Repubblica 17.11.17
La dimensione della saggezza
di Alberto Melloni
«UN
SUPPLEMENTO di saggezza» davanti alla morte intesa come la soglia
collocata fra due vite: quella che tutti conosciamo e quella che nessuno
conosce (e che per i cristiani è rischiarata solo dal mistero di Gesù
Risorto). Così con due sostantivi molto importanti Francesco è
intervenuto con un messaggio alla Pontificia Accademia per la Vita su
una questione che in Occidente vede confrontarsi posizioni serie e
divergenti, troppo spesso contornate dalla faciloneria di chi pensa di
poter roteare la propria clava ideologica nella cristalleria
dell’esistenza.
Come in tutti i suoi interventi Francesco comprime
in un pensiero disadorno una complessità che è facile sottovalutare: in
ciò che dice e firma c’è sempre l’istinto evangelico dell’uomo di fede,
la delicatezza del governo pastorale, perfino un pizzico di astuzia
politica. Ed è per questo che le sue parole forniscono un riferimento
essenziale nel marasma intellettuale e civile di questo tempo.
Proviamo a distinguere allora gli strati di questo intervento dalle conseguenze decisive.
Francesco è intervenuto su una
vexata
quæstio. Sul tema del fine- vita il magistero s’era progressivamente
chiuso. Pio XII aveva smontato con coraggio l’idea che il dolore del
malato avesse un valore intrinseco e aveva ammesso (lo cita Francesco
nel suo messaggio di ieri) che «non c’è obbligo di impiegare sempre
tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili » e «in casi ben
determinati, è lecito astenersene». Con il suo stesso corpo, poi, papa
Giovanni aveva insegnato che il cristiano non ha il problema del
fine-vita, ma quello di vivere la morte. Senza disumani eroismi e senza
sconti aveva insegnato il senso di una antica espressione (il «pio
transito»), con una esemplarità episcopale. Poi un Papa come Wojtyla,
venuto dalla teologia morale, aveva affrontato lo spostamento del
confronto ideologico dal terreno della vita sociale a quello del corpo:
la “bioetica” aveva così fatto leva su una categoria chiave — la “vita” —
che aveva permesso di mettere sullo stesso piano la battaglia contro le
leggi sull’aborto e sull’eutanasia. Il catechismo degli anni Novanta
aveva così conservato l’idea che esistono «procedure mediche onerose,
pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati
attesi»: ma s’era limitato a dire che la loro interruzione «può» essere
legittima; e nella formula della difesa della vita «dal suo concepimento
» alla sua «fine naturale » il magistero romano aveva trovato con
Ratzinger la linea di resistenza a quella «esaltazione individualistica »
che secondo il Papa bavarese era la chiave della «dittatura del
relativismo». Francesco ha segnato un cambio di passo e ieri ha posto il
problema del vivere la morte come un diritto morale: non dice che «si
può» interrompere una cura; dice che «c’è» una decisione che «si
qualifica moralmente come rinuncia all’accanimento terapeutico».
Nel
prendere posizione il testo del Papa ricorre a due espressioni — una di
Bergson e una di Maritain — divenute familiari al magistero romano del
Novecento: una è quella del “supplemento” e l’altra quella della ricerca
di una dimensione “integrale”, care a Paolo VI. Davanti alla modernità e
soprattutto alla modernità tecnologica che chiamiamo post-modernità,
non propone una sterile mitragliata di condanne ma la convinzione che
ciò che sembra minacciare la dottrina della chiesa può essere una
occasione per il Vangelo.
Il “supplemento” che chiede (e qui viene
la politica) non è di etica, ma di “saggezza”. Non dunque il ricorso a
un meccanicismo morale o moralistico, ma la sapientia cordis che sa che
anche le dimensioni etiche devono essere misurate sapendo che dietro
ogni parola c’è il mistero della esistenza. Quella che insegna che il
cammino verso la soglia della morte va vissuto senza poetizzarne
l’angoscia e che la morte non “migliora” se viene rateizzata da una
tecnologia capace di spezzettarla in mille frammenti di degrado e di
sofferenza, ridotti alla banalità, quando non alla volgarità, delle
macchine e delle morali.
Sono infatti agghiaccianti i lessici
prevalenti: da un lato espressioni atroci come “staccare la spina”
dall’altro il travestimento poetico della “dignità” del morituro. Come
se bastassero macchine o volontà a dirimere l’incontro con Sorella
Morte. Perciò se il cattolicesimo darà a questa discussione un
contributo “di saggezza” non farà poco: e non farà poco anche per la
politica italiana.
In questo momento nel Parlamento italiano il
dibattito sul fine- vita o il suo rinvio alla campagna elettorale
potrebbero infatti prestarsi a un gioco molto visto e molto praticato in
età ruiniana: cioè lasciare a disposizione delle destre la gestione di
“valori” o “principi”, rigorosamente estrapolati dal loro humus
spirituale, trasformati in bandiere ideologiche, che però possono essere
agitati nella propaganda elettorale e nella dinamica parlamentare.
In
queste cose — l’inedia ecclesiastica davanti alla resistenza alfaniana
in materia di Ius soli lo dimostra — arrivare tardi può voler dire non
arrivare a nulla. Così la lettera papale sul «supplemento di saggezza»
fissa un paradigma: e lo fa a una tale distanza dalle elezioni che tutti
potranno giurare di non aver minimamente pensato alla situazione
italiana, ma di aver solo pensato a questioni generalissime, che toccano
il mondo intero.