Repubblica 24.11.17
Il Paese a crescita zero
L’Italia senza culle che può salvarsi grazie ai migranti
Bisogna intervenire subito sull’asse portante della nostra economia: la fascia di età 35-49 anni
Se non ci fossero stati immigrati le generazioni si sarebbero dimezzate
In futuro il peso rischia di diventare insostenibile per pensioni e debito pubblico
di Alessandro Rosina
L’immigrazione
non è troppa se si guarda alla componente regolare (quella nettamente
prevalente) e alle necessità di crescita (non solo demografica) del
nostro Paese.
Anzi, è meno di quanto avremmo teoricamente bisogno per compensare gli squilibri autoprodotti dall’accentuata denatalità.
Possiamo
anche decidere che non vogliamo immigrati e loro discendenti sul nostro
territorio, ma è bene aver presente le implicazioni che ne derivano. Un
modo per acquisire consapevolezza è quello di vedere come sarebbe oggi
la nostra popolazione se non ci fossero stati flussi con l’estero. Per
costruire tale scenario ipotetico facciamo coincidere i nati 50 anni fa
con i cinquantenni di oggi, i nati 49 anni con i 49enni di oggi, e così
via. Nel secolo scorso le nascite straniere erano una quota molto esigua
sulle nascite totali, quindi i dati forniti da tale scenario —
limitandoci alla fascia 15-50 anni — restituiscono un ritratto
sostanzialmente fedele della popolazione italiana attuale se, appunto,
le frontiere fossero rimaste chiuse dalla seconda metà degli anni
Sessanta ad oggi. I valori ottenuti ci dicono che i 50enni sarebbero ora
quasi un milione, i 40enni meno di 800 mila, i 30enni poco più di 550
mila, e ferme attorno a tale livello anche le classi ancor più giovani.
Si tratta, di fatto, di un dimezzamento generazionale in 20 anni.
Qual
è stato l’impatto dell’immigrazione? Se prendiamo la popolazione
realmente residente oggi in Italia e la confrontiamo con lo scenario
teorico precedente vediamo che la popolazione dei 40enni si alza su
valori abbastanza vicini al dato dei 50enni. Il crollo, invece, delle
nascite nei decenni successivi, in particolare dalla seconda metà degli
anni Settanta, risulta molto maggiore rispetto all’azione di
compensazione fornita dall’immigrazione. Nello specifico, i 35enni,
circa 620 mila senza immigrazione, sono invece oggi 735 mila grazie ai
flussi di entrata dall’estero.
Quest’ultimo valore risulta, però,
non solo ben sotto agli attuali 40-50enni, ma anche inferiore rispetto
al dato dei 60enni. I 30enni salgono, con il contributo degli stranieri
residenti, attorno a 650 mila.
Nonostante ciò la perdita risulta
pari a uno su tre rispetto ai cinquantenni, e rimangono inoltre sotto
anche agli attuali 70enni. Ancor peggiore la situazione degli under 30.
Se
guardiamo alle dinamiche ancor più recenti, ovvero all’andamento della
natalità negli ultimi anni, si nota come i figli dei residenti stranieri
abbiano consentito di contenere la caduta delle nascite italiane ma è
altresì vero che il loro apporto risulta sempre più insufficiente.
Nonostante tale contributo il 2016 è stato, del resto, l’anno con il record negativo di nati in Italia dall’Unità ad oggi.
Questi
dati, nel complesso, mostrano come con frontiere chiuse gli squilibri
demografici risulterebbero oggi molto più accentuati, ma evidenziano
anche come l’immigrazione sia rimasta largamente al di sotto rispetto a
quanto teoricamente servirebbe per riequilibrare la composizione per età
della popolazione italiana.
Questo deficit demografico, prodotto
dalla denatalità e solo parzialmente compensato dai flussi migratori
netti, rischia di pesare negativamente sul nostro futuro più del debito
pubblico. Oggi non ne abbiamo chiara percezione, per l’effetto della
crisi economica che ha ridotto i posti di lavoro, ma ancor più perché
l’asse centrale del mondo produttivo è ancora composto dalle generazioni
quantitativamente molto consistenti dei 40-50enni. Nel corso dei
prossimi due decenni, però, i copiosi 50enni diverranno pensionati
70enni, mentre i demograficamente scarsi 30enni (e ancor meno 20enni)
andranno via via ad occupare le posizioni centrali del mercato del
lavoro. Chi vuole chiudere le frontiere deve dire come gestirà questo
tracollo della popolazione attiva e il consistente aumento di anziani
inattivi (che assorbiranno risorse per pensioni, assistenza privata e
sanità pubblica). Nel contempo bisognerà far tornare a crescere le
nascite e l’occupazione femminile, investendo ancor più di quanto fatto
sinora sugli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia. Ma gli
effetti del rialzo delle nascite sul rinforzo delle età lavorative li
vedremo tra vent’anni. Se non vogliamo scivolare in condizioni ancora
peggiori è fondamentale agire subito, ma nel frattempo serve anche
altro. Non si può prescindere dall’aumentare occupazione giovanile ed
età al pensionamento, ma il punto centrale sarà l’indebolimento
progressivo dell’asse portante della nostra economia, quello costituito
dalla popolazione tra i 35 e i 49 anni. Tale fascia è attualmente quella
con più alta occupazione e più alta produttività. Difficile pensare di
potenziarla senza attrarre nuova immigrazione. La demografia si ferma
qui.
“Quale” immigrazione e “come” includerla efficacemente nel
nostro modello sociale ed economico è questione che riguarda la
politica.