Repubblica 24.11.17
Il reportage
Le nuove destre
L’autunno di Praga e il cuore nero nell’Europa dell’Est
Ritorno
nella città di Havel e Kundera, sperando che oggi non sia solo quella
di Babis Come a Varsavia e Budapest la stanchezza non è per la nuova
realtà ma per chi la governa
di Bernardo Valli
PRAGA
La nebbia avvolge il castello di Hradcany, nasconde persino la Moldava
sotto il Ponte Carlo. È una sera in cui la città ha un fascino
particolare.
Mostra i contorni preziosi di palazzi, chiese e
monumenti, grazie a un’illuminazione intelligente, e lascia nel buio le
brutte botteghe, in cui si cambia il denaro e si vendono pizze alla
massa di turisti a basso costo.
Occulta anche i luoghi dove
risiede il potere. Sembra una metafora dello stato d’animo nel paese,
ventotto anni dopo la “rivoluzione di velluto”, che ha riportato la
democrazia. I decenni cupi o sofferti, più di mezzo secolo tra
occupazione tedesca e comunismo importato (ma all’inizio con profonde
radici indigene), sono come annidati e invisibili nella foschia spessa
posata sul panorama urbano.
Sotto la coltre intrisa di pioggia
riposano sia il passato di cui sopravvivono inconsce e indelebili tracce
sia il presente che delude.
La società appare stanca non della
nuova realtà ma di chi la governa. I sogni postcomunisti si sono
appannati. La tarmata memoria collettiva fatica a riallacciare la
Repubblica ceca alla democrazia cecoslovacca degli anni Venti e Trenta,
esemplare in Europa fino all’apocalisse nazista. Il paese, amputato
della Slovacchia, è per alcuni aspetti anche adesso esemplare:
l’economia è in gagliarda, invidiabile crescita, la disoccupazione
praticamente non esiste. I partiti politici sono tanti e si esprimono
liberamente, ma quel che molti esprimono sono più proteste che idee. Lo
spleen è dovuto alla minaccia che peserebbe sull’identità nazionale.
La
si pensa in pericolo. Ed è come se a insidiarla fosse l’Unione europea.
«Invadente come un tempo il Cremlino», azzarda un deputato tutt’ altro
che populista, un socialdemocratico, che subito chiede che non gli venga
attribuito quel giudizio. Gli è scappato. Si scusa. Ma l’ha detto ad
alta voce, esagerando, quel che forse risente, come tanti altri
connazionali. Non c’è stato chi ha descritto la situazione della piccola
Repubblica ceca nell’Unione europea mostrando una pastiglia d’ aspirina
che si scioglie in un bicchiere d’ acqua?
Che scompare, privata di una vera indipendenza. È accaduto altre volte e i fantasmi della Storia riemergono.
Le
critiche all’Unione europea sono numerose e non tanto sfumate. Nella
maggioranza dei casi non auspicano tuttavia rotture tipo Brexit. Non si
vuole sentir parlare di federalismo. Si respinge l’idea di un processo
di più intensa integrazione.
L’Europa di Bruxelles è già troppo
cosi com’è. Ma non significa che si voglia un’uscita all’inglese. Questi
umori tracciano una linea geopolitica che segue il corso dell’Elba,
come un muro in cui si sono aperte tuttavia larghe brecce. Quegli umori
straripano come le acque di un fiume di cui cresce il livello normale.
Il populismo non dilaga soltanto a Est, dove governa. Anche a Ovest, da
noi, ve ne sono vistose macchie che si allargano, in Austria, nella
stessa Germania, dove l’estrema destra è entrata per la prina volta nel
Bundestag federale, in Olanda, in Francia Emmanuel Macron le ha arginate
ma non cancellate. Si estendono fin sulle rive mediterranee. È
l’epidemia politica del nostro tempo.
Qui, in una terra che per
essere e restare europea ha lottato con l’intelligenza, arma dei paesi
piccoli soffocati dalle grandi potenze, si rimprovera adesso al club di
Bruxelles, di cui infine fa parte, l’invadenza burocratica che lascia
poco spazio, gli si rimprovera di non avere fatto da diga, anzi di avere
spalancato le porte, all’ondata di migranti abbattutasi sul continente,
e che Praga rifiuta di accogliere. Si ha l’impressione che l’identità
nazionale appena recuperata, dopo il rullo compressore comunista, rischi
di essere travolta. Il trauma non si è ancora spento. La Repubblica
ceca ha accolto dodici migranti. Non uno di più. Ne avesse almeno
accettati cinquanta gli avremmo riconosciuto una certa generosità,
commenta sarcastico il diplomatico di un paese occidentale che ne ha
ospitato centinaia di migliaia. Come gli altri componenti del gruppo di
Visegrad la Repubblica ceca respinge la ripartizione dei profughi decisa
da Bruxelles. La presenza massiccia dell’Islam equivarrebbe a una
violenza culturale. È quel che lascia capire, con garbo, Ji?ì Pel_nil,
grande italianista ceco. Gli islamofobi più accesi vedono una svolta
multiculturale come un terremoto che polverizzerebbe il gotico
fiammeggiante e il barocco sulle sponde della Moldava.
Quando
parlo di nazionalismo mi viene spesso replicato che in Polonia e in
Ungheria è molto più forte. Praga sarebbe più cosmopolita di Varsavia e
di Budapest. Nella Repubblica ceca vive un milione di stranieri. Molti
ucraini e russi. E anche piccole comunità orientali. Il nazionalismo è
stato del resto un’arma efficace nelle società comuniste quando ci si è
dovuti difendere dall’egemonia sovietica. La Polonia di Lech Walesa è
citata come un esempio.
Il caso di Milan Kundera lascia
intravedere la fragilità del cosmopolitismo praghese. Ci si guarda bene
dal definire un traditore il grande romanziere nato e cresciuto a Brno
perché ha preso la nazionalità francese e adesso scrive in francese i
suoi libri. Ma affiora un certo risentimento. Se ricordo che anche il
praghese Franz Kafka scriveva in un’altra lingua, il tedesco, si replica
che allora, quando viveva Kafka, la Boemia era parte dell’Impero
austro-ungarico. La Cecoslovacchia è nata negli ultimi anni della sua
vita. La critica a Kundera si sposta su un altro terreno. Si ricorda che
in gioventù è stato l’autore di testi stalinisti.
Niente di
grave, si aggiunge, vista l’età, ma adesso, si insinua, non elenca quei
testi nella sua bibliografia. Il nazionalismo ferito si vendica come
può. Nel 1989, quando si festeggiò senza violenza la ritornata
democrazia, sull’altura di Hradcany, dove risiede il potere, c’era un
poeta, un drammaturgo, Vaclav Havel, poi presidente per lungo tempo, che
ha ridato a Praga un’impronta nobile. La cultura domina raramente la
politica. Havel fu un’eccezione. Continuando con la metafora si direbbe
che la nebbia che copre Hradcany, da dove governano i successori,
occulti per pudore un presente meno nobile.
Allo stesso modo,
senza cancellare lo splendore di Praga, la bruma relega nell’oscurità il
basso commercio non certo all’altezza dell’antica cornice urbana.
Questa mia prima lettura di Praga, influenzata dal ricordo della
sdrucita eleganza di un tempo, tende a lasciare nell’ombra, servendosi
dei capricci del tempo, versione meteorologica, quel che non mi è
gradito, e a salvare invece gli immutabili tesori di una delle più belle
città del mondo.
Tutti i paesi hanno mediocrità e virtù. Nello scrigno praghese i contrasti oggi saltano agli occhi.
Ho
lasciato anni fa la Praga di Havel e ritrovo oggi la Praga di Andrej
Babis, il vincitore delle ultime elezioni con un partito che già rivela
nel nome la sua idea principale: Azione dei cittadini scontenti (ANO).
Traccio subito il ritratto del nuovo leader in cui gli aspetti meno
edificanti stonano nella democrazia inaugurata da un poeta. Babis è il
primo o il secondo cittadino della Repubblica ceca per la richezza.
L’Agrofert,
una società finanziaria da cui si diramano almeno duecento imprese
(dall’agroalimentare alla petrolchimica ai giornali alle radio) ha il
maggior numero di dipendenti nel paese. Andrej Babis è entrato in
politica nel 2011, creando il partito ANO, che ha raccolto sempre più
voti a ogni elezione, fino a che il fondatore è diventato ministro delle
Finanze nel governo dominato dal partito socieldemocratico (CSSD),
assolvendo brillantemente il compito, fino a quando è stato raggiunto da
accuse di frode fiscale. La crescita dei consensi non ne ha risentito.
Non si è fermata neppure con l’incriminazione per avere dirottato
illegalmente su una sua proprietà una sovvenzione europea di due milioni
di euro; e neppure quando, sempre durante la campagna elettorale, è
stata rivelata la sua collaborazione con i servizi segreti nella
Cecoslovacchia comunista.
Vecchi compagni o collaboratori di
quell’epoca sarebbero adesso al suo servizio. Fondate o meno queste
accuse non hanno impedito la vittoria elettorale di Babis con il trenta
per cento dei voti. L’onestà disinvolta non ha nociuto al candidato. Non
capita soltanto nel post comunismo dove c’è scarso rispetto per la
politica troppo spesso violentata nel passato. Il miliardario ceco viene
chiamato il “piccolo Trump”. A molti ricorda Silvio Berlusconi.
Quando
il comunismo è crollato quattro paesi dell’Europa centro-orientale (la
Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’ Ungheria e la Polonia) hanno formato
il Gruppo di Visegrad con l’obbiettivo di allacciare stretti rapporti
con l’Unione europea.
Della quale sono diventati membri insieme
nel 2004. L’abbraccio fra il mondo post comunista e il mondo occidentale
in pochi anni si è allentato. Si è trasformato in un rapporto
litigioso. Quasi un fallimento. Nel senso che l’atteggiamento del Gruppo
di Visegrad è un freno a un’eventuale ripresa del processo di
integrazione e un peso anche nella stagnante situazione attuale.
L’inevitabile, dovuto allargamento all’Europa post comunista non è stato
e non è un successo. Le responsabilità possono essere suddivise. Alcune
ricadono sui paesi occidentali che hanno trattato quelli
centro-orientali come partner di seconda categoria, sia escludendoli
dalle decisioni importanti sia limitando, ad esempio, l’accesso dei loro
cittadini ai mercati occidentali del lavoro. Varsavia e Budapest hanno
accusato Bruxelles di respingere o trascurare le loro proposte, e hanno
eretto una barriera di diffidenza, col tempo di scetticismo al limite
del rifiuto. Le
segue a pagina 8 ?
Lo spleen è dovuto alla minaccia che peserebbe sull’identità nazionale. La si pensa in pericolo.
Ed è come se a insidiarla fosse l’Unione europea.
«Invadente come un tempo il Cremlino», azzarda un deputato