Repubblica 23.11.17
L’Italia dell’astensione
Il vestito buono della politica
Si
dice che il nostro tempo è quello del populismo ma i populismi sono i
regimi della mobilitazione di massa, mentre il non voto è smobilitazione
di Gustavo Zagrebelsky
Nei
primi anni della democrazia, le giornate elettorali erano giorni di
festa. Chi ha una certa età e un minimo di memoria, ricorda che ai seggi
c’era chi si recava con il “vestito buono” e non solo perché era
domenica. Si festeggiava la riconquistata libertà. Un’abissale distanza
dai rassegnati rituali dei giorni nostri, quando due elettori su tre
hanno disertato, non trovando valide ragioni nemmeno per quel piccolo
atto di impegno politico che è la scheda depositata nell’urna. Ora
finalmente, l’astensione di massa è entrata nella discussione politica.
Ma di che cosa si discute? Soprattutto di come attirare o recuperare
alla propria parte i voti perduti; di come pescare qualcosa in quel
grande bacino di astenentisi che è diventato il più grande partito
italiano, più grande di tutti gli altri messi insieme. Insomma, i
partiti pensano ai propri interessi facendo promesse sempre meno
credute, per sedurre gli elettori e intercettarne i voti. In prossimità
delle elezioni, cioè, fanno esattamente ciò che è la causa della
frustrazione della democrazia. In Italia c’è il suffragio universale:
vero e falso. Vero, perché il diritto di voto è riconosciuto a tutti;
falso, perché solo una minoranza lo esercita. È la differenza tra ciò
che è in potenza (il diritto) e ciò che è in atto (l’esercizio del
diritto). Il voto è diritto di tutti e molti non lo usano. Così la
democrazia, che dovrebbe essere il sistema politico della larga
partecipazione, diventa “olicrazia”, il regime in cui il governo è nelle
mani di minoranze. Senza che si cambino le leggi, cambia la forma di
governo.
C’è, innanzitutto, una questione quantitativa. Un tempo,
“l’astenuto” era l’eccezione. Nelle prime elezioni repubblicane, nel
1948, i cittadini che andarono al voto furono il 92,23 per cento: cioè,
tolti coloro che erano impediti dagli acciacchi, dalla malattia o
dall’assenza dall’Italia, tutti. A partire dagli anni ’80, si scese
sotto l’80 per cento e si incominciò a riflettere. Oggi possiamo dire
che non è l’astenuto l’eccezione, ma è il votante, soprattutto in certe
fasce d’età e in certe categorie sociali. Una volta ci si chiedeva quali
fossero le ragioni del non- voto; oggi, quali le ragioni del voto: un
vero e proprio ribaltamento. Il diritto c’è, ma la maggioranza non ne fa
uso. Se è vero che l’esercizio dei diritti è ciò che forma l’ossatura
morale d’una società (una volta si diceva che bisogna tenere sempre
strette le mani sui propri diritti), allora dobbiamo concludere che
siamo diventati un popolo straordinariamente malleabile, arrendevole. I
politologi si consolano troppo facilmente osservando che l’astensionismo
è diffuso dappertutto, talora in misura anche maggiore che in Italia.
Parlando solo dell’Europa, le statistiche provano che siamo comunque
nella media dei maggiori Paesi dei quali non si potrebbe contestare il
carattere democratico (Regno Unito, Francia, Germania, Svizzera, ecc.).
Si dice anzi che sarebbe il sintomo di “democrazie mature”, consolidate:
ci si fida a tal punto gli uni degli altri che non si considera
necessario agire in proprio. In un certo senso, gli astenuti si fanno
rappresentare dai votanti. Il sintomo, tuttavia, è ambiguo. Non
dappertutto e sempre esso significa la stessa cosa. Occorrerebbe andare a
fondo nelle motivazioni: molta fiducia e molta sfiducia possono
produrre lo stesso effetto. La fiducia è il pilastro della democrazia,
ma la sfiducia ne è il tarlo. Non c’è bisogno di sondaggi, statistiche,
analisi per capire che in Italia siamo di fronte al rinascente fenomeno
di massa del rifiuto della politica, e per sapere di quale mescolanza di
delusione, frustrazione, rassegnazione, rabbia e disprezzo esso si
alimenta. Basta un po’ di ordinarie, quotidiane frequentazioni e
conversazioni.
C’è, poi anche, una questione qualitativa. Si dice
che il nostro tempo è quello del populismo e dell’antipolitica, e il
dilagante astensionismo è spesso indicato come un effetto dell’uno e
dell’altra. Chissà perché? I populismi, comunque li si concepisca, sono
sempre regimi della mobilitazione di massa (mobilitazione, non
partecipazione), mentre l’astensione è una smobilitazione. L’anti-
politica, poi, è un sentimento attivo che si rivolge “ contro”: contro
le istituzioni, i politici, lo Stato, e può sfociare in ribellismo e in
anarchismo. L’astensionismo, forse, più precisamente potrebbe definirsi
non- politica, “ impolitica”: cioè l’atteggiamento rassegnato di chi
dice “ lasciatemi in pace” oppure, drammaticamente, “ ho perso ogni
speranza” perché non so chi votare, a chi votarmi. C’è poi, invece, il
popolo dei votanti, il popolo composto da coloro che sanno chi votare —
perché mantengono viva una fedeltà, una speranza e una fiducia — e da
coloro che sanno a chi votarsi — perché hanno ricevuto promesse di
favori o minacce di ritorsioni. Il voto dei primi è libero; quello dei
secondi, è forzato. Coloro che appartengono al mondo di chi sa a chi
votarsi di certo non si astengono. Così, tanto maggiore è il loro
numero, tanto maggiore è l’incidenza del voto corrotto su quello libero.
Se — supponiamo — votano in cento e i voti corrotti sono venti, i venti
rappresentano un quinto del totale; se votano in sessanta e i voti
corrotti sono sempre venti, i venti rappresentano un terzo del totale.
Ciò significa, in breve, che l’astensionismo attribuisce un plusvalore
al voto di scambio e, in genere, all’influenza delle varie forme di
criminalità organizzata che operano nel nostro Paese. La crescita
dell’astensione le favorisce. Si ha un bel dire che, astenendosi, i
cittadini reagiscono in quel modo al degrado della politica “lanciando
segnali”: nel frattempo, però, non fanno altro che dare maggiore potere a
coloro contro i quali vorrebbero dirigere la loro protesta.
C’è,
infine, la questione politica. Tra gli astenuti, moltissimi sono coloro
che dicono: voterei certamente, se solo sapessi per chi. E molti lo
dicono con amarezza, perché sanno quanto è costata in lacrime e sangue
la conquista del diritto di voto, per ogni spirito democratico il più
sacro di tutti. Ma, per non fare vuota retorica (“ occorre”, “ serve”, “
bisogna”), non basta ( più) invocare il “ dovere civico” di cui parla
la Costituzione. Deve riattivarsi il circuito della domanda (degli
elettori) e dell’offerta (di chi si candida a essere eletto). C’è stato
un tempo in cui si chiedeva: tu che ti astieni, che motivo hai per non
votare. Oggi, spesso, si vuole sapere da chi non si astiene che motivo
ha per votare. Qui c’è la questione politica. Il voto è un mercato. La
parola può sembrare odiosa e lo è se il “bene” offerto è il favoritismo,
il patronage d’interessi particolari a danno di quelli comuni, il
clientelismo, la promessa d’illegalità, la corruzione, la partecipazione
in opache strutture d’interessi. Non siamo (ancora) a questo punto ma,
se i “ giri del potere” si stringeranno ancora e l’astensione di coloro
che ne sono estranei crescerà, verrà il momento in cui l’elettore che fa
uso del diritto di voto sarà sospettato di collusione. La merce offerta
sul mercato elettorale può, tuttavia, essere altra: onestà, esperienza,
competenza, idee e ideali concreti di vita comune. Questa è la merce
che manca al popolo di chi si astiene. Se qualcuno volesse farsene
un’idea approfondita, potrebbe leggere il famoso saggio di Max Weber La
politica come professione. I partiti che si candidano alle elezioni,
così come sono, sono all’altezza del bisogno? Oppure il tempo per
correre ai ripari è passato irrimediabilmente? È difficile
l’innamoramento di ritorno, ma è ancor più difficile il ritorno alla
politica di chi ne è stato prima illuso e poi disgustato.
Di
fronte a questo compito, tanto vasto e urgente quanto essenziale per la
democrazia, gli slogan, le promesse, le alchimie, le furbizie
elettorali, le incoerenze, le menzogne e le recriminazioni reciproche
sono contorcimenti nel vuoto che, se possibile, danno ragioni crescenti
al popolo degli astenuti che osserva. C’è nell’aria un desiderio di
ricominciamento; c’è un sentimento ambiguo di “piazza pulita”. Può
essere il preludio a una catastrofe o a una rigenerazione. Se sarà la
prima, gli storici daranno tutta la colpa alle inadeguatezze dei partiti
e dei loro dirigenti, all’arroccamento nei posti e sulle posizioni
acquisite e all’incapacità di cogliere il momento, comprendendo quando i
vecchi tempi sono al tramonto e occorre promuoverne di nuovi.