martedì 21 novembre 2017

Repubblica 19.11.17
Alla Scuola delle Frattocchie
Quando il Pci dava i voti
In mezzo secolo di storia ci sono passati un po’ tutti: tra i banchi Natta, Barca, Tatò e tanti semplici militanti Un libro ora rivela come funzionava il “college” del Pci: pagelle comprese
di Simonetta Fiori

Togliatti quella mattina sembrava furioso: ma cosa era venuto in mente ai compagni della segreteria di intestare la scuola di partito proprio a lui, in buona salute e intenzionato a vivere ancora a lungo? «Non si dà il nome di un vivo a una qualsiasi organizzazione se non per augurargli di morire » , scrisse di getto, non sappiamo se confortato da qualche gesto scaramantico. L’onomastica fu cambiata. Ma certo nessuno poteva immaginare che il neonato college al numero 22 della via Appia, il campus dei rivoluzionari di professione, sarebbe passato alla storia con il nome sommesso del comune laziale, evocativo di terreni impervi o di fritti carnevaleschi piuttosto che di austeri studi comunisti: Frattocchie, il più potente simbolo di pedagogia politica che l’Italia abbia mai conosciuto. Il “tempio delle certezze” rimpianto da penne insospettabili.
E allora bisogna chiedersi perché nella generale liquidazione della tradizione comunista l’unico mito sopravvissuto sia proprio la scuola di partito, palestra frequentata da un milione di militanti, per quasi cinquant’anni luogo di formazione non solo del ceto dirigente ma anche dei cosiddetti apparatchik, “ l’unica burocrazia efficiente e onesta del nostro paese”, scrisse un volta Indro Montanelli. Una leggenda che ancora rimbalza su sponde politiche opposte quando si evocano le “Frattocchie della Lega” o le “Frattocchie di Forza Italia”. E la spiegazione di così tenace durata si può trovare nella sterminata ricerca condotta anche in magazzini abbandonati da Anna Tonelli, pro fessoressa dell’Università di Urbino (
A scuola di politica. Il modello comunista di Frattocchie: 1944- 1993).
Grazie a faldoni mai consultati la studiosa ha colmato una pagina bianca su quella “centrale di educazione collettiva” che ebbe il merito di introdurre alla partecipazione politica moltitudini di analfabeti. La sua indagine ricostruisce un sistema complesso di scuole distribuite in tutto il territorio nazionale — Frattocchie era solo la più famosa — finanziate con centinaia di milioni di lire ( cifre stellari negli anni Cinquanta!) e tenute insieme da un precetto semplice che all’attuale ceto politico potrà apparire oscuro e incomprensibile: “Se vuoi dirigere, devi studiare”.
Nostalgia di Frattocchie? Il sentimento appare fuori luogo, soprattutto se riferito al primo decennio dopo la fondazione — nel 1944 — quando l’alfabetizzazione fa rima con rivoluzione, tra mesti autodafé e iniezioni di dogmi marxisti-leninisti a opera di Pajetta e Grieco. Le materie studiate sono “ rivoluzione proletaria”, “ storia del movimento operaio internazionale”, “ lotta di classe in Italia”. E le pagelle finali — dette anche con termine poliziesco “ cartelle segnalatrici” — non solo valutano il rendimento sui corsi ma anche la pasta caratteriale degli allievi. Il giudizio non viene più affidato al mortificante voto borghese marchiato in cifre ma al grado di profitto esteso da “ottimo” a “insufficiente”, novità destinata a essere copiata dalla scuola di Stato. Tra le varie osservazioni, quello di “mormoratore” resta lo stigma più temuto, scagliato contro i compagni criticoni che seminano maldicenze nei corridoi della scuola.
Tra i banchi spuntano i volti della futura classe dirigente — Luciano Barca, Gabriele De Rosa, Tonino Tatò, più tardi Alessandro Natta, Alfredo Reichlin e Maria Antonietta Macciocchi — ma prevalgono gli anonimi operai dei quadri medi e bassi, quelli che compileranno con accenti commossi il tema di fine corso “Cosa mi ha dato la scuola”. Sono gli anni in cui tutti gli ammessi vengono invitati all’esercizio della critica e dell’autocritica, detta anche “autobiografia orale”: in realtà una penosissima confessione in pubblico da cui anche militanti dall’eroico passato resistenziale escono con le guance umide di lacrime. Rituali severi che ricordano le strategie educative messe a punto secoli prima della compagnia di Gesù, la fede rossa non meno totalizzante di quella celeste.
La scuola di partito però non è solo dogmatismo e obbedienza, ma anche svago e divertimento, tra partite di pallone e concertini di musica alla radio nel lungo dopocena. La scuola è soprattutto la scoperta di un metodo di studio, per cui è “vietato leggere alla maniera dei villeggianti”, “a torso nudo” o in pose scomposte, ma solo rigorosamente a tavolino. Un metodo fondato sul lavoro di gruppo, perché non sono ammesse concessioni all’individualismo borghese. Quella del collettivo è una legge inderogabile, non sprovvista di conseguenze comiche. Come quando il responsabile di un corso per segretari di federazione annota che “il vitto è stato ottimo e abbondante”, tanto che “il peso complessivo dei compagni è passato da 1.309 a 1.363 chilogrammi”. La traduzione plastica dell’uomo sciolto nella massa.
Sui banchi di dottrina politica ci si può anche innamorare, ma con la cautela richiesta dalla morale comunista. Le donne sono ammesse ai corsi, ma solo dopo aver documentato azioni di coraggio sotto il tallone nazista — certificazione non richiesta ai maschi. Miriam Mafai ricordava l’infinita tristezza del collegio femminile di Faggeto Lario, borgo piemontese dalle tinte romantiche, “dove le più temprate delle compagne ebbero acute crisi di malinconia e depressione”. A un certo punto i maschi erano stati separati dalle femmine perché così “ non pesa sulle donne quel senso di inferiorità soprattutto nel campo dei problemi politici”, rileva un funzionario dotato di formidabile sensibilità di genere. Nel 1946 desta scalpore il caso di due giovani donne accusate di “andare in cerca di uomini”, perché disinvolte negli atteggiamenti (“fumano come turche”) e use a “ un trucco pesante”. Troppo sessualmente esuberanti per poter convivere a un piano di distanza con i maschi nella scuola Marabini di Bologna. In fondo “siamo uomini come gli altri”, esclamò il compagno Masetti nella sua requisitoria sulle regole etiche dei seminari rossi.
L’ampliamento di Frattocchie nel 1955 — un progetto a cui parteciparono architetti come Aymonino, Di Cagno, Malatesta e Moroni — fu oggetto di una baruffa dentro il partito. I vertici non apprezzarono lo stile un po’ tetro del nuovo “ casermone” e ordinarono di piantare filari di grandi alberi in modo da nasconderne la vista dalla via Appia. L’atmosfera dentro Frattocchie si sarebbe rivelata tutt’altro che cupa. “ Assomiglia più a un’elegante pensione à la page che a una scuola di quadri politici rivoluzionari”, decretò Carlo Salinari facendosi largo tra i compagni che giocavano a scacchi su colonna sonora di un quartetto mozartiano. Col tempo anche i programmi scolastici perdono il dogmatismo dottrinario delle origini, ma restando ancorati — almeno fino agli anni Ottanta — ai paradigmi teorici del marxismo leninismo. Resiste la triade classica filosofia/ economia/ storia, con l’aggiunta della logica e poi delle scienze.
Per assistere al trionfo di Frattocchie bisogna arrivare alla metà degli anni Settanta, con l’esplosione elettorale del Pci. L’aula magna con il dipinto di Guttuso diventa meta di pellegrinaggio da parte di giornalisti di tutto il mondo. Il tono irridente dei primi tempi cede il passo al mito. Vittorio Gorresio ne elogia “ il tono di civile sobrietà”. Paolo Mieli sull’Espresso la descrive “ sempre più simile a un college statunitense”. Per quelle mura passa una giovane generazione di intellettuali comunisti destinati a occupare ruoli di prestigio nella stampa quotidiana, da Paolo Franchi a Giuliano Ferrara. E alla sua chiusura, nel 1992, non saranno pochi gli addii colorati da un’imprevista nota di rimpianto.
Oggi la scuola di Frattocchie è un edificio abbandonato. Da diversi anni la proprietà è passata alla famiglia Angelucci, molto attiva nell’ambito delle cliniche private. Il suo destino sembra incerto. Resistono là davanti gli alberi piantati mezzo secolo fa per nascondere le brutture, quelli sì indistruttibili. E forse provvidenziali.