di sondare l’entourage di Xi Jinping per capire se fosse possibile un incontro tra Francesco e il presidente, magari in un luogo neutro. Ma la sensazione è stata che dal versante cinese non arrivassero segnali di una vera volontà a organizzarlo. E quando i 30 sacerdoti andati dal Papa a fine ottobre sono stati ricevuti dal segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, è stato chiesto loro di trasmettere «ai cattolici loro conterranei che la Santa Sede sta lavorando per il bene della Chiesa tra gli eredi del Celeste Impero, al fine di garantire spazi di libertà finora non goduta». Dalla creazione dell’Associazione Patriottica, longa manus del regime di Pechino, nel 1957, le divisioni sono state profonde. Negli ultimi anni sono stati fatti sforzi vistosi per superarle: una politica di mediazione e di compromesso che ha attirato le critiche di alcuni cardinali conservatori nei confronti dello stesso pontefice e di Parolin.
Ma i risultati sono stati in chiaroscuro. Tra l’altro, l’agenzia cattolica AsiaNews il 22 novembre ha dato la notizia che il Partito comunista cinese tenta di bloccare il turismo dei connazionali in Vaticano. Il Pcc «ha dato indicazioni perché nessuna agenzia di viaggio del Paese mandi gruppi di turisti a visitare il Vaticano o la basilica di San Pietro perché “non ci sono relazioni diplomatiche” tra Cina e Santa Sede». Qualunque agenzia turistica cinese che faccia pubblicità a queste destinazioni nelle sue pubblicazioni «sarà colpito da multe fino a 300 mila yuan (oltre 39 mila euro)», ha scritto il direttore, padre Bernardo Cervellera. È probabile che il divieto sarà aggirato in qualche maniera. Ma il segnale viene ritenuto preoccupante, e comunque in contraddizione con il processo di distensione che si è aperto.
Come condizione per il dialogo, la Cina continua a chiedere la rottura delle relazioni diplomatiche con Taiwan e di non interferire negli affari interni. La doppia mostra di marzo inaugura una «diplomazia dell’arte» che dovrebbe attenuare le diffidenze. Il Vaticano la usò anche nel 1892 con gli Stati Uniti, mandando dei mosaici del XVI secolo all’Esposizione colombiana di Chicago per ricucire rapporti, all’epoca tesi per lo scontro tra cattolici e protestanti. Il disgelo ci fu. Ma per stabilire piene relazioni diplomatiche tra Usa e Vaticano fu necessario arrivare al 1984.