Repubblica 17.11.17
Quella sinistra divisa da programmi e poltrone
di Piero Ignazi
BASTAVA
forse una telefonata per evitare il probabile disastro della sinistra
alle prossime elezioni. Una telefonata ben prima di quelle che sta
compulsivamente facendo Piero Fassino in questi giorni. Per evitare la
scissione che ora, in vista delle elezioni, tanti danni adduce al Pd,
forse bastava quella chiamata che Renzi non volle mai fare, come rivelò
Delrio. A risentire l’intervento del segretario alla direzione Pd del
febbraio scorso, quella che provocò la fuoriuscita dei bersaniani, non
ci sono dubbi sulla sua volontà di liberarsi di fastidiosi oppositori.
Quando disse che non era disponibile «a subire ricatti », cioè a
ridiscutere la linea politica, era evidente che o l’opposizione mangiava
quella minestra — Jobs act, Buona scuola, riforma costituzionale, e
tutto quanto era stato fatto nei mille giorni — o saltava dalla
finestra. E Renzi nemmeno si curò di intervenire con una replica, attesa
dalla minoranza prima di decidere l’uscita. Meglio farli accomodare
fuori.
Adesso affiora qualche timido ripensamento. Perché
l’isolamento del Pd non è più circonfuso dagli allori del 40% ma
oscurato dal rischio di una brutale sconfitta. Per questo si porgono
(ipotetici) ramoscelli di ulivo ai fuoriusciti. Certo, ritrovare un
terreno di intesa otto mesi dopo lo strappo è impresa ardua che nemmeno
il volenteroso e tenace Fassino riuscirà a portare a termine. Non solo
per la distanza tra le posizioni ma, più semplicemente, perché mancano
gli “incentivi” per l’Mdp.
L’altro giorno, il segretario ha
scandito chiaro e forte che di «abiure» non se ne fanno. Tutto è andato
per il verso giusto: solo la sfortuna o qualche accidente astrale ha
prodotto il declino precipitoso dei consensi del Pd. Sembra che nessuno
dalle parti del Nazareno si sia accorto della perdita di Regioni e città
capoluogo, del 37% di votanti in Emilia-Romagna, della chiusura a
ripetizione delle feste dell’Unità, del declino degli iscritti, e, per
finire, della batosta storica in Sicilia. Di fronte a questo spettacolo
di rovine (il 25% bersaniano del 2013 rischia di essere un sogno, l’anno
prossimo), qualche riflessione autocritica — non abiure galileiane, per
carità — sarebbe stata utile a riallacciare il dialogo. Invece,
l’orgoglio prevale.
E quindi una ipotetica alleanza è declinata solo in negativo: una
union
sacrée contro il nemico alle porte. Ci si affida al comune sentimento
di alterità rispetto alla destra e ai grillini. Come incentivo non è
granché. Se allora lasciamo da parte il richiamo sentimentale e
identitario, e ragioniamo invece in termini di costi e benefici, per
quale motivo l’Mdp dovrebbe aderire all’alleanza?
Per rispondere a
questo interrogativo scendiamo sul “concreto”, e cioè sulla
assegnazione delle candidature. In base al nuovo sistema elettorale
l’Mdp da solo, con tutta probabilità, non eleggerebbe nessun deputato o
senatore al maggioritario (forse due o tre, al massimo), ma al
proporzionale con un 5% porterebbe alla Camera una pattuglia di una
ventina di parlamentari (e una dozzina al Senato). Qualora si alleasse
con il Pd, per avere garanzia di una rappresentanza analoga, dovrebbe
ottenere dai democratici una adeguata presenza in collegi sicuri al
maggioritario, e il primo posto in circoscrizioni altrettanto sicure al
proporzionale. Il Pd dovrebbe sacrificare legioni di suoi eletti, anche
perché non c’è solo l’Mdp da accontentare: altri alleati minori vorranno
la loro parte, così come l’opposizione interna. Un bagno di sangue per
il partito e la maggioranza renziana in particolare. È plausibile tutto
ciò?
A questo ostacolo — di bassa lega se vogliamo, benché
tutt’altro che irrilevante — si aggiunge poi la necessità di una intesa
politico- programmatica. Il fossato tra il blairismo fuori tempo dei
renziani e il (tentativo di) recupero di una identità di sinistra
classica da parte degli scissionisti è andato allargandosi sempre di
più. La frattura ideologica è profonda e la ricomposizione non è alle
viste. Il partito maggiore, il Pd, ha tutte le ragioni nel voler
mantenere il punto. Ma se insiste nell’orgoglio dei “mille giorni” del
governo Renzi, rischia di finire nei “cento giorni” di Napoleone: con
l’esito che sappiamo, a Waterloo.