sabato 18 novembre 2017

Repubblica 18.11.17
Non solo ricercatori in fuga: preoccupa di più che nei nostri atenei non vuole venire nessuno
Tre regolette per attirare cervelli dall’estero
La mobilità nel Medio Evo era la regola: Anselmo d’Aosta a Bec e Canterbury, Tommaso d’Aquino a Colonia e a Parigi
Anticipiamo l’intervento di Maurizio Ferraris in chiusura del convegno “ Knowledge Based Migration”, oggi a Pavia, Associazione Italiana Alexander von Humboldt
di Maurizio Ferraris

Nel 2001 l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani pubblicava “Cervelli in fuga. Storie di menti italiane fuggite all’estero” (a cura di Augusto Palombini, Avverbi Editore), e l’epoca era caratterizzata da una grandissima enfasi sulla perdita di risorse che il nostro paese aveva a causa di queste fughe di persone altamente qualificate. Recensendo quel libro feci notare che il vero problema
non erano i cervelli in fuga, bensì quelli in gabbia, e quattro anni dopo, dal medesimo editore, con il medesimo curatore, usciva
Cervelli in Gabbia. Disavventure e peripezie dei ricercatori in Italia, dove si narrava delle disgrazie degli italiani rimasti in Italia. La gabbia, però, non è solo uno spazio di costrizione e di illibertà, che impedisce di uscire. È anche un ambiente protettivo che impedisce di entrare, come quelle gabbie di cui si servono i subacquei quando hanno a che fare con gli squali. Questa protezione, nel campo della cultura, è la cosa peggiore che possa capitare. Questa chiusura esiste, eccome, nella nostra università: l’Italia importa calciatori, allenatori, sarti e manager, ma non professori, limitandosi a esportarli. Questa circostanza non deve essere oggetto di futile orgoglio, perché significa che i ricercatori che produciamo sono bravi, ma l’università (e il sistema paese in cui si inserisce) è poco attrattiva, il che – in un settore come il sapere, in cui lo scambio è tutto – costituisce una grande limitazione.
La decadenza italiana nell’Ottocento è provata dal fatto che Nietzsche e Brentano ci vennero, ma solo in pensione (mentre Nietzsche nel periodo attivo era stato un cervello in fuga dalla Germania alla Svizzera). Le cose non sono andate molto diversamente nel Novecento: Karl Löwith è venuto a Roma negli anni Trenta, ma per via delle leggi razziali in Germania, e prima che le leggi razziali italiane lo costringessero a emigrare in Giappone. Come pensare a un’università senza cervelli in gabbia – dove le gabbie sono linguistiche, disciplinari, salariali, e culturali?
Le tre I di berlusconiana memoria – inglese, internet, impresa – si sono rivelate radicalmente insufficienti, perché proponevano un confronto al ribasso tra l’università e il mondo esterno, quasi che quest’ultima dovesse correre dietro alle novità del mondo, mentre un’università senza gabbie dovrebbe essere piuttosto una avanguardia, che anticipa le dinamiche sociali invece che inseguirle. Forse ci sono tre I più sostanziose: internazionalità, interdisciplinarità, inventività.
Internazionalità. La mobilità dovrebbe essere la norma nelle università. Essere un cervello in fuga nel Medio Evo era la regola: Anselmo d’Aosta a Bec e Canterbury, Tommaso d’Aquino a Colonia e a Parigi (beneficiando poi di un rientro dei cervelli a Napoli, nella nuova università voluta da Federico II). E il cosmopolitismo dei docenti corrispondeva a un cosmopolitismo degli studenti, come testimoniano le vie degli irlandesi o dei catalani nel quartiere latino di Parigi. Questa situazione si è mantenuta in vita in America e in Inghilterra, anche grazie alla fuga dei cervelli dalla Germania degli anni Trenta. Ma è interessante notare che oggi in Germania è quasi di prammatica avere un docente americano in un dipartimento di filosofia, per non parlare delle scienze.
E che in Francia una componente impressionantemente alta di docenti e ricercatori è composta da italiani. Persino un paese piccolo e apparentemente marginale come il Portogallo è molto più attrattivo dell’Italia. In Italia l’Erasmus ha fatto molto, e la mobilità, che già adesso è molto più grande che un tempo, deve essere potenziata, non solo tra gli studenti (dove si sono fatti enormi progressi rispetto al passato) ma tra i docenti (dove invece si è tornati molto indietro, perdendo qualsiasi mobilità). Ma come riuscire ad attrarre professori dall’estero? Una buona via sembra essere l’interdisciplinarità.
Interdisciplinarità. In Italia ci sono troppe discipline, molte delle quali inutili e ridondanti. In questo senso, ridisegnare i rapporti tra discipline sta al centro del progetto che stiamo elaborando all’università di Torino: un MIT per le scienze umane che alzi la qualità della ricerca rendendola così attrattiva per gli apporti dall’estero, attingendo ai vincitori di progetti competitivi. Abbiamo di fronte a noi una industria 4.0. Questa circostanza suggerisce che la via che si apre alle discipline umanistiche non è un ritorno al passato, ma piuttosto un ritorno al futuro: è necessario pensare delle humanities 4.0 capaci di interagire con una industria 4.0 e con una scienza 4.0, proprio come, alla corte di Federico II, la ricerca scientifica più avanzata si incontrava con la strategia politica, e i funzionari della cancelleria reale diedero vita anche a quell’altra grande scoperta tecnologica che è il sonetto.
L’industria insomma non è più quella di una volta, ha molto più bisogno dell’università e può trarre un grande vantaggio dal formulare delle azioni comuni con l’università. In un recente incontro il presidente della Crui, Manfredi, ha giustamente osservato che i nostri stipendi non sono attrattivi. È dunque necessario che si creino laboratori di ricerca che ricevono finanziamenti regionali e privati per rendere più interessante a un docente straniero l’idea di venire in Italia, senza con questo creare ingiustizie con i docenti italiani. È a questo punto che diventa cruciale la terza parola, e cioè l’inventività.
Inventività. Cartesio diceva che in filosofia nulla è più importante dell’essere innovatore, e questo vale per l’università, che non deve presentarsi come il vecchio che arranca dietro al nuovo, ma come la sede in cui lo si inventa (ben sapendo che il modo migliore per inventare è ricordarsi del passato proiettandosi verso il futuro). Ma arrancare è facile, inventare è difficile, ed è per questo che occorre la meritocrazia. Roberto Saviano ha scritto che la sola organizzazione meritocratica in Italia è la ‘ndrangheta. Se la fortuna e la buona volontà ci assistono, non è escluso che se ne aggiunga una seconda, l’università. Questo può apparire paradossale, visto che l’università, nella percezione pubblica, è associata a una serie di neologismi: parentopoli, esamificio, fabbrica di disoccupati, su su sino ai “baroni”. Come uscire dall’impasse? Rispondendo a criteri semplici. Gli abilitati alla docenza universitaria sono tutti uguali? No.
Siamo continuamente giudicati, con criteri che potrebbero essere migliori, ma che intanto ci sono. Bisogna migliorare i criteri, ma, sia sulla ricerca sia sulla didattica, sarebbe meglio che fossero pubblici, mentre ora, per un malinteso senso della privacy, vengono comunicati solo agli interessati. Così come sarebbe opportuno introdurre delle valutazioni ex post, per rimediare a errori di reclutamento che altrimenti ci si porta dietro per tutta la vita. È possibile che a questo punto qualcuno (e mi ci metto io per primo) si senta inadeguato, che non è un sentimento bellissimo, ma è comunque preferibile al sentirsi parte di una casta arretrata e screditata.