venerdì 17 novembre 2017

Repubblica 17.11.17
Quella sinistra divisa da programmi e poltrone
di Piero Ignazi

BASTAVA forse una telefonata per evitare il probabile disastro della sinistra alle prossime elezioni. Una telefonata ben prima di quelle che sta compulsivamente facendo Piero Fassino in questi giorni. Per evitare la scissione che ora, in vista delle elezioni, tanti danni adduce al Pd, forse bastava quella chiamata che Renzi non volle mai fare, come rivelò Delrio. A risentire l’intervento del segretario alla direzione Pd del febbraio scorso, quella che provocò la fuoriuscita dei bersaniani, non ci sono dubbi sulla sua volontà di liberarsi di fastidiosi oppositori. Quando disse che non era disponibile «a subire ricatti », cioè a ridiscutere la linea politica, era evidente che o l’opposizione mangiava quella minestra — Jobs act, Buona scuola, riforma costituzionale, e tutto quanto era stato fatto nei mille giorni — o saltava dalla finestra. E Renzi nemmeno si curò di intervenire con una replica, attesa dalla minoranza prima di decidere l’uscita. Meglio farli accomodare fuori.
Adesso affiora qualche timido ripensamento. Perché l’isolamento del Pd non è più circonfuso dagli allori del 40% ma oscurato dal rischio di una brutale sconfitta. Per questo si porgono (ipotetici) ramoscelli di ulivo ai fuoriusciti. Certo, ritrovare un terreno di intesa otto mesi dopo lo strappo è impresa ardua che nemmeno il volenteroso e tenace Fassino riuscirà a portare a termine. Non solo per la distanza tra le posizioni ma, più semplicemente, perché mancano gli “incentivi” per l’Mdp.
L’altro giorno, il segretario ha scandito chiaro e forte che di «abiure» non se ne fanno. Tutto è andato per il verso giusto: solo la sfortuna o qualche accidente astrale ha prodotto il declino precipitoso dei consensi del Pd. Sembra che nessuno dalle parti del Nazareno si sia accorto della perdita di Regioni e città capoluogo, del 37% di votanti in Emilia-Romagna, della chiusura a ripetizione delle feste dell’Unità, del declino degli iscritti, e, per finire, della batosta storica in Sicilia. Di fronte a questo spettacolo di rovine (il 25% bersaniano del 2013 rischia di essere un sogno, l’anno prossimo), qualche riflessione autocritica — non abiure galileiane, per carità — sarebbe stata utile a riallacciare il dialogo. Invece, l’orgoglio prevale.
E quindi una ipotetica alleanza è declinata solo in negativo: una
union sacrée contro il nemico alle porte. Ci si affida al comune sentimento di alterità rispetto alla destra e ai grillini. Come incentivo non è granché. Se allora lasciamo da parte il richiamo sentimentale e identitario, e ragioniamo invece in termini di costi e benefici, per quale motivo l’Mdp dovrebbe aderire all’alleanza?
Per rispondere a questo interrogativo scendiamo sul “concreto”, e cioè sulla assegnazione delle candidature. In base al nuovo sistema elettorale l’Mdp da solo, con tutta probabilità, non eleggerebbe nessun deputato o senatore al maggioritario (forse due o tre, al massimo), ma al proporzionale con un 5% porterebbe alla Camera una pattuglia di una ventina di parlamentari (e una dozzina al Senato). Qualora si alleasse con il Pd, per avere garanzia di una rappresentanza analoga, dovrebbe ottenere dai democratici una adeguata presenza in collegi sicuri al maggioritario, e il primo posto in circoscrizioni altrettanto sicure al proporzionale. Il Pd dovrebbe sacrificare legioni di suoi eletti, anche perché non c’è solo l’Mdp da accontentare: altri alleati minori vorranno la loro parte, così come l’opposizione interna. Un bagno di sangue per il partito e la maggioranza renziana in particolare. È plausibile tutto ciò?
A questo ostacolo — di bassa lega se vogliamo, benché tutt’altro che irrilevante — si aggiunge poi la necessità di una intesa politico- programmatica. Il fossato tra il blairismo fuori tempo dei renziani e il (tentativo di) recupero di una identità di sinistra classica da parte degli scissionisti è andato allargandosi sempre di più. La frattura ideologica è profonda e la ricomposizione non è alle viste. Il partito maggiore, il Pd, ha tutte le ragioni nel voler mantenere il punto. Ma se insiste nell’orgoglio dei “mille giorni” del governo Renzi, rischia di finire nei “cento giorni” di Napoleone: con l’esito che sappiamo, a Waterloo.