Repubblica 2.11.17
Da Edipo a Mosè quant’è difficile essere bambini
di Massimo Ammaniti
Le nuove ricerche sull’universo infantile al convegno mondiale che si terrà a Roma
Oggi la mortalità infantile si è enormemente ridotta, perlomeno nei paesi occidentali, anche se permangono grandi differenze fra le varie classi sociali. Ma nonostante il miglioramento delle condizioni infantili sono ancora presenti molte insidie che spesso non vengono neppure alla luce, come ha recentemente denunciato l’associazione Terre des Hommes. Sono più di cinquemila i bambini e i ragazzi, soprattutto bambine, riconosciuti vittime di abusi fisici e sessuali in Italia nel 2016, anche se la maggior parte dei casi non vengono neppure denunciati, coperti dall’omertà familiare. Un’altra piaga è quella dei bambini migranti, su cui ha puntato l’indice papa Francesco, che giungono in Italia senza genitori, costretti a subire ogni forma di violenza che lascerà segni indelebili. Saranno questi alcuni temi che verranno affrontati nel Congresso che si terrà a Roma nel maggio 2018 organizzato dalla World Association for Infant Mental Health (Associazione Mondiale per la Salute Mentale Infantile).
Fin dall’alba dei tempi la nascita e la crescita dei bambini sono state raccontate da miti delle origini e da testi sacri, nei quali bambini predestinati, i messia, venivano al mondo per far trionfare la giustizia e sconfiggere i nemici, come è stato profetizzato dalle religioni cristiana, ebraica e islamica. Ma se i bambini rappresentavano una speranza e un’opportunità di rinnovamento per la comunità sociale, oltre che per la famiglia, costituivano anche un pericolo perché venivano a turbare l’ordine costituito, che per mantenere il potere ricorreva anche alla violenza e all’infanticidio.
È il dramma di Edipo che Sigmund Freud racconta ne L’interpretazione dei sogni, riprendendo l’antica versione di Sofocle: Edipo al momento della nascita fu abbandonato sul Monte Citerone dai genitori Laio e Giocasta che regnavano a Tebe, perché gli oracoli avevano predetto che, una volta divenuto adulto, avrebbe provocato la rovina della famiglia. Questo dramma si sarebbe profondamente sedimentato nella psiche umana, soprattutto a livello inconscio, anche se Freud ha messo in luce maggiormente il conflitto intrapsichico che contrappone Edipo ai suoi genitori, sottacendo invece il crimine dei genitori che abbandonano il figlio condannandolo a morire. Ma questa è una storia che si ripete nei secoli, lo stesso Mosè che poi divenne la guida illuminata del popolo ebraico fu lasciato durante l’infanzia dalla madre in una giuncaia del Nilo per sottrarlo alla persecuzione degli ebrei da parte del faraone. Anche Romolo e Remo ebbero lo stesso destino, furono abbandonati in una cesta nel fiume per ordine dello zio Amulio per cancellare la stirpe materna. Forse per questo motivo la psicoanalista Melanie Klein ipotizzò che ogni neonato possa vivere delle angosce persecutorie, che fanno parte della storia della specie umana.
Indubbiamente la nascita rappresenta il grande evento in cui la vita umana si schiude al mondo, ma già durante la gravidanza inizia a costruirsi la relazionalità umana, come le ricerche degli ultimi anni, che sicuramente verranno presentate al congresso che si terrà a Roma, hanno messo in luce. Una recente ricerca italiana ha studiato con l’ecografia i comportamenti dei feti gemelli in gravidanza, scoprendo che manifestano differenti programmi motori a seconda che tocchino se stessi, la parete uterina o il gemello. La cinematica motoria cambia, quando viene toccato il gemello il movimento diventa più lento e più orientato. Molte altre evidenze fanno pensare a una cognizione motoria già in gravidanza, come prima forma di azione sociale legata al corpo con cui si entra in rapporto con gli altri, come viene ulteriormente confermato dal comportamento del neonato, subito dopo la nascita, che è in grado di imitare le espressioni dell’adulto che interagisce con lui. Naturalmente questo non avviene solo durante l’infanzia, l’intercorporeità — come è stata definita dal neurobiologo Vittorio Gallese — rappresenta un modo fondamentale di interagire e comprendere gli altri, anche quando si diventa adulti.
Ma per tornare alla nascita della relazionalità umana questa non solo si sviluppa al momento della nascita ma già nella vita fetale, e quest’ultima aveva suscitato fin da allora l’interesse di Leonardo da Vinci, che nelle sue famose tavole anatomiche aveva studiato la posizione del feto nell’utero materno, convinto come era che nel bambino fosse già presente l’uomo, “in puero homo”.
IL MAESTRO Sigmund Freud (1856- 1939)
il manifesto 2.11.17
Gentiloni tace sulla strage nello Yemen
di Tommaso Di Francesco
Mentre il presidente del consiglio Paolo Gentiloni lasciava Riyadh e il petromonarca Salman per raggiungere Emirati arabi e Qatar, ieri un raid aereo della coalizione a guida saudita centrava un mercato a Saa’da, nel nord Yemen, uccidendo 29 persone tra cui molti bambini.
L’occasione per una presa di distanza dell’Italia dalla guerra che lì si consuma nell’indifferenza generale e che alimenta il conflitto tra sunniti e sciiti, e invece temiamo un fragoroso silenzio. E stavolta non è una speculazione.
Giacché, pochi giorni fa, prima della partenza di Gentiloni, Amnesty International Italia, nelle vesti del direttore generale Gianni Rufini, ha scritto al presidente del consiglio un dettagliata lettera-dossier perché cogliesse l’occasione del viaggio in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar «per sollevare il tema delle violazioni dei diritti umani nei tre paesi del Golfo e, più in generale, di promuovere il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali nel contesto delle relazioni diplomatiche bilaterali tra l’Italia e i tre paesi». R
icordando come le autorità dell’Arabia Saudita continuino a limitare duramente i diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione, «arrestando e incarcerando, sulla base di accuse dalla formulazione vaga, difensori dei diritti umani, persone che esprimono opinioni critiche e attivisti per i diritti delle minoranze».
Fra questi, Raif Badawi, condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate – 50 delle quali già ricevute in pubblico – per aver dato vita a un forum online di dibattito su temi politici e religiosi». Sottolineando come la tortura resti «prassi comune, soprattutto durante gli interrogatori», perché i tribunali continuano ad accettare “confessioni” ottenute tramite tortura per condannare gli imputati in procedimenti giudiziari iniqui, con il ricorso alla pena di morte anche per reati non violenti e nei confronti di minorenni.
L’Arabia Saudita è tra i primi cinque paesi al mondo per numero di esecuzioni.
Dall’inizio del 2017 sono state eseguite 100 condanne a morte. E non dimenticando come le forze della coalizione a guida saudita intervenute nello Yemen nel marzo 2015 hanno commesso gravi violazioni del diritto internazionale, compresi crimini di guerra. E denunciando – ecco il punto – che, nonostante questo, l’Italia abbia scelto di continuare a fornire alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita sistemi militari e munizionamento che alimentano il conflitto nonostante diversi rapporti attendibili dimostrino le gravi e reiterate violazioni delle convenzioni internazionali su diritti umani e diritto umanitario.
Negli Emirati Arabi Uniti le autorità continuano a imporre arbitrariamente restrizioni al diritto alla libertà d’espressione e d’associazione, detenendo e perseguendo ai sensi di leggi penali sulla diffamazione e antiterrorismo persone critiche verso il governo, oppositori e cittadini stranieri. Sparizioni forzate, processi iniqui e tortura e altri maltrattamenti di detenuti sono prassi comune. Decine di persone condannate in seguito a processi iniqui negli anni precedenti sono rinchiuse in carcere, tra queste ci sono molti prigionieri di coscienza.
Tra questi Ahmed Mansoor, difensore dei diritti umani e noto blogger, già più volte intimidito, vessato e incarcerato per mano delle autorità, è attualmente in condizione di sparizione forzata dal 20 marzo 2017, a rischio di tortura e altri maltrattamenti. E che in Qatar continuano ad essere imposte indebite limitazioni alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica, non è ammessa l’esistenza di partiti politici indipendenti, e soltanto i cittadini del Qatar hanno il permesso di organizzarsi in associazioni di lavoratori, a patto che queste soddisfino rigidi criteri stabiliti dalle autorità. Non sono ammessi e vengono sistematicamente dispersi i raduni pubblici non autorizzati e sono in vigore leggi che criminalizzano espressioni ritenute offensive verso l’emiro. Inoltre, ribadisce Amnesty «la discriminazione contro le donne è radicata nella legge e nella prassi. I lavoratori migranti subiscono gravi forme di sfruttamento e abusi.
Pensate voi che Gentiloni, accompagnato da Alessandro Profumo a.d. di Leonardo, Claudio De Scalzi dell’Eni e Giuseppe Bono di Finmeccanica, abbia sentito il dovere di rispondere ad Amnesty? No, non l’ha fatto.
In realtà la “risposta” l’ha data in modo ufficiale e diplomatico dopo il vertice con le petro-autorità saudite: «I rapporti con l’Arabia saudita sono importanti per i nostri interessi nazionali e per la stabilità del Mediterraneo e della Libia, ho apprezzato – ha dichiarato Gentiloni – la moderazione che ha avuto sulla vicenda libica. Guardiamo con interesse all’incontro organizzato tra le opposizioni siriane per un contesto nuovo e ci auguriamo che i tentativi in corso dall’amministrazione Usa e dal Kuwait per evitare tensioni nel Golfo funzionino».
In questo viaggio d’affari non poteva mancare anche qui il segno di una evidente subalternità, con un occhio alla Libia dove la monarchia di Riyadh appoggia il generale Haftar contro il “nostro” Serraj; alla cosiddetta stabilizzazione della Siria dove l’Arabia saudita, dopo aver contribuito a ridurre il Paese in macerie, ha appena smesso di sostenere il jihadismo dell’Isis e ora corre per accaparrarsi una ricca fetta della ricostruzione; e ringraziando i “tentativi” di Trump che in realtà ha portato in dono ai Saud ben 110 miliardi di dollari in armi.
Per un presidenziale viaggio d’affari, con l’occhio alla inevitabile “crescita” del made in Italy, questo pesante teatro di silenzi e finzioni può bastare.
il manifesto 2.11.17
Strage saudita in Yemen. Gentiloni: «Riyadh stabilizza»
Medio Oriente. Bilancio di 29 morti, colpiti un mercato e un hotel poco ore dopo l'incontro con la delegazione italiana. Il primo ministro in visita: «Aumentare gli scambi con i Saud»
di Chiara Cruciati
Il bilancio dell’ennesima strage saudita in Yemen è al momento di 29 morti: un raid nella provincia settentrionale di Saada ha centrato un mercato e un hotel. Come il 23 agosto, quando le bombe di Riyadh fecero collassare un albergo nella capitale Sana’a, uccidendo 60 persone.
Saada è territorio dei ribelli Houthi, a poca distanza dal confine nord con l’Arabia saudita, ripetutamente colpito e di nuovo ieri teatro di massacro.
Chi era presente racconta la devastazione: non c’è più nulla, solo macerie, pezzi di metallo mescolati a brandelli di corpi, cadaveri sfigurati e impossibili da riconoscere. Le stesse parole usate per ogni strage delle decine, centinaia che hanno costellato gli ultimi due anni e mezzo di guerra in Yemen.
A capo della coalizione sunnita anti-Houthi c’è proprio Riyadh: poche ore prima del raid, l’ambasciatore saudita in Yemen, Al Jaber, diceva all’inviato delle Nazioni Unite, Ismail Ould Cheikh Ahmed, che la petromonarchia è impegnata nella ricerca di una soluzione politica alla «crisi».
L’unica vera soluzione è interrompere il flusso di armi che dall’Europa e gli Stati uniti piovono su Riyadh. Eppure l’Occidente continua a fare la fila fuori dalle porte del regno.
In questi giorni è toccato all’Italia: nel suo tour asiatico e mediorientale il primo ministro Gentiloni è passato martedì per Riyadh per raggiungere ieri Emirati arabi e Qatar.
Dalla corte di re Salman Gentiloni ha espresso l’enorme interesse italiano a sviluppare maggiori rapporti commerciali, soprattutto in vista del piano di riforme Vision 2030, fortemente voluto dal nipote di re Salman, Mohammed. È lui che Gentiloni ha incontrato insieme all’ad di Leonardo Profumo, quello di Eni De Scalzi e di quello di Finmeccanica Bono.
«Un progetto di questa ambizione non può che interessare l’Italia», ha detto il primo ministro che ha poi citato il piano di costruzione di una nuova città, Neom, a cui sono interessate (onda lunga della normalizzazione occulta) anche aziende israeliane: «Un luogo di concentrazione per la robotica, la logistica e il trasporto compatibile sul piano ambientale. Qualcosa che l’Italia non può ignorare».
Ma gli elogi sono andati davvero oltre: Riyadh ha un ruolo di primo piano nella stabilizzazione politica del Mediterraneo, ha detto Gentiloni. Poche ore dopo, un hotel e un mercato sparivano sotto le bombe saudite.
Corriere 2.11.17
Lo scenario simbolico di un terrorismo che respinge la sconfitta
di Donatella Di Cesare
Il terrore planetario colpisce ancora; ma questa volta lo scenario ha un alto valore simbolico. Le vittime innocenti sono cadute sul selciato di una pista ciclabile a soli tre blocchi da Ground Zero. Di nuovo Manhattan, dunque, e tutto ciò che rievoca: l’11 settembre, l’esordio del terrorismo mediatico, l’inizio di una convulsa era di distruzione.
Non è possibile dire fino a che punto Sayfullo Saipov, il terrorista uzbeco, abbia scelto intenzionalmente il luogo. Certo è che in questo attacco la citazione storica assume un significato inquietante. Perché dopo la sconfitta territoriale dell’Isis è un richiamo esplicito al crollo altrettanto simbolico delle Twin Towers, quando il terrore, sfidando l’America, mostrò di poter tenere in ostaggio il mondo intero. Quando ancora le macerie bruciavano insieme ai resti di 2749 esseri umani, polverizzati nelle torri, Bin Laden esultò e lanciò il suo appello al jihad. Ma Al-Qaida sembrò presto sconfitta. Lo sceicco del terrore fu ucciso il 2 maggio 2011. Eppure il suo fantasma, che dietro le quinte non ha mai smesso di turbare l’Occidente, rispunta oggi prepotentemente.
Debellata la rete di Al-Qaida, il terrorismo si è diffuso con nomi nuovi e in forme persino più virulente — fino all’Isis. È noto che, proclamando lo «Stato Islamico» il jihadismo ha tentato, almeno in parte, di territorializzarsi. Bin Laden aveva invece un’altra strategia: scatenare un terrore seminomade sulla superficie del pianeta.
L’attentato di Manhattan, oltre al rinvio emblematico, contiene una minaccia: «riprendiamo dall’inizio e con la strategia qaidista», prescindendo da un ancoraggio statuale e territoriale. Il messaggio lasciato da Saipov è infatti: «l’Isis durerà per sempre» ». Così questi luogotenenti dell’apocalisse promettono di moltiplicarsi con un rudimentale arruolamento, seguendo il modello escogitato da Bin Laden e adesso potenziato dalla jihadosfera virtuale.
Repubblica 2.11.17
La legge salva abusi, l’ultima follia della Sicilia
Il salvacondotto per i burocrati e la distrazione del governo
di Sergio Rizzo
IL MESSAGGIO in codice è nella data stessa, l’11 agosto 2017. Perché quello è il giorno successivo alle dimissioni del sindaco di Licata Angelo Cambiano, sfiduciato dalla sua stessa maggioranza perché voleva abbattere le costruzioni illegali.
Ma è anche, ironia della sorte, il giorno in cui il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio annuncia a Repubblica, che sta conducendo un’inchiesta a tappeto sull’abusivismo e i condoni mascherati delle Regioni, l’intenzione del governo di impugnare tutte le leggine regionali maleodoranti.
Il messaggio è semplice: in Sicilia il partito degli abusivi non si arrende. Non si arrende ai sindaci coraggiosi, né alle proteste dell’opinione pubblica, ma nemmeno al governo.
E si permette di dirlo, chiaro e tondo, proprio l’11 agosto.
Parla infatti chiaro, la norma approvata quel giorno dalla Regione siciliana e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 25 seguente, quando per giunta l’Italia ancora piangeva i morti del crollo di una palazzina abusiva a Ischia in seguito a una scossa di terremoto.
Il piccolo comma spuntato nello stralcio della legge di stabilità regionale, in un dedalo di rimandi a precedenti leggi e decreti, dice che i poteri sostitutivi esercitabili dalla Regione in caso di inerzia degli enti locali negli abbattimenti di immobili abusivi si applicheranno d’ora in poi solo nei confronti di “sindaco, giunta e consiglio comunale”.
Traduzione? La burocrazia è salva, sollevata da ogni responsabilità. Gli uffici tecnici comunali, cui spetta il compito di istruire le pratiche delle demolizioni, possono restare tranquillamente inerti, perché i poteri sostitutivi riguardano solo l’inerzia dei politici e nei loro confronti non si applicheranno mai.
È una specie di salvacondotto per i burocrati che non hanno voglia di mettersi nei guai, ma soprattutto un segnale indiretto a qualche funzionario ligio e rompiscatole (tipo Vincenzo Ortega) che ancora si ostina a far rispettare le regole: se ne stia tranquillo, che non rischia niente. Vergognoso.
Delrio ha onorato il suo proposito impugnando alcune leggi regionali che ammiccavano in vari modi agli abusivi. Tranne però questa, che nel contesto territoriale al quale si riferisce rischia di avere conseguenze devastanti.
C’è ora da domandare al governo che cosa aspetti a farlo: forse che sia passata la buriana delle elezioni di domenica prossima, in Sicilia?
Il Sole 2.11.17
Sicilia, il match tra l’antigiustizialismo del Cavaliere e lo slogan onestà di Grillo
di Lina Palmerini
Dei tanti aspetti che le elezioni siciliane mettono sul tavolo, uno è diventato più attuale anche per le ultime notizie di cronaca giudiziaria e riguarda lo scontro frontale tra Berlusconi e Grillo fatto sui temi della giustizia e del giustizialismo. Ieri il Cavaliere, dal teatro Politeama di Palermo, ha trovato il suo bersaglio polemico preferito proprio nei 5 Stelle accusandoli, appunto, di volere una giustizia sommaria e strapazzando il loro elettorato che in genere gli altri partiti cercano di conquistarsi. «Chi vota il M5S è una persona che non ragiona, che non ha testa. I 5 Stelle sono pauperisti e giustizialisti, odiano gli imprenditori, i risparmiatori, il ceto medio». Questa volta non ha detto che Piercamillo Davigo è il loro candidato premier ma il tono era quello di mettere di nuovo all’indice quella priorità grillina che si riassume nello slogan onestà.
Se lo scontro elettorale su questi temi si infuoca dipende anche dal fatto che, come si diceva, gli ultimi giorni hanno portato un po’ di novità proprio a ridosso della vigilia del voto siciliano: quella sul boss Graviano che accuserebbe Berlusconi di collegamenti con la mafia nelle stragi del ’92 e ’93 mentre proprio ieri sono uscite (dopo la prescrizione) le motivazioni della sentenza su un’altra inchiesta, quella sulla compravendita dei senatori all’epoca del Governo Prodi in cui i giudici scrivono di un Cavaliere «privato corruttore». Insomma, torna il Berlusconi di un tempo e la Sicilia diventa il teatro di una sfida che ha anche la legalità come portata principale: il cavaliere che attacca Grillo sul giustizialismo e lui che sventola la bandiera dell’onestà. In ballo non ci sono solo le vicende giudiziarie dell’ex premier ma soprattutto le cosiddette liste di impresentabili su cui punta l’indice il Movimento e che Berlusconi, ieri, ha liquidato con semplicità: «Agli elettori dico: se pensate che lo sono, non votateli».
Il punto è che finora il tallone d’Achille del Cavaliere, anche a ridosso del voto, si è trasformato nel suo punto di forza ma la novità di domenica è proprio la sfida con i 5 Stelle. Ossia se davvero l’ingresso sulla scena politica dei grillini possa dare un’influenza e un peso diverso che nel passato alla questione-giustizia. Anche in Sicilia. A questo argomento, Berlusconi oppone quello della capacità di governo, dell’esperienza contro la spinta legalitaria o “giustizialista”, come la chiama lui. Ed è proprio il “fianco” su cui Di Maio e i suoi sono più esposti perché arrivano al voto siciliano dopo un anno dalla conquista di Roma e con un primo bilancio molto deludente.
Ecco quindi che le urne di domenica potrebbero distribuire i primi pesi: conterà più l’argomento dell’uno o dell’altro? Anche sotto questa luce si potrebbe leggere l’esito siciliano. Una vittoria del Movimento vorrebbe dire che la credibilità non è stata scalfita nonostante i risultati nell’amministrazione delle città, Capitale in testa. Quella del centro-destra, e di Forza Italia innanzitutto, che l’impatto giudiziario nel caso di Berlusconi continua a contare molto poco nonostante la nuova spinta grillina.
Repubblica 2.11.17
Così il risultato del voto sull’isola può riaprire la grande partita tra i dem
di Stefano Folli
QUAL è la soglia sotto la quale il risultato della Sicilia può aprire una crisi grave nel Pd? Gli ottimisti, vicini al segretario Renzi, negano di fatto che questa soglia esista. Negano quindi che lunedì mattina i dati di siciliani siano tali da produrre contraccolpi a Roma. In fondo, ecco il loro argomento, la percentuale del Pd anche nell’Assemblea appena sciolta era modesta e inoltre la campagna in corso risente di circostanze particolarmente sfavorevoli a causa del bilancio negativo della giunta Crocetta.
C’è del vero. Il Pd raccolse nel 2012 il 13,4 per cento, a cui si aggiunse il 6,2 circa della lista personale del candidato presidente. Una spinta significativa venne dai centristi dell’Udc che ottennero quasi l’11 per cento. In totale il centrosinistra andò al governo della regione con il 30,5. Di cui poco meno del 20 era da attribuire al Pd più la lista Crocetta. Questo sembra il dato da tener presente lunedì, quando si valuteranno i risultati. Micari, il candidato del centrosinistra è sostenuto, oltre che dal Pd, dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Inoltre lo appoggiano i centristi di Alfano che però appaiono assai più deboli di quanto fosse l’Udc di cinque anni fa. Se la somma delle varie sigle fosse inferiore al 20 per cento, rispetto al 30,5 del 2012, s’imporrebbe una riflessione. Vorrebbe dire che la discesa del Pd unita all’insuccesso centrista si è risolta in un collasso. Dentro tale cornice andrà analizzato anche il risultato del Pd, in apparenza irrobustito dal sostegno di Orlando. Al di sotto del 10-11 per cento il segnale d’allarme suonerebbe non solo a Palermo, ma al di là dello Stretto. Per la semplice ragione che cinque anni fa alla percentuale del Pd (13,4 come detto) andava aggiunto il 6 per cento di Crocetta. E inoltre Micari è stato, sì, proposto dal sindaco di Palermo, ma rappresenta un ponte verso il “renzismo”. In altri termini, l’onda siciliana rischia di travolgere i vecchi equilibri ben oltre le attese. Il ritorno del centrodestra nella versione bicefala Berlusconi- Salvini; il fatto che il candidato presidente sia lo stesso Musumeci del 2012, ma stavolta con prospettive di vittoria, segno che lo spostamento a destra è servito; l’irrompere dei Cinque Stelle con tutte le loro contraddizioni: ce n’è abbastanza per capire che le elezioni in Sicilia non sono un evento circoscritto e in qualche modo confinato alla dimensione insulare. Tanto più che bisogna considerare anche la lista di Claudio Fava, sinistra radicale: la sua percentuale sarà un altro termometro utile a misurare lo stato di salute del Pd.
GLI ottimisti insomma camminano sul filo del rasoio. Lunedì prossimo è necessario che i dati da Palermo non siano esplosivi, se si vuole ottenere che a Roma, in via del Nazareno, nulla cambi. Altrimenti potrebbero crearsi le condizioni di un certo smottamento negli assetti di potere. Si capisce perché. Il disegno di Renzi è intuibile: non vuole grane interne e sopratutto non desidera che qualcuno gli metta i bastoni fra le ruote quando - fra breve si decideranno le candidature nazionali. È plausibile che egli voglia tenere per sé una larga maggioranza dei gruppi parlamentari, eleggendo persone a lui fedeli e concedendo il giusto, ma senza punte di generosità, ai notabili, da Franceschini a Orlando.
Sulla carta questo percorso non dovrebbe essere interrotto dalla delusione siciliana, peraltro attesa. Ma è appunto una questione da verificare nel concreto a partire da lunedì. Una disfatta oltre misura potrebbe creare il panico sul piano nazionale fra i quadri e i militanti. In fondo Renzi conosce solo la marcia avanti, puntando su se stesso in ogni circostanza. E tale caratteristica, accettata finché i vantaggi superano gli svantaggi, potrebbe all’improvviso apparire autolesionista. Finora i nomi storici del Pd, a cominciare da Veltroni, hanno criticato il segretario ma lo hanno lasciato fare. Dopo la Sicilia potrebbero decidere che è giunto il momento di cambiare tattica e di chiedere al leader il fatidico passo indietro. Il senatore Mucchetti, un indipendente certo non amico di Renzi ma libero da vincoli correntizi, ha già buttato il sasso nello stagno. Non c’è che attendere. Tutto dipende dal voto in Sicilia.
Repubblica 2.11.17
Renzi vola in Usa e Micari resta solo Veleni nel Pd: “Non era mai successo”
Il rettore minimizza: non è tempo di vicerè. Anche Alfano dà forfait. Orlando contro i dem
di Emanuele Lauria
PALERMO. Il rettore che si è definito una matricola concluderà il suo viaggio elettorale senza i principali sponsor d’agosto: Matteo Renzi e Angelino Alfano, salvo sorprese dell’ultima ora, non ci saranno negli ultimi giorni di campagna. Fabrizio Micari, il candidato del centrosinistra per la Regione siciliana, ufficialmente non ne fa un dramma: «È finito il tempo in cui questa terra aveva bisogno di viceré che venivano a tranquillizzare il popolo ». Parole in linea con il profilo “gentile” (da slogan) con cui Micari si è proposto nella sua sfida impossibile, dopo l’infelice esperienza amministrativa di Crocetta e la rottura con Bersani e D’Alema.
Ma sono parole che coprono elegantemente la condizione di solitudine nella quale affronta le fatiche finali: il segretario del Pd è sbarcato in Sicilia solo per un blitz (un’ora in tutto) in una saletta di un albergo catanese frettolosamente riempita di candidati e amministratori dem. È accaduto venerdì scorso: «Non so se tornerò, devo andare da Obama», ha detto l’ex premier commiatandosi. E Alfano? L’ultima volta che si è fatto vedere accanto a Micari è stata il 14 ottobre, venti giorni fa.
Impietoso il confronto con le trasferte-fiume dei leader delle altre forze politiche: Beppe Grillo è arrivato a Catania nel week-end, ha fatto il pienone a Catania e domani farà di nuovo capolino a Palermo per mettere il sigillo sull’avventura elettorale di Giancarlo Cancelleri. Silvio Berlusconi ha raddoppiato gli sforzi previsti inizialmente e alla tappa palermitana ha aggiunto quella etnea. Matteo Salvini si è prodotto in un tour lungo cinque giorni che si concluderà domani mattina, attraversando in treno mezza Sicilia. E le sue performance isolane, Salvini, le ha accompagnate proprio con una stilettata a Renzi: «Ma dov’è? Dobbiamo chiamare “Chi l’ha visto?”? Dice che ama la Sicilia ma pare sia negli Usa...».
È stato almeno sfortunato, Micari. Che martedì ha visto pure due ministri renziani in partenza per la Sicilia dare forfait all’ultimo momento: Luca Lotti per un improvviso virus intestinale, Graziano Delrio per una fastidiosa ernia. Sono rimasti lontani dal rush elettorale, insomma, due “fedelissimi” dell’ex presidente del consiglio che peraltro avevano disertato anche il cdm di venerdì scorso sul caso Bankitalia. Ma tant’è. Non sono mancate, in precedenza, le visite degli esponenti del governo Gentiloni. E ieri anche il capogruppo del Pd Ettore Rosato ha fatto una conferenza stampa con Micari.
Ma è l’assenza del leader a fare la differenza. E a suscitare malumori e borbottii, nelle stanze del Pd siciliano: «Non sono i ministri a portarti consenso - dice un alto dirigente del partito a Palermo - La vera anomalia è costituita dal fatto che non ci sia il segretario nell’ultimo giorno di una campagna elettorale importante come quella siciliana: non è capitato quasi mai in passato». Troppo facile, per alleati e avversari, abbinare la distanza di Renzi al suo tentativo di sminare la competizione isolana dicendo che è «un test locale». E concludere che l’ex rottamatore non vuole metterci la faccia. Troppo facile annotare come l’investimento più cospicuo lo stiano facendo i capi delle forze politiche maggiormente accreditate per la vittoria: centrodestra e M5S.
Micari sa che deve sopportare il peso di tensioni interne al Pd e al centrosinistra che probabilmente esploderanno dopo il voto: «È come il referendum, pago l’ostilità degli anti-renziani». E prosegue il suo viaggio senza sussulti verso un terzo posto probabile. Al suo fianco è rimasto qualche amico di sempre: il sottosegretario Davide Faraone e Leoluca Orlando, che ieri ha portato il rettore in giro fra i mercati di Palermo. «Il disimpegno? Forse del Pd siciliano ma non di Renzi: lui ha sostenuto Micari anche a distanza e l’ha voluto più degli altri», dice il sindaco. Con una affermazione che sembra già una chiamata di correo.
Il Fatto 2.11.17
I Radicali si mettono sul mercato: pronta l’alleanza con Renzi
I Radicali italiani chiudono il loro XVI congresso a Roma e si mettono sul mercato politico in vista delle imminenti elezioni. È passata la linea di Emma Bonino: l’ex ministra ha proposto una lista insieme al movimento di Benedetto Della Vedova “Forza Europa”. Potrebbe essere una delle “civette” legate al Pd di Renzi alle prossime urne, come previsto dalla nuova legge elettorale (oltre allo sbarramento al 3%, valgono per la coalizione i voti delle liste che prendono almeno l’1%). Bonino infatti vuole che la sua formazione sia aperta al confronto con gli altri partiti: oltre al Pd e alla formazione di Della Vedova, potrebbero essere interessati il Campo Progressista di Giuliano Pisapia (dopo la rottura con Bersani e Mdp), i Verdi di Angelo Bonelli e i Socialisti di Riccardo Nencini. La mozione con la proposta della Bonino è stata approvata da una larga maggioranza dei delegati.
Altrettanto larga quella che ha confermato Riccardo Magi alla guida dei Radicali italiani: resta segretario con una percentuale di voti vicina all’80%.
Corriere 2.11.17
Radicali italiani Sì alla lista che apre al centrosinistra
di Alessandro Trocino
Una lista costruita dai Radicali italiani con Forza Europa di Benedetto Della Vedova, con il focus sul federalismo europeo e aperta ad altre forze del centrosinistra. È il risultato del congresso di Radicali italiani, che si è chiuso con la riconferma alla segreteria di Riccardo Magi e di Antonella Soldo alla presidenza, mentre il nuovo tesoriere è la torinese Silvia Manzi. Decisivo, naturalmente, il placet di Emma Bonino. Che potrebbe essere la guest star, se non la candidata, di una lista autonoma europeista. L’altra ipotesi è coalizzarsi con i dem (ma conviene soprattutto al Pd). Marco Cappato ha rinunciato a candidarsi contro Magi, anche perché la mozione rispecchia la sua ambizione di una lista federalista. Il segretario non ha ottenuto il cambio dello statuto, nella parte in cui si consentiva ai Radicali di presentarsi alle elezioni con simbolo e nome, e nella parte in cui si eliminava «italiani». Nella mozione si chiede il congelamento della spesa pubblica, la riforma della Bossi-Fini e si ribadiscono le critiche a Minniti. Si vedrà se le personalità intervenute, da Giuliano Pisapia a Romano Prodi (in video) fino a Enrico Letta, appoggeranno il progetto. E si vedrà se la piattaforma economica, molto radicale e poco di sinistra, sarà digerita da Campo Progressista.
La Stampa 2.11.17
Pronta la lista Bonino-Pisapia
Alla kermesse anche Boldrini
di Fabio Martini
Per ora non si è mai schierata, continuerà a restare fuori dalla mischia sino all’inizio della campagna elettorale, ma la presidente della Camera Laura Boldrini, domenica 12 novembre, si siederà nelle poltrone di prima fila del teatro Golden di Roma in occasione della manifestazione che - dopo snervanti tentennamenti - segnerà il lancio elettorale di Giuliano Pisapia e del suo Campo progressista. Un romper gli indugi che si intreccia con un analogo tormentato giro di boa: quello impresso dai Radicali Italiani di Emma Bonino che, dopo ben quattro giorni di congresso, hanno deciso di partecipare alle prossime elezioni politiche, auspicando un’intesa, oltreché col Campo di Pisapia, anche con tutte quelle «forze politiche» impegnate sul fronte europeista.
Una doppia novità che era nell’aria e che preannuncia una svolta nell’offerta elettorale a sinistra: il varo entro Natale di una Lista progressista e federalista, un cartello Bonino-Pisapia nel quale potrebbero confluire sindaci, movimenti di base, i Verdi, il Psi, personaggi del mondo prodiano. Una Lista mossa dall’ambizione (per ora non dichiarata ma evidente) di drenare, nell’area di centrosinistra, l’opinione pubblica che non si identifica più nella leadership di Matteo Renzi e dunque «una lista che può diventare il concorrente più insidioso del Pd, proprio perché contiguo», chiosa Bruno Tabacci, del gruppo vicino a Pisapia.
Una mission, quella “anti-Pd”, raccontata dalle biografie dei promotori di una Lista che, sebbene debba ancora concretizzarsi, nelle ultime ore è uscita dal libro dei sogni. Soprattutto Emma Bonino. Con un carisma intatto negli anni e testimoniato da sondaggi che la collocano ancora sul “podio” delle classifiche della fiducia, Bonino resta diffidente verso il renzismo, più volte evocato ironicamente durante il congresso, come quando alludendo a Renzi, ha detto: «L’idea del Re Sole e le costellazioni, caro segretario Pd, non fa per noi».
Se non sorgeranno intoppi organizzativi sempre possibili, buona parte delle chances elettorali di questa nuova area sono affidate anche agli endorsement dei possibili “patron”. Durante il congresso radicale sono intervenuti alcuni di questi personaggi, certo non intenzionati a candidarsi, ma influenti su aree di opinione pubblica: Enrico Letta, Romano Prodi (in videomessaggio), Roberto Saviano in carne e ossa. E anche il ministro Carlo Calenda, che ha chiamato gli applausi dei quattrocento congressisti radicali con un intervento brillante e di sostanza, che ha dimostrato una vocazione politica, che lui stesso (in privato) nega di avere.
Il Sole 2.11.17
Radicali, al via Forza Europa Ma Bassolino lascia il Pd
Fatto il Rosatellum, che incentiva le alleanze tra forze politiche affini nei collegi uninominali, si apre ora il risiko del possibile nuovo centrosinistra attorno al Pd. Al congresso dei Radicali è infine passata la linea di Emma Bonino e Benedetto della Vedova: sì alla lista “Forza Europa” possibile alleata del Pd ma senza «svendersi». L’iniziativa guarda da un lato a Scelta civica, Verdi e Socialisti, dall’altro a Campo progressista di Giuliano Pisapia. Dal Pd guardano naturalmente con favore alla formazione di una o più liste con cui allearsi nei collegi. Ma non è ancora chiaro se alla fine Pisapia, che riunirà i suoi a Roma il 12 novembre prossimo, convergerà nella lista promossa dai radicali o tenterà la strada di una lista autonoma più connotata a sinistra. «Le elezioni siciliane ci daranno qualche dato sui cui riflettere», dice Bruno Tabacci, leader di Centro democratico e vicino all’ex sindaco di Milano. Che comunque ricorda come sia lui sia Pisapia erano presenti sabato scorso alla convention dei Radicali sul tema. Intanto il Pd subisce un altro strappo: quello di Antonio Bassolino, ex governatore della Campania e sindaco di Napoli, che abbandona il partito sulla scia di del presidente del Senato Pietro Grasso: le otto fiducie sulla legge elettorale e la mozione del Pd contro il governatore di Bankitalia sono state le gocce che hanno fatto traboccare il vaso. Ma già dalla scorsa estate Bassolino guarda con interesse a Mdp, la formazione dei bersaniani usciti dal Pd, così come al progetto di Pisapia. «Serve un nuovo centrosinistra», dice.
il manifesto 2.11.17
Falcone: «Per una nuova forza serve un leader di nuova generazione»
Liste&alleanze. L'avvocata dell'area civica del Brancaccio: Grasso stimabile ma il metodo no, prima scriviamo il programma e poi chi lo sa incarnare davvero. Bersani e D’Alema come capi no, serve più coraggio. Ma per le candidature anche Rifondazione ricordi che le assemblee saranno democratiche e sovrane
di Daniela Preziosi
Il 18 novembre terranno un’assemblea nazionale «di restituzione del programma, con tavoli tematici in cui confluiranno le proposte arrivate dai territori e sulla piattaforma online. Lavoro, diseguaglianza, economia, Europa» così la spiega Anna Falcone, avvocata e capofila dell’«alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza», a sinistra chiamata sbrigativamente ’quelli del Brancaccio’, dal teatro romano dove si sono autoconvocati lo scorso 18 giugno. Il numero degli iscritti al movimento ancora non c’è, spiega, «abbiamo attivato le adesioni online, per pronunciarsi sulle nostre proposte bisognerà fare un’iscrizione certificata. Ma ancora non abbiamo tirato le somme». Dopo l’assemblea quest’area confluirà – se ce ne sono le condizioni – con altre forze della sinistra in un’altra assemblea, a dicembre, per il varo di una lista unitaria. «Abbiamo chiesto che sia un’assemblea democratica, non solo confronto fra gruppi dirigenti. Bisogna dimostrare che cambiamo metodo, non solo proposta politica. Non dobbiamo rischiare di essere un’accozzaglia di sigle. Il nostro obiettivo è portare al voto almeno il 50 per cento degli elettori di sinistra che non vota più».
Avvocata, avete gelato gli entusiasmi dei vostri compagni di strada sul presidente Grasso. Non è ’il nostro programma vivente’ come lo definisce Nichi Vendola?
Ho la massima stima di Grasso, gli riconosco un’identità di sinistra che ha speso nella sua storia precedente da servitore dello stato. Ma dopo aver perso sei mesi dietro all’indicazione della leadership di Pisapia vorrei evitare di perdere altri mesi sull’indicazione di un altro leader, Grasso o no. Non sarà un leader più o meno carismatico a riportare al voto i delusi, ma riuscire a far capire che la nostra proposta può cambiare loro la vita. Anche in parte, sul lavoro, sulle diseguaglianze fra chi vive nelle periferie del paese o in quelle sociali.
Il problema è il metodo con cui scegliere un leader, o non volete un leader?
Intanto non vogliamo un leader indicato dai media, anche loro come la politica hanno un problema serio di scollamento dalla vita reale. Chiediamo di procedere per priorità: scriviamo un programma insieme, diamo risposte convincenti, e solo alla fine sceglieremo le migliori candidature e la migliore leadership che incarni quel programma. Invertire le priorità è segno di debolezza. Ed è debolezza cercarsi ogni volta un soggetto terzo, buono per la sua credibilità personale, a prescidere dal programma. C’è una nuova classe dirigente che emerge, una nuova generazione che dovrebbe prendersi la responsabilità di essere portavoce del progetto. Comunque a me piacerebbe una leadership diffusa.
Intanto di voi ’civici’ in prima fila siete sempre e solo in due, lei e il professore Montanari. Le vostra ’leadership diffusa’ quando arriverà?
Dopo l’assemblea del 18 novembre. Ma guardi che la stragrande maggioranza dei nostri incontri in giro per l’Italia si svolgono senza di noi.
Un leader della lista comunque dovrete sceglierlo. Il Rosatellum prevede che sia indicato il «capo della forza politica».
Chi incarna un programma dev’essere coerente con quello. Se scegliamo prima il leader svuotiamo di significato e di forza il programma. In una società quotata prima si sceglie la nuova mission e poi l’amministratore delegato giusto per la mission.
Ai tempi di Pisapia eravate contro un leader che aveva votato sì al referendum. Non va bene neanche chi è stato nel Pd?
Ci mancherebbe altro. Vogliamo costruire un campo largo e non facciamo liste di proscrizione. Se parla di Grasso, ripeto, è persona stimabilissima. Ma oltre al metodo c’è un problema di coraggio. Grasso è rassicurante perché ha servito lo stato. Ma gli italiani non ci chiedono di essere rassicurati, ci chiedono di essere coraggiosi. Se la leadership fosse nelle mani dei cittadini sono sicura che farebbero una scelta più coraggiosa.
Per Rifondazione, che partecipa alle vostre assemblee, ministri e esponenti dei governi del fu centrosinistra devono restare fuori dalle liste. Tradotto: no a Bersani, D’Alema. E altri. La pensa così anche lei?
Certo non possono essere leader. Ma per le candidature invito tutti, anche Rifondazione, a ricordare che le assemblee saranno democratiche e sovrane. Si converge su un programma, e tutto il resto arriverà in coerenza. Non credo che ci voterebbero se dicessimo: abbiamo un programma radicale, innovativo e coraggioso, alla Corbyn, alla Sanders, ma un leader della stagione dei governi precedenti. A Rifondazione ricordo anche di non iniziare dai veti che dividono. Abbiamo un obiettivo preciso: andare in parlamento per evitare che i suoi due terzi possano cambiare la Costituzione. Per questo dobbiamo far eleggere una seria rappresentanza di una nuova sinistra.
Davvero avete frenato la convergenza con Mdp per le offerte tattiche di dialogo di Speranza a Renzi?
C’è una parte di Mdp che continua a pensare in maniera ossessiva all’elettorato del Pd e fa passi comprensibili in quel mondo, volti a raccogliere l’elettorato in fuga dal Pd. Ma è una cosa incomprensibile all’esterno. L’elettorato in fuga dal Pd ci voterà non per i tatticismi e le stoccatine ma per un programma coraggioso, magari anche più di quello di Italia bene comune.
E ora con Mdp vi siete chiariti?
È un problema che deve chiarire Mdp al suo interno e con la sua base. Che viene alle nostre assemblee ed ha le idee chiare. Non capisco le timidezze dei dirigenti.
il manifesto 2.11.17
Bassolino lascia il Pd: «Serve una casa comune della sinistra»
di Adriana Pollice
Lo strappo, atteso almeno da un anno, alla fine è arrivato: Antonio Bassolino, ex sindaco di Napoli ed ex governatore campano, uno dei fondatori del Pd, ieri ha annunciato il suo addio ai dem: «Non ho rinnovato la tessera e dunque per la prima volta mi ritrovo senza un partito. Ma sono da sempre una persona di sinistra, spero che si possa costruire una casa comune della sinistra e un nuovo e largo centrosinistra».
Dal 2010, anno in cui ha lasciato la guida della regione, si era ritagliato uno spazio all’interno della Fondazione Sudd: nelle stanze di corso Umberto aveva ospitato alcuni dei suoi pupilli al tempo in cui era il padrone indiscusso del Pd in città, l’eurodeputato Andrea Cozzolino e la parlamentare Valeria Valente. Il ritorno sulla scena nel 2016, alle primarie per la scelta del candidato Pd a sindaco di Napoli: in quella tornata si è consumato lo scontro che ha portato all’addio. Contro di lui corsero Marco Sarracino e Valente. La scelta di quest’ultima di schierarsi contro il suo mentore, le immagini di Fanpage che mostravano i galoppini ai seggi distribuire euro per la «candidata femmina», fino alla decisone del partito di ratificare la vittoria di Valente contro Bassolino avevano aperto la crepa divenuta rottura definitiva.
Anche la freddezza del Nazareno ha provocato l’addio. Più volte Bassolino aveva ricordato a Renzi di averlo votato, per poi marcare la distanza dalle sue scelte una volta diventato premier: «Renzi non è più Renzi» era lo slogan più volte ripetuto. A settembre Bassolino è stato uno tra gli ospite più coccolati della Festa di Mdp a Napoli («Qui c’è il mio mondo, vi conosco uno ad uno») e da lì l’interlocuzione con i vertici di Articolo 1 è stata costante. Per Bassolino la mozione Pd su Bankitalia è stata «una pazzia politica» e il varo del Rosatellum con i voti di fiducia «un grave errore politico-istituzionale». Non è andato alla Conferenza programmatica del Pd a Pietrarsa ma aveva partecipato alla manifestazione di Pisapia a Roma. Alla festa di Mdp spiegò: «Voglio dare una mano a costruire un nuovo centrosinistra. Speranza e gli altri sono stati bravi a organizzare questa festa. Il Pd non fa nulla, loro stanno facendo politica».
L’approdo finale dell’ex governatore probabilmente verrà deciso dopo le elezioni siciliane, quando il quadro a sinistra sarà un po’ più chiaro. Intanto da Articolo 1 si fa sentire Arturo Scotto: «La sua scelta merita rispetto e affetto. Per Mdp Bassolino è un interlocutore fondamentale a Napoli come in Italia».
Corriere 2.11.17
L’intervista Antonio Bassolino
«Il Pd ormai fa scelte imbarazzanti. Bene Grasso, anch’io me ne vado»
di Marco Demarco
Antonio Bassolino lascia il Pd. La decisione è presa?
«Non ho rinnovato la tessera. Il mio è un addio. Doloroso, aggiungo».
Lascia per andare dove?
«La prospettiva resta quella a cui ho lavorato sin dagli anni Novanta, quando fui eletto sindaco di Napoli: la ricostruzione del centrosinistra».
Ma per ora nessuna nuova tessera in tasca. Come Pietro Grasso.
«Io però una tessera l’ho sempre avuta, da quando, nel 1962, mi iscrissi al Pci».
Perché esce dal partito che ha contribuito a fondare?
«Da tempo i rapporti politici interni erano critici. E anche quelli umani, per me molto importanti, facevano acqua da molte parti. A Napoli, in occasione delle primarie contestate, sono stato pugnalato alle spalle. Allora mi sono chiesto: ma che senso ha?».
Eppure, fino al referendum ha resistito schierandosi con Renzi.
«Anche dopo. Ho resistito fino al congresso che lo ha riconfermato. Però non ho votato».
Perché?
«È stato un congresso inutile, senza politica. Bisognava avviare una grande riflessione sull’Italia reale e sul rapporto tra Pd e Paese. Invece si è provveduto solo a ufficializzare la stagione della grande rimozione».
Vale a dire?
«La stagione del girare sempre pagina, del mai voltarsi indietro. Mai ammettere gli errori o correggerli. Una stagione che paradossalmente è iniziata con la vittoria alle Europee, dove importante è stato il contributo di Renzi. Si è pensato che quello fosse per il Pd un dato politico strutturale».
Un errore fatale?
«Certo. E dopo sono venuti due “cazzotti” micidiali: le comunali e il referendum. Renzi ha sovrapposto le due campagne elettorali. Le ha personalizzate e politicizzate, ottenendo l’effetto opposto a quello sperato. A Napoli sembrava essere lui l’avversario di de Magistris, e così non si è parlato dei problemi della città: delle buche stradali, dei trasporti. Il Pd ne è uscito umiliato. Fuori anche dal ballottaggio. Poi è stato un crescendo».
Fino alla legge elettorale e al caso Visco?
«Non solo. Imporre la fiducia sul Rosatellum è stato un errore, perché si è impedito di migliorare la legge e si è prodotto un danno alla democrazia, nel senso della decisione politica e della partecipazione. Si poteva introdurre il voto disgiunto o avere meno nominati. Invece ci sarà un ritorno a 25 anni fa, quando la sera del voto non sapevamo chi avrebbe governato. Questa legge rischia poi di alimentare il voto di protesta».
In direzione dei 5 Stelle?
«Anche. Vedremo in Sicilia. Ma penso soprattutto all’astensionismo. Un fenomeno di cui si parla poco, che tuttavia cresce al centro come in periferia. È vero o no che ormai ovunque si eleggono sindaci di minoranza?».
C’è chi legge il caso Visco come un tentativo pd di assorbire la protesta.
«Non metto in discussione la libertà di critica. Ma la mozione su Bankitalia è stata una rottura assoluta con il mondo da cui provengo, quello del rispetto istituzionale, dello stile nel porre questioni delicate. Il Pd è arrivato invece a creare problemi sia sul piano internazionale sia su quello interno, imbarazzando Palazzo Chigi e il Quirinale».
E l’altra questione che non perdona a Renzi?
«Il modo in cui sono stati ricordati i dieci anni del Pd. Giusta la celebrazione. Anche questa poteva e doveva essere una occasione per riflettere sullo stato del Paese. E giusto invitare Veltroni. Ma come è stato possibile escludere Prodi?».
Da dove ripartire, allora?
«Ho guardato con interesse a Pisapia. Sono stato in piazza Santi Apostoli sotto il balcone dell’Ulivo portando un ramoscello bene augurante regalatomi dal mio amico geografo Ugo Leone. Ho partecipato alla Festa nazionale di Mdp dicendo che lì c’era un pezzo del mio mondo. E penso che quella di Pietro Grasso sia stata una svolta significativa nel segno di una riaggregazione del centrosinistra».
E D’Alema?
«Ho avuto spesso idee diverse dalle sue, nel reciproco rispetto. E a chi si meraviglia di ritrovarlo su posizioni movimentiste, ricordo che Massimo è sempre stato al centro, e che se gli altri si spostano a destra, è inevitabile che si ritrovi a sinistra. In ogni caso ci sono molti senzatetto del centrosinistra, eccellenti e non, a cui prestare attenzione».
A proposito. Che effetto fa, a uno come lei, ritrovarsi senza un tetto politico dopo 55 anni?
«È una scelta impegnativa. Tanto che ieri sono andato a salutare i miei genitori al cimitero e mi sono sorpreso a confidarmi idealmente con loro. Specialmente con mio padre. Era un vecchio liberale, e quando era in vita con lui non ho mai parlato delle mie scelte politiche».
Repubblica 2.11.17
Bassolino lascia il Pd “Serve un nuovo centrosinistra”
NAPOLI. Lascia il Pd. Non certo la scena politica. Antonio Bassolino, già sindaco di Napoli, governatore e ministro, il leader che è stato tra i fondatori dei dem, consuma ieri formalmente la separazione in corso da tempo con il partito di Renzi. «Non ho rinnovato la tessera del Pd,per la prima volta sono senza un partito - scrive Bassolino su Fb - Ma resto una persona di sinistra, spero che si possa costruire un nuovo e largo centrosinistra». Un addio dopo 53 anni di militanza. Per lui sarebbe già pronto un posto in lista, alle politiche, tra Mdp o il movimento di Pisapia. E anche se l’addio è di queste ore, lo strappo risale al marzo 2016, data delle primarie dei veleni e dei brogli per la corsa a sindaco di Napoli. Che segnò, per lui, la sconfitta e lo scontro con alcuni dei suoi ex fedelissimi.
(co. sa.)
il manifesto 2.11.17
Chi può salvare l’Europa dall’ombra nera del passato che torna
Europa. Quelle strategie capaci di ribaltare la visione, arretrata e solo finanziaria, dell’attuale classe dirigente europea. Per gestire l’immigrazione come risorsa del futuro. Non più Stati e Regioni ma piccoli e grandi Comuni, uniche entità in cui la democrazia rappresentativa può essere affiancata da forme di partecipazione diretta
di Guido Viale
Assistiamo al progressivo svuotamento dell’Unione europea intesa come organismo politico di governo, sia di ciò che succede nei territori di sua competenza, sia dei rapporti con gli altri paesi con cui è in relazione. È la sua riduzione a pura entità contabile addetta a tradurre in prescrizioni le decisioni dell’alta finanza, senza alcuna capacità o volontà di condizionarne o prevenirne le scelte letali.
A VIGILARE SULLA obbedienza dell’Unione e degli Stati membri c’è la Bce che controlla la borsa: non il denaro che la grande finanza mette in circolazione e poi usa secondo convenienze alle quali anche la Bce si deve adeguare, come mostra il rimpolpamento delle casse delle banche svuotate dai loro amministratori; bensì il denaro che circola tra i cittadini e tra le imprese per mandare avanti le proprie attività, e che senza denaro vengono meno; ma che ormai sopravvivono sotto la minaccia di venir paralizzate, come in Grecia due anni fa.
L’UE, GLI UOMINI e le donne che ne occupano le istituzioni, non hanno idea di come affrontare i problemi all’ordine del giorno: quello dei profughi, sia in Europa, dove continueranno ad arrivare, che nei paesi da dove fuggono. Eppure è la questione su cui l’Unione si sta sfaldando, ricostituendo i confini tra uno Stato membro e l’altro e spingendo i rispettivi governi in direzioni opposte. E sui profughi si è creata in tutti i paesi del continente anche una faglia tra accogliere e respingere che sta facendo saltare tutti i precedenti assetti politici. Poi ci sono le guerre che l’Unione ha lasciato crescere lungo tutti i suoi confini; a volte accodandosi agli Stati uniti, a volte gestendole direttamente, a volte lasciando incancrenire la situazione, senza prendere iniziative comuni e autonome per riportarvi la pace. Con il passare del tempo, quei confini si sono allargati fino a comprendere tutti i paesi da cui provengono i profughi che ora l’Europa e il governo italiano cercano in tutti i modi di respingere.
IN TERZO LUOGO, LA LOTTA per il clima riguarda sia gli impegni che l’Unione non sta rispettando, sia la necessità di rendere di nuovo abitabili territori da cui le popolazioni fuggono in massa, alimentando anche, ma certo non solo, il flusso dei profughi che cercano di raggiungere l’Europa. Poi c’é la virata nazionalista e razzista in atto che sta trascinando tutto il continente in una corsa scomposta a chi promette di respingere di più e meglio i profughi. Infine il grand guignol della secessione catalana mette in evidenza quanto cittadini e cittadine europee siano insofferenti delle regole che Unione e Stati membri si sono date. Ma anche su di essa l’Unione è più muta e immobile di una mummia; e viaggia veloce verso la sua dissoluzione.
CI VORRÀ UN PO’ perché una burocrazia abituata a gestire come feudi le istituzioni dell’Unione e una classe politica pavida e priva di visione riconoscano di occupare niente altro che un guscio vuoto, governato non da loro, ma dal cosiddetto pilota automatico inserito da Draghi a nome e per conto dell’alta finanza. Ma prima o dopo dovranno accorgersene e suscita ilarità l’idea che a restituire carne e sangue all’Unione possa essere Macron, passione di Habermas e Scalfari, ma soprattutto marionetta e beniamino dei beneficiari dello svuotamento delle istituzioni politiche europee.
NESSUNO DEI PROBLEMI all’ordine del giorno può essere affrontato senza misurarsi con tutti gli altri. E se il bandolo della matassa è una ineludibile quanto improbabile svolta di 360 gradi nei confronti dei profughi – perché da questo dipende l’agibilità politica necessaria ad affrontare tutto il resto – occorre prendere atto che alla base di tutto c’è la politica di austerità a cui governi nazionali e istituzioni europee continuano a essere attaccati come un’ostrica al suo guscio. È questa la vera barriera che gli Stati dell’Unione hanno eretto, a partire dal 2008, contro l’arrivo di un numero di profughi mai superiore a quello dei migranti che arrivavano ogni anno nei decenni precedenti e con i quali l’Europa aveva realizzato la ricostruzione postbellica, il «miracolo economico» e la sua trasformazione in un’economia globale: ruolo che da dieci anni sta invece perdendo.
Oggi, chiuse in una visione meschina, miope, cinica e alla fine razzista, le classi dirigenti europee hanno imboccato un vicolo cieco che decreta la morte o l’imbalsamazione dell’Unione, ma segna anche il loro irriducibile tramonto.
All’orizzonte si affaccia ormai l’ombra nera di un passato che ritorna senza nemmeno essersi cambiato gran che d’abito.
A fermarla non possono essere personaggi che hanno ridotto il progetto di Ventotene a un morto che cammina, ma solo la costruzione di un movimento di massa che, partendo dall’unificazione delle tante forze disperse oggi impegnate in iniziative di accoglienza e di inclusione dei profughi, sappia farne la leva per affrontare anche gli altri problemi: con un programma di conversione ecologica per creare milioni di posti di lavoro con cui offrire a profughi e migranti le stesse opportunità di inclusione che spettano ai milioni di disoccupati e di precari che le politiche di austerità hanno disseminato negli ultimi dieci anni.
Con una riorganizzazione delle comunità straniere – profughi e migranti sia di recente che di antica immigrazione – che ne faccia i protagonisti di un programma di pacificazione dei loro paesi di origine.
QUELLO CHE LE CANCELLERIE europee hanno dimostrato di non sapere né voler perseguire; ma anche con tanti progetti di risanamento ambientale e sociale di quei territori che riapra la prospettiva di un ritorno volontario di tutti quelli che lo desiderano: innescando così un movimento circolare fondato su una vera cooperazione, non affidata alle multinazionali né ai governi corrotti e feroci tenuti in piedi dalle cancellerie europee, ma a organizzazioni di profughi, di migranti, delle loro comunità di origine. E da una grande leva di giovani europei desiderosi di sperimentarsi in un programma di riconversione ecologica che abbracci sia i propri paesi che quelli in cui mettere alla prova il proprio impegno solidale.
INFINE, CON UNA rifondazione dell’Europa, non come federazione di Stati né di Regioni che ne scimmiottino le politiche fallimentari, bensì di municipalità. Comuni piccoli riuniti e di decentramenti di Comuni grandi legati tra di loro attraverso processi negoziali e uniche entità in cui la democrazia rappresentativa, ormai alle corde, possa essere positivamente affiancata da una democrazia partecipata di prossimità. Per riterritorializzare mercati, produzioni agricole e attività industriali, relegando progressivamente euro e mercato mondiale a ruoli sussidiari; e per riportare così democrazia e politica al loro significato originario: quello di autogoverno.
il manifesto 2.11.17
Il rischio di una seconda guerra civile americana
di Guido Moltedo
In una città dove ormai solo il 51 per cento dei suoi abitanti parla inglese a casa e dove sono parlate centinaia di lingue e dialetti d’ogni dove e d’ogni tipo, una città in cui la prima religione è di gran lunga quella cattolica, praticata da oltre il 60 per cento dei suoi abitanti, è logico che il suo sindaco respinga con la massima fermezza il tentativo di «politicizzare» la terribile vicenda che ha insanguinato la metropoli americana nel giorno di Halloween.
«Politicizzare» nel senso di criminalizzare chi arriva in America da paesi lontani, che è l’essenza della storia di questo grande paese e fonte primaria della sua forza.
Criminalizzare la nuova immigrazione, non più europea e bianca com’era in gran parte del Novecento, ma oggi proveniente dal sud del mondo, criminalizzare specie gli immigrati fedeli a un credo che, ormai, giorno dopo giorno, diventa sinonimo di propensione al terrorismo, se non di terrorismo tout court.
Donald Trump, coerentemente con il punto centrale della sua piattaforma elettorale, ha colto al volo l’opportunità offertagli dal gesto insano compiuto da Sayfullo Saipov per riprendere il filo logorato della sua relazione con l’elettorato bianco arrabbiato – la sua base elettorale – rilanciando la sua offensiva xenofoba, con l’occhio rivolto alle elezioni di medio termine.
E ha trovato una buona cassa di risonanza nel Partito repubblicano, un partito allo sbando e terrorizzato dal voto del 2018, privo di idee ma adesso galvanizzato dal rilancio dell’idea-forza del presidente tesa a rimotivare il blocco elettorale che lo elesse e che, con i suoi voti, potrebbe rendere possibile il mantenimento, ora a rischio, della maggioranza al senato e alla camera da parte del Grand Old Party.
Dopo l’11 settembre George W. Bush sentì l’urgenza di chiamare a raccolta e all’unità il popolo americano e sei giorni dopo fece visita alla moschea di Washington dove pronunciò un discorso elevato di rispetto per l’islam e di messa in guardia da ritorsioni verso gli americani di origine araba e musulmani. Quello che avvenne dopo fu altra cosa, e in qualche misura quel che è successo ieri va anche collegato alla follia della guerra irachena lanciata da Bush, ma ecco, perfino un presidente come lui considerava intangibile il principio fondativo dell’America, terra di immigrati e mosaico in divenire di tante comunità, un principio evidentemente allora messo a rischio dall’attacco alle torri gemelle.
Nell’America di Trump accade che il suo massimo collaboratore, John Kelly, il capo dello staff presidenziale, affermi recentemente che la Guerra Civile poteva essere evitata se le due parti in conflitto avessero cercato un «compromesso». Su cosa? Sulla schiavitù praticata dal Sud?
Si capisce che questo continuo coccolare l’elettorato estremista bianco sia l’unica vera cifra dell’amministrazione Trump e della maggioranza repubblicana, con il rischio, reale, che si vada verso una seconda guerra civile americana.
Ecco perché il sindaco di New York Bill de Blasio, il governatore dello stato di New York Andrew Cuomo, il senatore dello stato Chuck Schumer, che è anche il capogruppo democratico al senato, hanno sentito l’urgenza di replicare immediatamente e unitariamente al gioco pericoloso di chi cerca consensi alimentando conflitti tra le comunità e così spaccando l’America, con un’intenzionalità che deve far paura.
Va dato atto ai dirigenti democratici di avere sostenuto con fermezza una posizione politica che non è facile neppure per loro, in un paese intossicato dalla propaganda xenofoba di media potenti, come Fox, e da siti come Breitbart, un paese dove da una parte c’è la cosmopolita New York, encomiabile nella sua reazione, dall’altra un’America che ha scelto come presidente Trump e come maggioranza parlamentare la peggiore destra repubblicana.
Non può consolare l’ipotesi che questa spinta alla divisione sia una distrazione momentanea dallo scandalo che monta intorno alla Casa bianca.
I complottisti potrebbero indagare sulla coincidenza tra la vicenda di Manhattan e il Russiagate, ma anche ammettendo che il gesto di Saipov possa addirittura essere stato pilotato, non dall’Isis, ma da qualcun altro, è del tutto ininfluente rispetto all’assedio che si stringe intorno alla Casa Bianca.
L’unico nesso possibile che potrà prodursi, come effetto collaterale della strage di Halloween, è in un balzo della popolarità, oggi ai minimi storici, di Trump resa possibile proprio dai suoi sciagurati tweet xenofobi, un migliore posizionamento che gli consentirebbe di assecondare addirittura quello che gli raccomanda Steve Bannon ma che oggi – data la sua debolezza politica – non gli è consentito: licenziare il procuratore speciale Richard Mueller o almeno tagliargli drasticamente i fondi necessari per le sue indagini.
E chiudere così il Russiagate.
Il Fatto 2.11.17
Da Cuffaro alla Tigre Arkan: una vita di scoop e di Rai
Milena Gabanelli - La clamorosa rinuncia dell’azienda alla fuoriclasse del giornalismo televisivo, dai reportage senza troupe al boom di Report
di Gianluca Roselli
Non sappiamo se per indifferenza, ignoranza o supposta furbizia. Sta di fatto che ai piani alti di Viale Mazzini probabilmente non ci si rende conto di cosa voglia dire essersi lasciati scappare Milena Gabanelli. La sensazione che arriva è che, con le sue dimissioni, in Rai si siano tolti un problema, mentre invece lo si è creato. Perché lo spazio lasciato vuoto è enorme.
Basti pensare che la sua creatura televisiva, Report, è diventato un marchio di giornalismo investigativo a livello mondiale. Un brand che Gabanelli, al contrario di altri, ha lasciato come patrimonio all’azienda. Una trasmissione che va bene anche senza di lei, segno che la squadra che si era scelta è di alto livello, a partire dal suo braccio destro, Sigfrido Ranucci, che ha preso in mano il programma dal novembre 2016 dopo l’annuncio di Milena di lasciare dopo 20 anni. Chissà quanto Gabanelli avrebbe ancora potuto dare al servizio pubblico, è la questione che dovrebbero porsi a Viale Mazzini. Ed è proprio alla redazione di Report che la giornalista ha fatto visita, sfogandosi, martedì pomeriggio. Un incontro quasi più emozionante di quando, a quella stessa redazione, annunciò la sua intenzione di abbandonare la sua creatura, perché dopo tutto quel tempo riteneva esaurito il compito.
Due giorni fa la tristezza ha lasciato spazio a delusione e amarezza. Con la consapevolezza, però, di essere nel giusto. “Lunedì prossimo dirò in video cosa penso di questa vicenda”, fa sapere Ranucci che, come gli altri della squadra, considerano l’aver lasciato andar via Milena una bestemmia in chiesa. “Gabanelli è l’ultima giornalista a fare inchieste vere, in un momento in cui su tutti i giornali sono state abbandonate”, disse di lei Giorgio Bocca.
I suoi primi passi, però, sono da inviata di guerra. Nel 1987, infatti, inizia a lavorare con Giovanni Minoli a Mixer, per cui confeziona servizi da ex Jugoslavia, Cambogia, Mozambico, Vietnam, un servizio sui venditori di reni in India, un altro sulla Yakuza giapponese. E poi Birmania, Sudafrica, Somalia, Cecenia. Qui, mentre sta riguardando il girato, una pallottola le passa a pochi centimetri dalla testa.
È l’unica giornalista italiana ad aver messo piede, nel 1990, a Pitcairn, l’isola dove ancora vivono i discendenti degli ammutinati del Bounty del 1790. E proprio in uno di quei viaggi, per puro caso, le capita di confezionare un servizio con il metodo del videogiornalismo. “Ero a Belgrado e la troupe che doveva seguirmi non è mai arrivata. Mi sono arrangiata con una piccola telecamera che mi avevano prestato e ho portato a casa il pezzo”, ha raccontato lei stessa.
Da lì inizia la passione per questo modo di fare giornalismo in voga nel mondo anglosassone ma che da noi non si era mai visto: il cronista che, con una cinepresa portatile, diventa anche cameraman. Una tecnica che nel 1994 può sperimentare per due stagioni a Professione Reporter, l’embrione di Report, che parte invece nel 1997 nella Rai3 diretta da Minoli. Che in Milena aveva visto una marcia in più. “Me la segnalò Alberto La Volpe, direttore socialista del Tg2. Fece reportage strepitosi. In Jugoslavia salì sul carro armato della tigre Arkan”, ha raccontato il giornalista in una recentissima intervista. Ed è con Report che arrivano le inchieste più importanti. Come quella su H3G, con una richiesta di risarcimento di 137 milioni di euro da parte dell’azienda telefonica.
O su Totò Cuffaro, nel 2005, quando era governatore siculo (La mafia che non spara). Sulle truffe effettuate con i derivati finanziari e sulle piume usate nei giubbotti Moncler. Dopo una puntata sulle retribuzioni d’oro dei manager e gli affari con la Russia del 2003, l’Eni le chiese un risarcimento di 25 milioni di euro. Un’altra sul malfunzionamento dei treni causò la richiesta di 60 miliardi di vecchie lire da parte di Ferrovie.
Inchieste su piccoli e grandi settori, dall’economia alla politica, dalle aziende private a quelle pubbliche, che hanno scoperchiato vasi e messo le dita negli occhi al potere. Tante denunce e querele, ma in tribunale nessuna causa persa, nessun risarcimento pagato. E censure? “Della Rai si può dire tutto, ma in tanti anni non ne ho mai subita una, nemmeno quando ci siamo occupati dei grandi inserzionisti”, racconta Gabanelli. Anche se a volte la minaccia da Viale Mazzini di togliere la tutela legale al programma arrivava.
Un momento di forte attrito ci fu con l’ex dg Flavio Cattaneo: Giulio Tremonti, allora potente ministro dell’Economia, chiese la modifica di un servizio. “Discutemmo qualche ora ma l’inchiesta andò in onda così com’era”, ha ricordato Gabanelli nell’intervista dell’ottobre 2016 dove spiegò il suo addio a Report.
“Cosa farà ora?”, le fu chiesto. “Sono affascinata dalle novità narrative, come il data journalism. In Rai esiste un piccolo gruppo di lavoro che potrebbe diventare un’agenzia interna a disposizione del nuovo sito di informazione che sta costruendo Carlo Verdelli. Non mi dispiacerebbe lavorarci sopra”. Ecco, appunto. È passato solo un anno e sembra un’era geologica.
Corriere 2.11.17
Popoli e tragedie
I meriti dimenticati dei curdi
di Paolo Mieli
Nelle ore in cui il mondo intero (e noi con esso) si commuove per le vittime dell’attentato terroristico di Manhattan, ci sembra doveroso — per comprendere se non ci siano falle o anche soltanto opacità nel nostro impegno contro il radicalismo armato degli islamisti — fermarci a riflettere sulla tragedia che sta vivendo il popolo curdo. Quei curdi che, dopo aver aiutato per tre interminabili anni l’America e l’Occidente intero a debellare i terroristi di Daesh, sono stati lasciati in preda alle milizie sciite Hashd al-Shaabi guidate dal sanguinario Qasem Soleimani. E, con lui, a chiunque nella regione intenda approfittare del loro esser sfiniti dalla lunga guerra contro il Califfato per poterli sbranare una volta per tutte. Un tradimento orribile, il nostro. Quel popolo che, al prezzo di inimmaginabili sacrifici in vite umane, ci ha consentito di far saltare la centrale del terrorismo mondiale (senza che con ciò gli estremisti islamici, a ogni evidenza, possano esser considerati definitivamente debellati) proprio in questi giorni viene dato in pasto ai carnefici venuti dall’Iran e dall’Iraq. Mentre il loro presidente, Massoud Barzani, anche perché tradito da un raggruppamento rivale, è costretto alle dimissioni con parole piene di dignità che tra qualche anno finiranno nei libri di storia. Anche i curdi, negli stessi giorni della Catalogna, avevano promosso un referendum per sancire la propria indipendenza. Il mondo non ha riservato attenzione a questo passaggio della loro vicenda storica.
Pur se, a differenza dei seguaci di Puigdemont, il popolo di Barzani aveva titoli speciali di legittimità morale per procedere in tal senso. Come — per fare un esempio di fantasia (sottolineiamo: di pura fantasia) — li avrebbe avuti il popolo catalano se, nei primi anni 40, fosse rimasto da solo sul terreno a combattere contro le armate naziste. Ai catalani non è capitata l’occasione di far valere questo genere di meriti. Ai curdi sì. Ed è una colossale ingiustizia che l’intero mondo occidentale adesso non voglia onorare il debito morale che dovrebbe sentire nei loro confronti. E che, di fronte al dramma di questa gente, giri la testa da un’altra parte.
La storia non è nuova a questo genere di orribili voltafaccia. Basta andare con la memoria — prendendone uno a caso — al trattato di Campoformio, che prese il nome del paesino friulano nel quale il 17 ottobre del 1797 Napoleone Bonaparte consegnò all’Austria la città di Venezia, orgogliosamente autonoma da oltre mille anni. Venezia, con la propria neutralità, aveva fino a quel momento favorito l’Armata francese in Italia e le si era addirittura consegnata. Dopodiché il generale francese l’aveva ripagata con Campoformio. Quel cinico gesto di Bonaparte provocò sdegno tra gli intellettuali della penisola nonché, da quel momento in poi, diffidenza estrema nei confronti di Napoleone. È sufficiente leggere qualche pagina delle Ultime lettere di Jacopo Ortis per misurare l’intensità di quei sentimenti di riprovazione. Ma adesso per quel che riguarda i curdi non c’è neanche (salvo rarissime eccezioni) qualche Ugo Foscolo che si curi del loro destino.
Quella curda è una storia lunga e travagliata. Per stare solo agli ultimi 150 anni, i curdi furono strumentalizzati dai turchi nella guerra contro i russi tra il 1877 e il 1878. Ma quando, capeggiati da ‘Ubayd Allah, chiesero di ottenere l’autonomia che era stata loro implicitamente promessa, furono brutalmente repressi dai turchi stessi (con il tacito consenso degli inglesi). Poi vennero utilizzati dagli ottomani, nel 1915, nell’olocausto armeno, l’unica, indelebile, macchia sul loro passato. E anche stavolta non ottennero nulla. Tra il ’16 e il ’18, furono eccitati contro l’impero della Sublime Porta prima dalla Russia zarista, successivamente, nella fase conclusiva della Prima guerra mondiale, dalla Gran Bretagna che promise anche a loro come ad arabi ed ebrei un “focolare” nazionale.
Nel dopoguerra, 1920, con il trattato di Sèvres, ottennero soddisfazione e fu finalmente definito sulla carta geografica uno Stato del Kurdistan. O almeno così sembrò: il sogno durò pochissimo e fu mandato in frantumi dalle offensive del turco Mustafa Kemal (ma non solo). Trascorsero tre anni e con il Trattato di Losanna (1923) la comunità curda venne smembrata tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Da quel momento il gioco delle potenze circostanti fu quello di aizzarli gli uni contro gli altri. In ciò fu assai efficace la Turchia, ma ancor più, dagli anni Ottanta, l’Iran degli ayatollah. All’inizio dei Novanta, dopo la prima guerra del Golfo (1991), gli Stati Uniti diedero segni di ravvedimento e imposero una no-fly zone sui territori curdi iracheni fin lì martoriati da Saddam Hussein. Ne derivò una sorta di autogoverno afflitto però dalla lotta tra fazioni curde rivali (particolarmente sanguinose quelle tra il 1994 e il 1997). Passarono altri quattordici anni — con la seconda guerra a Saddam (2003) — e dal 2005 fu istituita una regione curda semiautonoma nel Nord dell’Iraq. Un’altra simile fu creata, dal 2012, nel Nord-Est della Siria, quella Siria in cui era iniziata la rivolta contro Assad. Poi, nel 2014, venne la stagione del Califfato e ai curdi fu affidata la missione di combatterlo sul terreno laddove gli eserciti, iracheno e siriano, erano stati travolti proprio dagli uomini di Al Badgdadi. I peshmerga si sono battuti con un coraggio e una tenacia che all’inizio nessuno avrebbe immaginato. Americani e russi diedero il loro contributo dai cieli, ma a dissanguarsi sul terreno contro quei terribili tagliateste c’erano loro e pressoché soltanto loro: i curdi. Noi occidentali avevamo promesso che, nel caso questa battaglia fosse stata vinta, mai li avremmo lasciati in balia delle milizie sciite armate da Bagdad e da Teheran. E loro ci hanno creduto. Diciamo la verità: all’epoca nessuno, neanche il più cinico di noi, avrebbe potuto immaginare che (dopo averli impegnati per tre interminabili anni in un combattimento corpo a corpo, metro per metro) li avremmo abbandonati al loro destino. E che, anzi, avremmo spianato la strada ai loro carnefici. In un battibaleno, tra l’altro. Invece è accaduto.
E adesso? Gli Stati Uniti se ne infischiano di loro. L’Europa, come sempre, si mostra distratta al cospetto di questo genere di tragedia. Tranne, forse, Parigi dove stasera, al cinema Le Saint-Germain al 22 di rue Guillaume-Apollinaire, si terrà una manifestazione di solidarietà nei confronti di quel popolo eroico: si intitolerà «Avec le Kurdes, plus que jamais!» e parteciperanno Bernard Kouchner, Kendal Nezan, Caroline Fourest, Bernard-Henri Lévy, il generale Hajar Aumar Ismail, Anne Hidalgo e Manuel Valls. Nell’occasione si potranno ascoltare parole di ammirazione per combattenti reduci dall’aver dato un contributo fondamentale all’impresa che ha mandato in frantumi la tirannide dell’Isis. E, nel contempo, di denuncia — leggiamo dal manifesto di convocazione per l’evento a Le Saint-Germain — dei «carri armati statunitensi Abrams che hanno consentito alle divisioni irachene e alle milizie iraniane venute da Teheran di impadronirsi di Kirkuk». È poco? Sì, è poco. Pochissimo. In ogni caso da noi, qui in Italia, non ci sarà neanche un cinema che ospiterà una serata del genere .
Repubblica 2.11.17
Omicidio Regeni le bugie di Cambridge sui rischi di Giulio
Il ricercatore confessò le sue paure: “La tutor è un’attivista” Ma l’università ha taciuto. I pm: adesso deve collaborare
di Carlo Bonini e Giuliano Foschini
CAMBRIDGE IL FANTASMA di Giulio Regeni torna a chiedere conto delle cruciali reticenze, ora documentabili da Repubblica, che, da venti mesi, contribuiscono a tenere in ostaggio, ostacolandola, la ricerca di una parte significativa della verità sul suo omicidio. Quantomeno della sua cornice. Delle sue premesse. E torna dunque inevitabilmente a bussare qui, alla porta del “Centre of Development Studies” dell’università di Cambridge, il dipartimento di Scienze sociali di cui Giulio era dottorando di ricerca. Perché se è vero che è al Cairo che tutto è finito ed è negli apparati del regime di Al Sisi che continuano a trovare protezione i suoi torturatori e assassini, è altrettanto vero che è cinquemila chilometri più a nord che tutto è cominciato. Nell’Alison Richard Building, al 7 di West road, dove ha ripreso a lavorare, dopo un anno di sabbatico, la professoressa Maha Mahfouz Abdel Rahman.
LA TUTOR di Giulio, la committente della sua “ricerca partecipata” che in una prima fase doveva occuparsi dei sindacati egiziani, la donna i cui ricordi intermittenti, lacunosi e in più di un caso insinceri, perché smentiti dai fatti, hanno sin qui di fatto impedito di fare piena luce sull’ultimo tratto di vita di Giulio. E però, ora, il tempo dei silenzi della professoressa Rahman e dell’imbarazzo acquiescente dell’università di Cambridge è esaurito. O quantomeno sembra esserlo. Il 9 ottobre scorso il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco hanno trasmesso alla “United Kingdom Central Autorithy” (Ukca), l’organo britannico giudiziario di collegamento con le magistrature dei paesi Ue, un Ordine Europeo di Investigazione (dal luglio scorso si chiamano così le nuove “rogatorie rafforzate” all’interno dello spazio Schengen per le quali è prevista l’immediata esecutività nel paese destinatario della richiesta) con cui si chiede l’interrogatorio formale dell’accademica e l’acquisizione dei suoi tabulati telefonici, mobili e fissi, utilizzati tra il gennaio 2015 e il 28 febbraio 2016, per ricostruirne la sua rete di relazioni. È un documento di dodici pagine che in queste settimane è stato condiviso dalla nostra autorità giudiziaria con la Farnesina, il ministero di Giustizia, il nostro ambasciatore al Cairo Giampaolo Cantini, il Foreign Office britannico e di cui Repubblica è in possesso. È un documento che, per la prima volta, sulla base di evidenze istruttorie acquisite al fascicolo dell’inchiesta, illumina con dettagli inediti l’ambiguità di Maha Mahfouz Abdel Rahman nella gestione del suo rapporto accademico con Giulio Regeni, le omissioni della prima e le inquietudini del secondo, espresse in almeno due rivelatrici conversazioni via Skype con la madre Paola.
***
Maha Mahfouz Abdel Rahman, dunque. A giudicare dal suo curriculum, la donna, di origini egiziane, non vanta esperienze accademiche né di lungo corso, né di particolare spessore. Si certificano un passato di “Professore associato di Sociologia all’American University del Cairo” e “consulenze in materia di cooperazione internazionale con organizzazioni quali Unicef, Oxfam Novib e Danida”. Tra le sue pubblicazioni, figura un breve saggio di 162 pagine dal titolo “Egypt’s Long Revolution” edito nel 2015 dalla piccola casa editrice Routledge. Nel suo presente, è appunto un nuovo contratto a termine con l’università di Cambridge dopo un anno trascorso tra il Regno Unito e l’Olanda in un sabbatico che è stato l’occasione formale per sottrarsi ripetutamente alla richiesta della Procura di Roma di deporre come teste nell’inchiesta sull’omicidio di Giulio.
La Rahman, soprattutto, non ha mai voluto affrontare quelli che, nella rogatoria inviata al Regno Unito, i magistrati romani definiscono i «cinque punti su cui è di massimo interesse investigativo fare chiarezza e relativi al dottorato di ricerca che ha portato Giulio Regeni in Egitto dal settembre 2015». E che è utile elencare, quantomeno nella sintesi che ne fa la Procura di Roma: «1) Chi ha scelto il tema specifico della ricerca di Giulio; 2) Chi ha scelto la tutor che in Egitto avrebbe seguito Giulio durante la sua ricerca al Cairo; 3) Chi ha scelto e con quale modalità di studio la “Ricerca partecipata”; 4) Chi ha definito le domande da porre agli ambulanti intervistati da Giulio per la sua ricerca; 5) Se Giulio abbia consegnato alla professoressa Abdel Rahman l’esito della sua ricerca partecipata durante un incontro avvenuto al Cairo il 7 gennaio del 2016».
Già, la Rahman, che dei cinque punti interrogativi custodisce le risposte, ha preferito sin qui percorrere un’altra strada. Il 12 febbraio del 2016, a Fiumicello, nel giorno dei funerali di Giulio, cui partecipa, si rifiuta, al contrario di quanto fanno spontaneamente tutti gli amici del ragazzo, di consegnare i suoi telefoni, i computer e tutti quei supporti informatici che potrebbero consentire di isolare spunti investigativi. Si limita a imbastire con il sostituto Sergio Colaiocco, che ne raccoglie il primo e ultimo verbale di testimonianza, una storia “neutra”, ripulita di ogni dettaglio o suggestione che consenta all’inchiesta, in quei giorni alle sue primissime battute, di imboccare una qualche strada. Il racconto del suo incontro accademico con Giulio, che si iscrive nell’ottobre del 2011 al master in Development studies di Cambridge, e che a Cambridge torna nel 2014, dopo un’esperienza di lavoro alla “Oxford Analytica” e all’Unido, è infatti di una disarmante genericità. «... Sono un’esperta di economia egiziana, che è il mio settore — dice — . Per questo motivo Giulio si è rivolto a me, perché univo esperienze sociologiche a quelle economiche. Il primo anno del dottorato è incentrato su studi teorici presso l’università. Il secondo anno è dedicato alla pratica, alla ricerca sul campo e gli studenti si recano nel Paese sul quale stanno svolgendo gli approfondimenti».
Non va meglio qualche mese dopo, nel giugno 2016, quando, dopo essersi rifiutata di rispondere alle domande in rogatoria del pm Colaiocco, per descrivere il percorso di ricerca sul campo di Giulio al Cairo, la professoressa ritiene di cavarsela con una e-mail alla Polizia del Cambridgeshire perché la trasmetta alla Procura di Roma. «Giulio — scrive la Rahman — aveva identificato la professoressa Rabab Al Mahdi presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’American University al Cairo come supervisore con cui voleva lavorare. Io conoscevo la Rabab Al Mahdi e mi dissi d’accordo perché ritenevo la proposta di Giulio appropriata ».
Insomma, per la Rahman non c’è nulla da capire. Incontra a Cambridge Giulio e ne diventa tutor in ragione delle sue competenze. Ne approva la “ricerca partecipata”, che a suo dire non presenterebbe alcun profilo particolare di rischio. Salvo omettere di chiarire se l’oggetto originario fosse genericamente il mondo dei sindacati e non quello, specifico, dei “sindacati indipendenti”, motore della ri-le volta di piazza Tharir. Aggiunge, lo abbiamo visto, di averlo assecondato nella scelta al Cairo della professoressa che avrebbe dovuto accompagnarlo nella sua ricerca sul campo.
Le cose sono davvero andate così?
Non sembra proprio. Giulio non chiede alla Maha la benedizione accademica di proprie scelte. Piuttosto, le subisce. Scrivono i magistrati romani nella loro rogatoria alle autorità britanniche: «Una conversazione avvenuta sulla chat di Skype il 26 ottobre 2015 tra Regeni e le madre Paola consente di sapere come Giulio viva le sue ricerche al Cairo e di scoprire come fosse stata la professoressa Abdel Rahman a insistere perché approfondisse il tema specifico della sua ricerca e con le modalità partecipate». Dice Giulio alla madre: «Me stago addentrando nel tema… E go de capir de più… Xe importante perché nesun ga fatto questo prima… perché Maha insisteva che lo fasesi mi…». L’insistenza della Maha sul tema della ricerca e la scelta di assegnargli come tutor al Cairo la professoressa Rabab el Mahdi dell’American University, anch’essa con un profilo più simile a quello di una attivista che non a quello di un’accademica, è del resto oggetto anche delle confidenze di Giulio in una chat con un suo amico e collega ( Repubblica ritiene opportuno proteggerne l’identità) del 15 luglio 2015, cui esprime il timore che la Maha abbia preso male i dubbi che aveva espresso sulla scelta della El Mahdi quale sua tutor al Cairo e sui rischi che questo potesse sovraesporlo. «... Ieri se semo trovai per decider la struttura del mio report de fine anno e anche per discuter del nome del supervisor in Egitto… Ela me ga proposto Rabab El Mahdi che xe una politologa egiziana conosuda anche perché la xe una grande attivista… Mi go fatto il codardo e ghe go ditto che ero un po’ preoccupà del fatto che la ga molta visibilità in Egitto e no volesi esser tanto in primo piano… E la xe rimasta mal… La mega ditto: finirà che dovremo metterte con qualchidun che fa parte del Governo… Dopo sono tornà nel suo ufficio e ghe go ditto che me andava ben el suo nome ma no la sembrava troppo convinta…».
Giulio in queste chat estratte dalla memoria del suo pc conferma dunque di essere un ricercatore, e nient’altro che un ricercatore, la cui unica bussola è lo studio di un fenomeno sociale. Ma conferma anche di essere tutt’altro che naif. Lo piega soltanto il compromesso in nome dell’unica cosa che gli sta a cuore: l’accademia, la sua ricerca, il suo lavoro per i quali dunque accetta di essere gelato dalle scelte e dal sarcasmo della sua tutor: «Finirà che dobbiamo metterti accanto qualcuno che fa parte del Governo…».
C’è qualcosa di più a proposito delle reticenze di Maha. «Dalle indagini di questo ufficio — scrivono nella rogatoria i magistrati della Procura di Roma — emerge la determinazione della professoressa Abdel Raham nel richiedere ai propri studenti interviste sul campo al Cairo per raccogliere materiale di analisi sui sindacati autonomi (...) In particolare, emergono le figure di alcuni studenti dell’università di Cambridge inviati in Egitto per questo tipo di ricerca e allontanati dalle autorità egiziane. In particolare lo stesso Giulio Regeni raccontava agli amici di una sua collega di Cambridge che, mandata in Egitto l’anno precedente per svolgere la sua stessa ricerca, era stata espulsa dal paese e aveva dovuto ricorrere alle cure di uno psicologo per i traumi riportati nell’esperienza egiziana».
Non è poco. E non è tutto. C’è infatti un altro fotogramma degli ultimi giorni di vita di Giulio su cui la Maha pattina. Vale a dire che fine abbiano fatto i dieci report in cui Giulio aveva articolato il suo lavoro di ricerca sui sindacati autonomi, di cui è rimasta copia nel suo pc, e che la Procura di Roma è convinta Giulio abbia consegnato alla Maha il 7 gennaio del 2016 al Cairo. Che è poi lo stesso giorno in cui l’ambulante Mohammed Abdallah lo avrebbe filmato e registrato di nascosto con una telecamera e una cimice fornite dalla National Security, il servizio segreto civile del Regime.
Anche di quel 7 gennaio 2016 la Maha ha un ricordo opaco, a suo dire irrilevante. Nella mail del 12 giugno 2016 alla polizia del Cambridgeshire ammette infatti di aver incontrato Giulio ma ne omette la ragione. «In un’occasione, nella seconda settimana di gennaio — scrive — Giulio e io ci siamo visti al Cairo, ma è stato un incontro veloce. Ero di passaggio per far visita ai miei familiari». Non c’è traccia della consegna dei dieci report che Giulio — annotano i magistrati — «ha redatto tra il 29 ottobre e il 18 dicembre 2016 dopo altrettanti colloqui e pomeriggi passati con i rivenditori ambulanti». Non c’è traccia nei ricordi della professoressa di quanto Giulio, al contrario, scrive per mail alla madre Paola proprio quel 7 gennaio del 2016: «La Maha xe sorpresa che go rivà a far cusì tanto in poco tempo. La ga ditto de continuar e decider più nello specifico i temi de confronto tra i due sindacati e de esplorar altre realtà sindacali per gaver un’idea el più possibile complessiva». Altro che incontro fugace, dunque. Se Giulio non mente, e non si vede perché dovrebbe in quella mail alla madre, la consegna dei dieci report e il loro contenuto vengono discussi dalla Maha, che ne è a tal punto soddisfatta da invitare Giulio a insistere.
Così riscritto, il racconto del rapporto accademico tra Maha Abdel Rahman e Giulio obbliga ora le autorità di governo inglesi e l’università di Cambridge a una qualche mossa che li strappi alla palude di venti mesi di silenzi e inerzia. E, per altro, di questo nuovo scenario comincia ad aversi una qualche traccia. Come confermano a Repubblica qualificate fonti diplomatiche, nelle settimane scorse il nostro ambasciatore a Londra ha incontrato funzionari del Foreign Office britannico e un rappresentante dell’università di Cambridge. Ne avrebbe ricavato un generico impegno a dare corso alla rogatoria della Procura di Roma ma, insieme, l’evidenza di un nodo ancora non sciolto. La professoressa Maha Abdel Rahman, che ora è assistita da un avvocato, sembrerebbe ancora convinta che possa esserci uno spazio per rilasciare «dichiarazioni informali » alla nostra magistratura. Una soluzione impossibile perché esclusa dal nostro codice di procedura penale e tuttavia indicativa, a posteriori, di quanto imbarazzo, apparentemente incomprensibile, tenga ancora prigioniera la professoressa e l’università di Cambridge sulle ragioni e modalità della ricerca di Giulio. E ancora, per dirla con le parole dei magistrati della Procura di Roma, «dei soggetti» che avrebbero potuto usufruire del lavoro accademico di Giulio.
Lo stesso imbarazzo che in questi 20 mesi ha finito per consentire che un veleno intossicasse la memoria di Giulio, confondendo il suo amore per la ricerca con inconfessabili, quanto falsi, interessi e attività di soft power e intelligence per conto di governi stranieri. Una circostanza di cui, una volta per tutte, gli stessi magistrati della procura di Roma, fanno giustizia: «Allo stato — scrivono nella rogatoria — è pacifico come non vi sia nessun elemento che autorizzi a ritenere che Giulio Regeni avesse altri interessi lavorativi o attività nel Regno unito che non fossero la sua attività di ricerca». È una verità che riguarda Giulio e solo Giulio. E per questo e per il resto sin qui ancora ignoto che ora tocca alla la professoressa Maha Mahfouz Abdel Rahman. All’Università di Cambridge. Al Governo e alla magistratura britannica.
Repubblica 2.11.17
Sul fiume delle Perle il mega-ponte di Xi ultima meraviglia del boom cinese
Così Pechino lega sempre più Hong Kong a sé con un tunnel degli abissi e tre isole artificiali
di Angelo Aquaro
ZHUHAI LA RAGAZZA Pescatrice può finalmente andare in pensione. Era il 1982 quando la statua che incanta i turisti sul Fiume delle Perle fu eretta a simbolo di un paesino che cominciava a godere dell’apertura di Deng Xiaoping dopo secoli di invidia per le fortune di Hong Kong dirimpettaia. Ma adesso che la Cina di Xi Jinping sta entrando in una “nuova era” è questo serpentone da 16 miliardi di dollari a raffigurare plasticamente, e per 55 chilometri, la vendetta della storia. Perché la cifra scolpita sui mega-piloni rappresenterà pure il più classico dei “nodi” cinesi, che hanno anche un significato augurale: ma di questi tempi non richiama l’ennesimo cappio al collo di Joshua Wong, appena scarcerato, e dei ragazzi della Rivoluzione degli Ombrelli?
Zang Jinwei, capo-operaio controllo qualità, 32enne del Jiangsu, provincia a Nord di Shanghai a 2mila chilometri da qui, dice che «tutto il mondo guarda a quello che stiamo realizzando, un’opera senza precedenti». E per carità: chi s’era mai sognato di costruire quattro isole artificiali, una che serve da “imbarco” dall’aeroporto di Hong Kong, un’altra che diventerà supercentro turistico e immette nel tunnel che scende a 47 metri di profondità, la terza che raccoglie le sei corsie che riemergono dopo 7 chilometri e infine l’ultima che fa da smistamento del traffico da 40mila auto al giorno tra Zhuhai e Macau? «Certo che mi svegliavo la notte col pensiero di non farcela», confessa Lin Ming, l’ingegnere capo progetto che apre in anteprima a
Repubblica una di quelle meraviglie di infrastruttura che l’America di Donald Trump, atteso in Asia questo fine settimana, se le sogna. La particolarità del secondo ponte più lungo del mondo è proprio quell’inabissarsi per 7 chilometri fino a oltre 30 metri sotto il fondale per rispondere a due necessità: proseguire per via aerea avrebbe messo a rischio i voli del vicinissimo aeroporto mentre una discesa meno profonda avrebbe impedito il transito delle 40 mila imbarcazioni, tante petroliere, che ogni giorno attraversano il canale. Ma come posare il tunnel senza le isole? E come costruire un’isola in meno dei tre anni impiegati in progetti simili? Metteteci l’habitat a rischio del delfino rosa, ed ecco che la mission era sembrata impossible. Finché Lin-Archimede, uno che nel tempo libero butta giù gli schizzi del ponte di Messina («Il sogno di tutti noi che facciamo questo mestiere») se n’è uscito con una di quelle idee che sollevano il mondo: «Invece che pompare in mare tonnellate di terra abbiamo costruito le isole innestando nel fondale 120 cilindri di acciaio alti 15 metri: e li abbiamo riempiti di sabbia».
Eureka. E tempi ridotti a 7 mesi: grazie, va detto, a quel formichiere di centinaia, migliaia di operai ospitati sulle baracche galleggianti che lavorano 24 ore su 24. Fu così che il megaponte favoleggiato da tempi di Hong Kong colonia viene alla luce ora che la capitale finanziaria d’Asia, depauperata dalla crescita assistita delle città-fotocopia cinesi, Shenzhen in testa, si avvia a diventare vassallo del Dragone. Non l’ha detto SuperXi che “Un paese, due sistemi”, la dottrina concordata con il passaggio alla Cina, funziona benissimo? «Venga a mettersi nei nostri panni», ti dice Jason Ng, scrittore e ideologo del movimento di Wong: «Ogni giorno che passa avvertiamo sempre più la scomparsa della semi-autonomia garantita da costituzione». E la superstrada che dall’inizio dell’anno li riunirà alla terraferma è solo l’ultimo nodo della corda che li lega ormai fisicamente a Pechino. Ma intanto la Ragazza Pescatrice è finalmente vendicata, e il delfino rosa può continuare a sguazzare. Bye bye Hong Kong: la Grande Muraglia (sul mare) ti seppellirà.
Il Fatto 2.11.17
“Gastronomia un’arma dei poveri, non dell’élite”
Carlin Petrini - 30 anni fa: il 3 novembre 1987 inizia l’avventura con “il manifesto di slow-food”
di Stefano Caselli
il modo di pensare al cibo, ma c’è un nuovo cambio di paradigma epocale: i prossimi anni saranno caratterizzati da una pubblicità tendente all’informazione più che alla fantasia. Il consumatore ha imparato a fare domande, non puoi più raccontargli balle sulle materie prime e sui processi produttivi”. Carlo “Carlin” Petrini – da poco rientrato da un viaggio in Cina – risponde dal Perù in attesa di partire per il Brasile.
Insomma, in trent’anni la sua chiocciolina di strada ne ha fatta molta.
Era infatti il 3 novembre 1987, quando il Manifesto pubblicava “Il manifesto dello slow-food”.
Fu esordio assoluto di un marchio destinato a resistere, che così si esprimeva: “Contro coloro, e sono i più, che confondono l’efficienza con la frenesia, proponiamo il vaccino di una adeguata porzione di piaceri sensuali assicurati, da praticarsi in lento e prolungato godimento. Da oggi i fast-food vengono evitati e sostituiti dagli slow-food, cioè da centri di goduto piacere. In altri termini, si riconsegni la tavola al gusto, al piacere della gola”.
Petrini, chi scrisse materialmente quelle parole?
Fu, poeticamente, Folco Portinari, che intercettò non solo la contrapposizione gastronomica con il “fast food” allora dominante, ma qualcosa in più: la lentezza come filosofia. Erano gli Anni 80 degli yuppies, la frenesia veniva contrabbandata come modernità… Noi la pigliavamo con più calma…
Oggi però il mondo va enormemente più veloce di allora. Si può ancora essere “slow”?
Forse esserlo è ancora più rivoluzionario, ma c’è anche un paradosso: trent’anni fa non esisteva il Web, oggi la Rete è linfa vitale per realtà come la nostra. Senza questo tipo di “velocità” non avremmo mai raggiunto orizzonti che 30 anni fa sembravano completamente inaccessibili, come la Cina. Là si gioca buona parte del nostro futuro, il disastro ambientale del loro enorme sviluppo è evidente. L’unica cosa che può fermare il disastro è una nuova ruralità. Noi ci stiamo provando, con il nostro progetto di mille villaggi Slow Food.
Come – e in cosa – è cambiata Slow Food dal 1987 a oggi?
La data di svolta è il 2004, l’anno della prima Terra Madre a Torino. Da quel momento abbiamo capito che la gastronomia avrebbe potuto diventare uno strumento di riscatto anche in paesi dove si soffre la fame. Fino al 2004 eravamo solo in paesi con la pancia piena, il movimento Slow poteva essere associato a un’élite riservata e benestante. Nella logica gastronomica di trent’anni fa i concetti di biodiversità e giustizia erano ancora impensabili. Oggi, invece, la nostra non è più una battaglia per il cibo d’élite, ma per il cibo quotidiano. È finito il tempo della vecchia gourmandise che pensava solo al suo piatto, anche in Italia. Le nostre sfide oggi sono la difesa dell’ambiente, la lotta alla cementificazione, la promozione di un nuovo patto tra agricoltura e territorio che ponga rimedio al dissesto idrogeologico ormai evidente, anche perché le conseguenze del cambiamento climatico sono inimmaginabili se non invertiamo rotta.
Trent’anni di pensiero “slow” hanno inciso nelle abitudini degli italiani?
Molto è cambiato, c’è sicuramente più sensibilità. Le giovani generazioni, soprattutto, sono quelle più ricettive, quelle di mezzo, come sempre, quelle meno. C’è in generale meno ideologia e più pragmatismo, è cambiato il quadro di riferimento del concetto di cibo: la richiesta di rispetto per l’ambiente, di informazioni sulla filiera produttiva e sulla salubrità è molto più forte di 30 anni fa. Oggi non è possibile rendere piacevole un piatto senza pensare all’economia e al benessere di chi produce le materie prime. Si chiama alleanza tra chef e contadini. Che a livello mondiale i contadini siano sempre l’ultima ruota del carro è una cosa insostenibile. Servono le buone pratiche, i Farmer’s market, gli orti nelle scuole, l’educazione alla stagionalità, il recupero e la confisca dei terreni agricoli in mano alla criminalità.
Su cosa è necessario concentrarsi nel prossimo futuro?
Sulla vergogna della malnutrizione, obesità nei Paesi ricchi e fame nei Paesi poveri sono due facce della stessa medaglia, con la differenza che l’ipernutrizione la cerchiamo noi, la malnutrizione loro la subiscono. In Occidente lo spreco alimentare supera il 35% della produzione. E poi dobbiamo continuare a ridare dignità al mondo rurale o l’urbanizzazione ci soffocherà. Ma se un chilo di carote te lo pagano 7 centesimi, chi può desiderare ancora di lavorare la terra?
La Stampa 2.11.17
Come battere il divario di genere che ci umilia
La classifica del World Economic Forumfotografa l’abisso di trattamento tra uomo e donna L’Italia 82esima, dopo il Burundi. I risultati peggiori in due campi:salute e situazione economica
di Linda Laura Sabbadini
Il divario di genere è un problema serio in gran parte del mondo e lo è anche nel nostro Paese. Lo dice il World Economic Forum nel suo ultimo rapporto sul Global Gender Gap. Ce lo dicono gli indicatori rilevati dalle Agenzie dell’Onu e dalla Commissione Europea, per quanto di natura diversa e spesso non convergenti tra loro. Secondo i dati del Wef ci vorranno 100 anni per suturare il gap di genere se si continua con questo ritmo, e addirittura 217 a livello economico.
L’Italia secondo il Wef crolla in classifica di ben 32 posizioni passando all’82mo posto su 144 Paesi. E pensate che siamo dietro a Paesi come Burundi, Bolivia, Mozambico, Kazakhstan, Mongolia, Uruguay, Uganda, Perù e potrei continuare per molto.
Vi chiederete come sia possibile. Questo indice misura quanta differenza c’è tra uomini e donne in 4 aree fondamentali come economia, politica, salute, formazione. Ciò significa che non importa che le condizioni di salute o del lavoro siano buone o cattive, migliori o peggiori, ma solo se le differenze sono elevate tra uomini e donne e se sono migliorate o peggiorate. Per questo, Paesi come quelli che ho citato, si trovano in una posizione superiore alla nostra in graduatoria: magari presentano peggiori condizioni di salute di maschi e femmine, ma non grandi differenze tra i due sessi.
Il Global Gender Gap Index è stato introdotto nel 2006 e fornisce un quadro dei divari di genere in tutto il mondo. Il Report evidenzia anche una classifica dei Paesi, permettendo un confronto anche tra Regioni e gruppi di reddito. Se analizziamo la graduatoria mondiale, al primo posto si colloca l’Islanda, che detiene il primato da 9 anni, seguono in gran parte Paesi Nordici. In particolare Norvegia e Finlandia. Se questi sono i primi 3 posti nella classifica mondiale, interessante è vedere come si collocano i paesi del G7. La Francia eccelle, ponendosi all’11 posto, seguita dalla Germania, UK, Canada, Usa e, penultima, prima del Giappone, l’Italia.
Ma in quali aree secondo il Global Gender Index l’Italia sta peggio? Nella salute e nella situazione economica. In quest’ultimo caso l’Italia è al 118° posto! Contribuiscono al dato sia la partecipazione bassa al lavoro delle donne che i livelli salariali percepiti, molto più bassi di quelli maschili. Inutile dirlo, lo abbiamo testimoniato dalle pagine di questo giornale, giorno dopo giorno, la questione di genere deve diventare una priorità di questo Paese. Deve rientrare prepotentemente nell’agenda politica dei partiti, proprio ora che siamo vicini alle elezioni. E guardate che non serve più la politica dei piccoli passi.
Ci vuole una vera e propria «spallata». Qualche anno fa fu elevata l’età pensionabile delle donne e si liberò un «tesoretto». Emma Bonino propose di utilizzare tutto il danaro risparmiato per pensioni non pagate alle donne che si trattenevano sul lavoro, in servizi, politiche di conciliazione, politiche sociali volte a intaccare fortemente il carico di lavoro familiare sulle spalle delle donne che limita ingresso, permanenza, e possibilità di carriera. Il «tesoretto» si liberò, ma andò a finire nel calderone e le donne non videro nulla. Bisogna trovare un altro tesoretto. Sì, un tesoretto, perché non servono più i piccoli passi, ormai il problema è diventato strutturale, lo abbiamo fatto diventare tale. Le donne non possono essere più il pilastro del nostro sistema di welfare. Non possono più farcela. Lo dicono i numeri drammaticamente. Non possono sostituirsi come prima all’attività dei servizi sociali e sanitari. Non ne hanno più il tempo. Vogliono lavorare, vogliono realizzarsi su tutti i piani. Vogliono avere i figli che oggi non riescono ad avere, ma che desiderano. Vogliono anche valorizzarsi sul lavoro. E se la politica non riuscirà a capire che questa è una priorità essenziale per il rilancio del nostro Paese, si allontanerà sempre più inesorabilmente dai bisogni delle donne e del Paese. Capisco che è difficile, ma perlomeno poniamoci il problema in termini strategici. Mettiamoci a tavolino per valutare quanto serve, in quanto tempo, per fare che e per raggiungere quali obiettivi. La catena di solidarietà femminile che ha permesso alle donne di aiutarsi a vicenda, madri e figlie, per andare avanti in assenza di politiche di conciliazione adeguate, e sociali, che in altri Paesi sono state messe in atto, si è incrinata. Sempre meno donne devono farsi carico della cura di un numero crescente di persone bisognose siano esse anziani o bambini. Mettiamoci in testa una volta per tutte che non possono farcela. Prima erano solo le mamme acrobate, ora anche le nonne, che lavorano fino ad età più avanzata, si devono fare carico dei loro nipoti e poi se non bastasse anche dei genitori e suoceri anziani non autosufficienti. E’ arrivata l’ora di affrontare alla radice il problema.
Corriere 2.11.17
La temperanza dell’archeologo
Sulla scorta dei pensatori antichi lo storico dell’arte si concede un viaggio filosofico nell’Io in un trattato in forma di dialogo (Utet)
Andrea Carandini esplora le antinomie dell’esistenza in cerca della «vita buona»
di Pierluigi Panza
Sono 142 pensieri allineati come fossero 142 preziosi frammenti dell’antichità da trasmettere alle future generazioni. L’antichista Andrea Carandini, per una volta, ha messo da parte gli strumenti dell’archeologo per dedicarsi a uno scavo nella filosofia. Ha scelto per il suo nuovo libro la formula dialogica di 142 pensieri intorno a un argomento che ricorda quello dei trattati dell’età umanistica sulla «Vita sobria» (Alvise Cornaro) ben descritti nel saggio di Manlio Brusatin Stile sobrio. Breve storia di un’utile virtù (Marsilio).
Carandini, ottant’anni domani (è nato a Roma nel 1937), professore emerito alla Sapienza, presidente del Fai e studioso della Roma dell’VIII secolo ha composto in questo suo Antinomia ben temperata. Scavi nell’io e nel noi (Utet) una sorta di trattatello sulla temperanza. Tutta la vita umana, descrive Carandini, è uno scontrarsi di opposti. Pensiamo, anzitutto, alle emozioni calde, capaci di condensare in un dettaglio un intero mondo da una parte e la ragione fredda, che giudica, distingue, allontana e organizza dall’altra. Pensiamo alla dialettica tra il passato, la conservazione e la tradizione da un lato e la giovanile protensione verso l’impresa e il futuro dall’altro. La vita è fatta di queste antinomie che devono stare insieme, perché l’una senza l’altra non può esistere: «Dal buio viene la visione — scrive Carandini —; dal silenzio il suono; dal non pensabile il pensato, il detto e lo scritto; dal male il bene; dalla morte la vita».
L’antinomia è il principio un po’ schopenhaueriano e un po’ hegeliano che domina il mondo. È una continua e inesorabile compresenza di due entità contraddittorie, opposte, all’interno della cui dialettica l’individuo è chiamato alle scelte. E la scelta è l’atto più difficile, quello che per gli esistenzialisti, Sartre in particolare, gettava l’uomo nell’angoscia del suo esserci; ma è anche l’atto dove l’uomo si distingue dagli animali per l’esercizio di una sua consapevole e coraggiosa libertà. Ma la scelta giusta è accettare l’antinomia, ovvero il dissidio fra il «magma ribollente originario e la luce raziocinante del pensiero», e accettarla attraverso lo strumento della temperanza. Ecco il punto: sulla base del pensiero di Seneca (il padre di Carandini fu traduttore di Seneca) e di umanisti come Leon Battista Alberti o Alvise Cornaro, Carandini suggerisce una strada di mezzo per il raggiungimento di un’ideale «vita buona»: agire con temperanza tra gli opposti. Giusto il contrario, diciamo, di quanto avviene oggi nell’età dell’incessante e dell’eccesso. Ma verso i giovani di oggi Carandini ha una «freddura» di perdono tratta dal suo maestro, Ranuccio Bianchi Bandinelli: «Non si nasce modesti, lo si diventa con l’esperienza».
Il ragionamento sotteso a questo libro, simbolizzabile nell’immagine di un Giano bifronte, è maturato in più decenni anche a partire da un’esperienza personale di analisi con Ignacio Matte Blanco del 1978 ed è sostenuto, oltreché da fonti di pensatori moderni (Kant, per esempio, e la sua idea che «siamo un legno storto», Montaigne e Montesquieu fino a Vito Mancuso), anche da dati di esperienza personale. Antinomia significa accettare gli opposti. «Ciò che noi chiamiamo cattivo — aveva scritto Goethe in Per il giorno onomastico di Shakespeare — non è che l’altro lato del buono». Solo che bisogna agire con temperanza per accettare l’antinomia. E questo significa, anzitutto, saper vivere in un contesto (tema di un precedente libro di Carandini, La forza del contesto , Laterza) e accettare la nostra parte nel mondo agendo con libertà, ma senza abusarne. Ciascuno può contribuire al progresso, ma la tabula rasa , la voglia di iniziare tutto da capo ogni volta, «è all’origine delle brutture» (anche architettoniche e paesaggistiche). «Noi abbiamo il libero arbitrio», ma da usare con temperanza. Temperanza vuol dire estendere la cura che abbiamo per noi stessi agli altri, dosare tradizione e innovazione, identità e trasformazione, otium e negotium (un tema, quest’ultimo, proposto anche da Christine Macel nella Biennale d’arte attualmente in corso a Venezia). Non si può uscire dall’Io verso un SuperIo o verso una dimensione metafisica: bisogna invece coniugarlo con il «noi», anche perché «della vita dell’ego fa parte integrante il contesto paesaggistico e umano in cui si trova». Noi viviamo in una «dimensione etimologicamente religiosa della realtà, in quanto essa rilega gli innumerevoli fogli delle esistenze in un solo libro».
L’antinomia ben temperata è anche un «catechismo» laico e pluralista, una «bi-modalità» contro il monismo che ha caratterizzato nella storia forme di dominio oppure di schiavitù e si pone come uno strumento di accesso, se non alla vita felice, almeno a una buona vita, ovvero fatta di piacere con misura.
La Stampa 2.11.17
Abraham Yehoshua
“La Rivoluzione ha fallito ma alcune sue idee reggono”
Lo scrittore israeliano ebbe una breve esperienza nel kibbutz: “Al contrario del socialismo, il comunismo non può andare d’accordo con la democrazia”
intervista di Francesca Paci
Correvano i tumultuosi Anni 50, Israele aveva visto la luce da poco, il comunismo seduceva come altrove i più idealisti tra i giovani, soprattutto nel movimento kibbutzim. Il grande scrittore israeliano Abraham Yehoshua era un ex militare pieno di sogni civili, segnato dalla Shoah ma proiettato verso il futuro. Dall’appartamento di Tel Aviv, dove ha traslocato per godersi i sei nipoti rinunciando all’amata Haifa, ripensa a quella stagione contraddittoria, una metafora del complesso rapporto tra il suo Paese e l’utopia sociale figlia della Rivoluzione d’Ottobre.
Quanta Unione Sovietica c’è nei primi kibbutz?
«Parte degli ebrei russi, laici e sionisti giunti in Israele prima della rivoluzione e quelli che arrivarono subito dopo riuscirono ad adattare i valori del comunismo alla nuova realtà sociale d’Israele. Non parlo solo dei kibbutz del “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo le sue necessità”, alcuni dei quali sono ancora allineati. Ma penso agli altri, quelli che hanno optato per la privatizzazione e sono rimasti fedeli ad alcune idee socialiste. Fino alla destalinizzazione di Krusciov si consumò un duro scontro ideologico tra i kibbutzim di estrema sinistra che chiamavano l’Urss “seconda patria” e i meno ortodossi. Anche i socialisti israeliani, alla guida del Paese fino al 1977, vedevano positivamente i princìpi dell’Urss nonostante le delusioni avute. Poi, negli anni, con il rafforzamento dei legami tra Israele e l’America, il tema ha diviso i partiti socialdemocratici da quelli più estremisti fino a indebolire i movimenti operai e spianare la strada alla destra nazionalista e religiosa».
Conosce l’esperienza dei kibbutz?
«Appena lasciato l’esercito andai a stare a Hatzerim, nel Negev, un kibbutz di successo ma, secondo lo stile dell’epoca, molto rigido nell’organizzazione interna. Non faceva per me, né sul piano individuale né su quello sociale, ero giovane e volevo studiare, mentre lì la priorità era il lavoro. Durai pochi mesi. Anche il comunismo non mi ha mai sedotto, ho sempre sentito che, diversamente dal socialismo, non poteva andare d’accordo con la democrazia».
Fin quando si è sentito in Israele l’eco della rivoluzione del 1917?
«Sono del 1936 e sin dall’adolescenza ho provato grande ammirazione per l’Urss, l’Armata Rossa ci aveva liberato da Auschwitz e aveva salvato l’Europa da Hitler. La repressione, di cui pure si sapeva, pesava meno. Inoltre negli Anni 50 le democrazie erano poche, l’orrore era “meno orribile”. Avevamo buoni rapporti con l’Urss, il suo sostegno alla nascita d’Israele nel 1947 era stato per noi una sorta di riparazione all’antisemitismo patito in Russia per secoli. All’epoca poi Mosca non s’interessava al Medio Oriente e tra i comunisti si contavano pochi arabi, soprattutto cristiani. Per questo il fatto che all’apice della Guerra fredda il ministro degli Esteri russo Gromyko si spendesse per noi all’Onu servì da base ideologica perché anche il cauto partito comunista palestinese accettasse il piano di spartizione tra ebrei e arabi del ’48».
C’erano molti ebrei tra i bolscevichi, Trockij compreso. Come spiega la successiva ostilità del regime sovietico?
«È comprensibile che gli ebrei russi, vissuti sotto la discriminazione zarista, promuovessero la rivoluzione comunista. L’involuzione successiva ha diverse ragioni. Gli ebrei non erano un popolo territoriale come gli altri, perciò non disponevano di un contesto concreto entro cui integrarsi culturalmente nell’ambito dell’Urss. Erano legati sul piano religioso agli ebrei sparsi nel mondo e recavano dunque a priori quel marchio di cosmopolitismo che divenne presto uno dei reati peggiori. Nel nome dell’oppio dei popoli Mosca fece guerra alle religioni, ma dato che quella ebraica era per molti la base dell’identità nazionale lo scontro fu più aspro. Infine, la chiusura delle frontiere sovietiche gravò doppiamente sugli ebrei dell’Europa orientale che scappavano in Occidente sin dal XIX secolo: quando la Germania invase il Paese si trovarono in trappola. È stato un rapporto duro. Secondo voci affidabili Stalin, prima di morire, progettava una sorta di “soluzione finale”, voleva esiliare gli ebrei in Siberia».
Quando è cominciato l’esodo degli ebrei dall’Urss verso Israele?
«A metà degli Anni 50 ero segretario generale dell’Unione mondiale degli studenti ebrei a Parigi e mi battei perché potessero emigrare. Prima non c’erano informazioni su quanto avveniva oltre-Cortina e gli stessi ebrei russi non volevano partire, non erano sionisti, si sentivano grati all’Urss. Iniziarono ad arrivare intorno al 1960, poi sempre di più. Ma nonostante l’esodo non ricordo critiche nei confronti dell’Urss in Israele, resisteva il mito antinazista, enfatizzammo la causa degli ebrei ridimensionando un po’ gli altri oppressi».
Il passaggio dell’Urss al fronte arabo nel 1967 influenzò l’allontanamento delle sinistre mondiali da Israele?
«Il ’67 cambiò tutto. Ma più dell’Urss, sui partiti comunisti occidentali pesarono l’occupazione israeliana e le colonie. Tra l’altro una parte della sinistra internazionale era sempre stata antisionista, penso a Primo Levi e Natalia Ginzburg».
Cosa resta a cento anni dall’assalto al Palazzo d’Inverno?
«Se il comunismo voleva creare nel mondo un ordine nuovo, ha fallito. Ma se lo esaminiamo come un’istanza ideologica nata per rimediare alla condizione sociale instauratasi in Europa dopo la Rivoluzione francese, beh, allora mantiene un valore. Le idee fondamentali del comunismo, esulando dai Paesi dove hanno imperato come dittatura, reggono. Mi chiedo se rispetto al capitalismo globale e senza limiti, al radicalismo religioso in espansione ovunque o al post-modernismo privo di valori dell’estrema sinistra nichilista, non convenga forse tornare ad alcuni vecchi e umani valori presenti nell’originale solidarismo comunista».
Corriere 2.11.17
Lite per la villa di famiglia psichiatra uccide il fratello
Massa, l’ha investito con l’auto nel parco seicentesco: fermato per omicidio
di Marco Gasperetti
MASSA CARRARA Quella villa, nei secoli simbolo di potere e nobiltà, era diventata un incubo. E, come in un romanzo gotico, aveva avvolto e stravolto la vita e le menti dei proprietari, due fratelli, marchesi per blasone, medici nella vita reale. Dopo un litigio furibondo nel parco dove Elisa Bonaparte amava passeggiare, Marco Alberto Mario Casonato, 63 anni, medico psichiatra e professore di criminologia in Germania, è salito su un furgone Fiat Fiorino ma invece di uscire dal cancello ha premuto forte l’acceleratore e ha investito il fratello Piero Alessandro, 59 anni, medico a Pistoia, uccidendolo sul colpo. Poco dopo è stato arrestato per omicidio.
Una storia atroce quella che si è consumata ieri alle 16.30, a Villa Massoni, storica dimora seicentesca alle porte di Massa, uno dei monumenti più belli e degradati della Toscana del nord. I proprietari dell’immobile, decine di stanze, un parco straordinario, statue, alcove segrete, giochi d’acqua, erano stati rinviati a giudizio per danneggiamento al patrimonio archeologico, storico e artistico nazionale, come previsto dell’articolo 733 del codice penale. Il processo a carico dei due fratelli era iniziato il 4 ottobre e la villa era stata sequestrata. Poi il tribunale aveva deciso di affidarla a uno dei proprietari e aveva scelto come curatore Marco.
Da anni i due fratelli, molto conosciuti a Massa, avevano pareri discordanti sul futuro di quella dimora, una volta appartenuta alla potente famiglia dei Cybo-Malaspina, che i loro antenati avevano acquisito per diritto ereditiero negli anni Venti. «I marchesi non litigavano mai per questioni di eredità — racconta una conoscente — ma per divergenze sul futuro di Villa Massoni». Marco avrebbe voluto iniziare lavori di ristrutturazione, anche per salvare l’immobile dalla confisca del tribunale, Piero invece pare non volesse sentirne neppure parlare e voleva vendere. Dicono che Marco Casonato avesse già tentato di investire con l’auto suo fratello, mentre Piero una decina di anni fa era stato denunciato per possesso illegale di una mitraglietta Makarov calibro 9, tre pistole, un visore notturno, divise militari, 5.400 munizioni e due parrucche.
Marco Casonato è stato ascoltato sino a tarda sera dal magistrato inquirente. È sospettato di omicidio volontario, gli investigatori però sono molto prudenti. Come conferma il procuratore della Repubblica di Massa Carrara, Aldo Giubilaro. «Tutte le ipotesi sono ancora aperte — spiega il magistrato — anche se dai primi accertamenti le indagini sembrano propendere verso l’omicidio volontario. Ma si tratta solo di ipotesi, per ora, che potrebbero essere smentite dai fatti».
Corriere 2.11.17
Nuovo numero A un secolo dalla rivoluzione d’Ottobre, uno speciale della rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais
«MicroMega» rilancia il marxismo eretico
di Antonio Carioti
Eretici libertari contro il dogma totalitario: è la chiave di lettura con cui la rivista «MicroMega», diretta da Paolo Flores d’Arcais, guarda alla rivoluzione russa, a un secolo dalla presa del Palazzo d’Inverno, nel numero in uscita oggi. Nulla a che vedere con i tanti che ancora esaltano la presa del potere da parte dei bolscevichi come un esaltante momento di liberazione degli oppressi, senza riuscire in alcun modo a spiegare da dove poi sia scaturito il regime non propriamente illuminato di Iosif Stalin. Qui invece sono i critici da sinistra dello stesso Vladimir Lenin, a partire da Rosa Luxemburg per passare all’opposizione operaia russa e agli insorti di Kronstadt (massacrati nel 1921 dall’Armata rossa), che riprendono la parola in nome del rifiuto di sacrificare i diritti individuali alla causa del partito onnisciente e onnipotente.
Più discutibile per la verità l’inserimento in questa galleria di Lev Trotsky, fautore del libero dibattito quando era all’opposizione, ma tutt’altro che restio a usare la violenza contro gli avversari politici quando aveva il coltello dalla parte del manico. E ingiusta appare tutto sommato l’esclusione di Nikolai Bukharin, estremista in gioventù e poi passato su posizioni moderate, che in fondo si può considerare il precursore del marxismo riformista (di fatto postcomunista) al quale «MicroMega» rende omaggio con l’articolo di Jacques Rupnik sulla Primavera di Praga e le belle note autobiografiche (inedite in Italia) del dissidente polacco Karol Modzelewski.
Certo, Bukharin si schierò con Stalin per difendere le temporanee aperture al mercato e alle esigenze del mondo contadino della Nep (contrastate da Trotsky), ma poi fu vittima della svolta decisa del despota del Cremlino nel 1929 con la collettivizzazione delle terre. Perché il punto cruciale del fallimento sovietico sta nel fatto che, senza libertà d’iniziativa economica privata, la stagnazione parassitaria e il dominio poliziesco della burocrazia sono inevitabili. Non si vede proprio come una società complessa possa essere governata da consigli operai gestiti da demagoghi infervorati. Il capitalismo presenta molte brutture, ma sopprimerlo ne produce di assai peggiori. I rivoluzionari rievocati da «MicroMega» non lo avevano capito e ne fecero le spese, anche se è giusto onorarne il coraggio e la buona fede.
Repubblica 2.11.17
Cosa ci insegna il film più razzista mai girato
“Süss l’ebreo”, uscito nel 1940 in Germania, è l’esempio più riuscito (e per questo attualissimo) di istigazione all’odio etnico
di Siegmund Ginzberg
Masse di immigrati sporchi, barbuti e cenciosi, con facce torve da far paura, invadono la regione più prospera del Paese. Dilagano in città intonando una canzone beduina. Portano malattie, corruzione, lussuria e criminalità. Ad invitarli è stato uno straniero,
immigrato come loro, un clandestino che si è arruffianato i governanti. È riuscito addirittura a farsi nominare ministro, ha oberato di tasse i locali. Verrà punito a furor di popolo, impiccato dentro una gabbia di ferro, solo dopo l’ennesima malefatta, lo stupro di una giovinetta locale.
Sono immagini dal film Jud Süss (in italiano Süss l’ebreo) di Veit Harlan. Fu uno dei maggiori successi di tutti i tempi sugli schermi tedeschi. Dal 1940 al 1943 ebbe oltre 20 milioni di spettatori. Era stato presentato in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia. «Non esitiamo a dire che, se questa è propaganda, allora ben venga la propaganda… un film di perfetta unità ed equilibrio… di stupefacente maestria l’episodio in cui Süss violenta la ragazza…», scrisse un giovane critico allora ventottenne. Si chiamava Michelangelo Antonioni. In effetti il film è ben fatto. Per molti versi è un capolavoro. Un capolavoro di incitamento all’odio.
Era stato commissionato, anzi prodotto, da Goebbels, il ministro della propaganda di Hitler. E diventò una delle più formidabili promozioni pubblicitarie per lo sterminio. Persuasione di massa, altro che solo letteraria, come le Bagatelle per un massacro di Cèline... Venne proiettato contemporaneamente in una ventina di cinema di Berlino, in centinaia di sale in tutto il Reich. Andare a vederlo divenne obbligatorio per i membri della Gioventù hitleriana, praticamente tutti i giovani tedeschi. E poi in tutte le capitali occupate, e persino in qualche paese neutrale. Venne doppiato in russo e in ucraino. Lo proiettavano anche ad Auschwitz. Per incoraggiare gli aguzzini e distruggere il morale delle vittime. «Dovevate vedere che faccia avevano i prigionieri il giorno dopo!», avrebbe testimoniato al processo svoltosi nel 1961 una delle guardie.
La stampa del Reich aveva istruzioni precise. Il film non doveva essere presentato come propaganda antisemita ma come «rappresentazione oggettiva degli ebrei». Ci tenevano a farlo passare come ricostruzione fedele di fatti storici: l’ascesa, il processo, la condanna e l’esecuzione del consigliere finanziario del duca del Württemberg, a metà Settecento. «Fatti realmente accaduti» pretendevano i titoli di testa. Il film inizia con un fittizia «pagina di storia» su «come l’Ebreo Süss fece ingresso a Stoccarda », aggirando gli antichi divieti di immigrazione. Si prosegue mostrando come poi abbia richiamato una marea di altri migranti, che entrano a Stoccarda «come locuste», intonando il
Canto del cammelliere, melodia composta da un sionista emigrato in Palestina dall’Ucraina.
Processato dopo la guerra, Harlan si difese sostenendo che il suo film non chiamava a sterminare gli ebrei ma “solo” a farli andare via dall’Europa. Goebbels aveva bocciato una prima sceneggiatura, forse perché troppo smaccatamente antisemita. Teneva soprattutto a dare l’impressione di autenticità. Il regista ottenne persino di far arrivare degli ebrei da Praga. Gli servivano comparse con “autentici” tratti da ebreo.
Dei circa 200 reclutati solo uno sopravvisse. Si sarebbe vantato di avere con quelle fisionomie ottenuto effetti «davvero demoniaci ». Erano così consoni allo stereotipo che Goebbels ritenne opportuno far diramare, in occasione della première, un comunicato in cui si precisava che nessuno degli attori aveva «sangue ebraico». Werner Krauss, che interpretava nel film più parti di ebrei e rabbini, si vantò di essere talmente bravo come attore da non dover ricorrere ad un naso posticcio. Fu Goebbels in persona a indicare per il ruolo di Süss il prestante Ferdinand Marian, un seduttore nato, idolo delle spettatrici. Sorvolando sul fatto che aveva sposato (e poi divorziato) da una pianista ebrea, da cui aveva avuto anche una figlia. Il risultato è che per gran parte del film il personaggio additato all’odio non si distingue più per segni esteriori. Dismessi barba incolta, riccioli, il caffetano logoro, la kippà, assume le apparenze di un raffinato gentiluomo di corte. È un immigrato perfettamente integrato. È un ebreo mascherato, quindi più pericoloso. È la riprova della necessità di costringere gli ebrei a esibire la stella gialla.
Un altro dei film della stessa serie antisemita promossa dal Partito nazista, il documentario
Der Ewige Jude, L’eterno ebreo, ricorreva a dati, tabelle, animazioni, sovrapposizioni di migranti e topi immondi, persino filmati girati nel degrado umano dei ghetti della Polonia occupata per illustrare quanto fosse perniciosa l’invasione dell’Europa da parte della razza proveniente dal Medio Oriente. Con qualche ritocco potrebbe passare per un documentario stile Lega su profughi e terroristi di oggi. Jud Süss è un film molto più assassino. Proprio perché fa finta di non essere becero.
Il pezzo forte, come in quasi tutti i linciaggi e i pogrom, è la violenza sessuale perpetrata dallo straniero scuro sulla sua vittima bianca. Nel film lei è interpretata niente meno che dalla nuova moglie svedese del regista, biondissima e con un viso d’angelo. Viene concupita dall’ebreo, si suicida dopo essere stata disonorata. L’introduzione dello stupro è totalmente gratuita. Non c’è in nessun’altra delle circa duecento diverse versioni (in forma di opera letteraria, teatrale, musicale, nonché filmica o radiofonica) precedenti della storia. Ne
L’Ebreo Süss di Lion Feuchtwanger, del 1925, così come nel film britannico dallo stesso titolo che ne fu tratto nel 1934, a morire, mentre cerca di sottrarsi ad un tentativo di stupro da parte del cattolicissimo Duca, è la figlia di Süss. Nel racconto che il romantico Wilhelm Hauff aveva scritto un secolo prima, a suicidarsi, tradita dall’innamorato ariano, è la sorella ebrea di Süss. Stereotipi riguardo gli ebrei abbondano anche in tutte queste altre versioni, ma è Süss la vittima. Vittima dei pregiudizi, dei giochi di potere, del feroce conflitto tra cattolici e protestanti, in cui gli ebrei si trovarono in mezzo come vasi di coccio.
La trovata nazista consiste nel prendere una vicenda autentica, che si presta come poche altre al romanzo, l’impiccagione del consigliere finanziario del Duca del Württemberg nel 1738, e manipolarla per ottenere il massimo di effetto odio. In realtà anche i giudici originali avevano cercato di mettere di mezzo il rapporto proibito tra l’ebreo e donne tedesche (con le leggi razziali naziste di Norimberga sarebbe ridiventato passibile di morte). Ma senza riuscirvi. Tanto che la condanna fu emanata per generica Präpotenz (abuso di potere), non, come pretende in film, in base ad un’antica e dimenticata legge contro i rapporti sessuali tra ebrei e non.
Il film, come altre pellicole naziste, nella Germania di oggi resta proibito. Da noi si trova integrale in internet. Io sono convinto che andrebbe mostrato nelle scuole, come esempio di come si può costruire un linciaggio epocale su fake news.