sabato 18 novembre 2017

Repubblica 18.11.17
Un male corrode la democrazia lo chiamano “lupaggine”
Gherardo Colombo e Gustavo Zagrebelsky definiscono in questo modo la corruzione in “Il legno storto della giustizia”, un libro in forma di dialogo
di Liana Milella

IL LIBRO Il legno storto della giustizia di Gherardo Colombo e Gustavo Zagrebelsky (Garzanti, pagg. 173, euro 16). Domenica Colombo presenta il libro a Bookcity (Milano, Palazzo Clerici, ore 18,30)

«Eretici». «Fuori linea ». «Sovversivi ». Da una parte il costituzionalista che preferisce essere chiamato solo “professore” sia che scriva di diritto, sia che fustighi duramente la politica, di destra e di sinistra, nelle sue dannose riforme. Dall’altra l’ex magistrato che ormai da dieci anni, dopo Mani pulite, percorre l’Italia spiegando ai ragazzi cos’è la Costituzione, convinto che da lì si debba partire per ristabilire la legalità.
Gustavo Zagrebelsky e Gherardo Colombo insieme, in un botta-risposta disteso lungo un intero libro — Il legno storto della giustizia (Garzanti) — uniti da un comune punto di partenza, proprio quell’articolo della nostra Carta per cui tutti i cittadini «hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge ». Grande voglia di democrazia dunque, ma funestata da un super veleno, radicato, diffuso, una gramigna inestirpabile, la corruzione.
Ve ne sono ormai tanti di libri che ne parlano, la descrivono, forniscono cifre, suggeriscono modelli, ipotizzano gli strumenti giusti per combatterla e sbarazzarsene. Ma la corruzione è lì, pronta a essere impietosamente svelata da un’indagine giudiziaria che puntualmente turba il pre e il post elezioni. Zagrebelsky e Colombo non hanno dubbi sulle ragioni della corruzione. Fotografano l’uomo «ingordo», colui che «riesce a impadronirsi del patrimonio di un altro e l’aggiunge al suo, così fa due, ed essendo cresciuto potrà mangiarne altri due, e così fa quattro, e poi otto, e poi sedici e così via». È il meccanismo della «lupaggine». È la voglia di potere. Di essere visibili e visti. Quella che fa dire alla gente che ti incontra «ti ho visto in televisione », come se quell’attimo di visibilità e notorietà potesse
La libertà rovesciata diventa schiavitù
rappresentare una svolta, l’uscita dall’anonimato, già di per sé l’affermazione di un potere.
Dall’ingordigia alla corruzione il passo è breve. Chiede Colombo: «L’ingordigia non è solo un male in sé, ma è anche una distorsione dell’anima?». Replica Zagrebelsky: «Non solo distorsione dell’anima, ma rovesciamento della libertà in servitù. Non c’è bisogno di essere un Rousseau per comprendere che il denaro che si possiede (ma anche il potere e la fama che si possiedono) è strumento di libertà, ma quello che si insegue è strumento di schiavitù». Colombo ricorda come, sulla facciata del palazzo di giustizia di Milano, sia scritto in rilievo «honeste vivere, alterum non laedere et suum cuique tribuere» (vivere onestamente, non recare danno ad altri, attribuire a ciascuno il suo), motto scritto negli anni Quaranta dello scorso secolo, evidentemente incompatibile con la teoria dell’ingordigia e della “lupaggine” che Colombo e Zagrebelsky descrivono.
Che cos’è, dunque, la corruzione? Peggio di un velenoso diserbante. «La chiamano corruzione perché corrode» scrive Zagrebelsky, che fotografa l’erosione distruttiva della democrazia, perché «la corruzione produce decomposizione dell’ordine legale e ne ricompone un altro, illegale, che tende a generalizzarsi e a stabilizzarsi crescendo e moltiplicandosi». La corruzione si legittima, diventa Stato, «perfino con le sue istituzioni ». Si parte con una semplice raccomandazione, si finisce per creare «un ordine diverso e alternativo». E la legge che fine ha fatto? Che frutti hanno avuto le pur tante inchieste della magistratura negli ultimi trent’anni? La legge sta lì, sul crinale tra «la pulsione predatoria e la difesa delle prede dai predatori». Ma Colombo, dopo una vita spesa a fare il pubblico ministero — sua, con Giuliano Turone, la scoperta della loggia P2 di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi — ammette che «in alcune zone d’Italia l’ordine e la sicurezza sono garantiti più dalla mafia che dallo Stato» e che durante Mani pulite «siamo stati a volte raggirati da chi, per proteggere il giro della corruzione, per garantire sicurezza alla massa di corrotti e corruttori, ci
Ma in fondo, che fine ha fatto la legge?
svelava il cinque per cento di quel che sapeva e copriva tutto il resto».
Forse, par di capire, il dialogo tra Zagrebelsky e Colombo non finisce qui, potrebbe proseguire ancora. Certo è che questo primo capitolo vive di pessimismo. Quello che fotografa l’Italia del «giro di potere», per usare la definizione di Zagrebelsky, che Colombo traduce con «cultura», il giro di potere della corruzione, la cultura della corruzione. Per rappresentarla con un esempio, è l’Italia del vigile urbano che tutti i giorni beve il caffè gratis al bar e non mette la multa alle auto piazzate lì davanti in divieto di sosta. L’Italia di Pasolini del 14 novembre 1974: «Io so. Ma non ho prove. Non ho nemmeno indizi ». L’Italia in cui il potere, di fronte alle accuse, replica: «Fuori i nomi».