giovedì 16 novembre 2017

Repubblica 16.11.17
Perché la lezione del Nobel francese è ancora così attuale
Albert Camus e l’amore ai tempi della peste
di Paolo Di Paolo

Poche frasi mi hanno colpito di più — da lettore, da persona — di quel «Niente è inutile» con cui Camus conclude le pagine scritte a difesa di un proprio saggio filosofico, “L’uomo in rivolta”. Non è un dispensatore di certezze, ma di dubbi. Non è l’artista seduto, ma non è nemmeno quello blindato in un impegno ideologico. Non è un bugiardo. «Tutti, prima o poi, e
noi stessi, sentiamo. Si forgia allora qualcosa, la nostra coscienza comune sulla quale si costruiranno, un giorno, le opere di ciascuno, sulle quali ciascuno sarà giudicato».
Un romanzo come La peste — scritto da un Camus poco più che trentenne, negli anni Quaranta — andrebbe letto con questa frase nelle orecchie, senza badare troppo alle interpretazioni allegoriche che, nel tempo, ne sono state offerte. Prendete una città e prendete la peste che la assale. Prendete gli uomini e le donne di quella città. La città si chiama Orano, non è bella, è «priva di intuizioni ». È una città banale. Uno degli uomini che la abita, una mattina di metà aprile, inciampa in un topo morto. È il primo segno. La situazione, giorno dopo giorno, non fa che peggiorare. «La morte del portinaio — scrive Camus — si può dire che segnò la fine di quel periodo pieno di segnali inquietanti e l’inizio di un altro periodo, relativamente più difficile, nel quale la sorpresa dei primi tempi si trasformò via via in panico».
La peste è arrivata. La peste è un fatto. Prendetela alla lettera: la malattia infettiva di origine batterica. Il romanzo di Camus ne segue l’evoluzione affidandosi agli occhi di un medico, il dottor Rieux — non superstizioso, non affrettato, uno che semplicemente cerca di capire. Basterebbe questo: il suo sforzo di lucidità di fronte alla tragedia. Il modo in cui registra e interpreta le reazioni altrui, come un radiografo di stati d’animo — li analizza a uno a uno, coglie le oscillazioni fra il panico e la speranza, fra attaccamento alla vita, alla libertà e paura. E ancora: mette a fuoco i progressivi, e dolorosi, assestamenti per cui ciò che sembrava riguardare solo gli altri comincia a riguardare anche noi. D’altra parte, «un uomo morto ha un peso solo se qualcuno l’ha visto morto, per l’immaginazione cento milioni di cadaveri disseminati nella storia sono soltanto fumo». Quando non è più qualcosa che riguarda soltanto l’immaginazione, la peste esiste davvero.
Non c’è un solo tratto, nell’ampia gamma di emozioni che una catastrofe muove negli umani, non contemplato da Camus: una superiore gentilezza, un disincanto o un principio di resa, i cattivi sentimenti e i cosiddetti buoni, la fiducia nel cielo, l’ancoraggio alla terra. Il commerciante Cottard, per esempio, sembra cambiato: da uomo chiuso e silenzioso, «un po’ con l’aria della bestia selvatica», si è aperto, cerca di conciliarsi con le persone, di farsi benvolere da tutti. La peste, adesso, riguarda chiunque: rende più visibile il nodo fra i destini dei singoli, mette in luce la capacità di resistenza al dolore, fa sentire esiliati a casa propria. «Ciascuno dovette accettare di vivere alla giornata, e solo di fronte al cielo. Questa diserzione generale poteva alla lunga temprare i caratteri, ma sulle prime li rese vulnerabili ». Non so aggiungere niente di intelligente, non una frase, allo splendore dell’intelligenza — intelligenza per ciò che concretamente significa: la capacità di leggere nelle cose — che ogni pagina di questo romanzo manifesta. Posso però indicare un fenomeno invisibile che Camus, nella Peste, riesce a rendere visibile. Come fosse un macchinario dai congegni misteriosi, mette davanti ai nostri occhi l’ostinazione umana. Il macchinario sbuffa, si raffredda, si scalda a dismisura, pare essersi spento, poi riparte all’improvviso.
Come funziona? Da cosa viene alimentato? Si potrebbe forse leggere La peste come un manuale d’istruzioni, una raccolta dati, astratta e concreta allo stesso tempo. Non è la macchina dell’eroismo: di quella, Camus non si fida. Preferisce l’onestà. È la macchina che rivela una verità semplice: due più due fa quattro, partiamo da questo; la peste c’è, il male c’è. Alcuni non riescono a vederlo. Alcuni lo negano. C’è anche un particolare tipo di «nuovo moralista» convinto che sia tutto inutile e che bisogna mettersi in ginocchio. Poi, ci sono gli altri. I «cuori straziati ed esigenti», i consapevoli, sicuri che due più due fa quattro e che «in una maniera o nell’altra, bisognava lottare e non mettersi in ginocchio»: «L’essenziale era cercare di impedire al maggior numero possibile di uomini di morire e di conoscere la separazione definitiva. E il solo modo per farlo era combattere la peste. Non era una verità grandiosa, era solo una verità coerente». La macchina dell’ostinazione umana non si nutre di una speranza astratta, ma di «urgenza generosa », di slancio, di sollecitudine che — appena viene narrata con tono «da epopea o da encomio» — acquista qualcosa di retorico, di fasullo. Il linguaggio della retorica, quello da cui il dottor Rieux è irritato, perché è un linguaggio che non può applicarsi, per esempio, «ai piccoli sforzi quotidiani di Grand, un linguaggio che non poteva rendere conto di che cosa significava Grand nel bel mezzo della peste». Che cosa significa ciascuno di noi. Che cosa significano le voci «sconosciute e fraterne» che provano da lontano — «goffamente » — a offrire la loro solidarietà, ma dimostrano anche l’insufficienza, «l’impotenza di ogni uomo nel condividere davvero una sofferenza che non può vedere ». Non c’è altra risorsa — pensa il medico, pensa Camus — che amare e morire insieme. La macchina dell’ostinazione mette in moto anche i rassegnati e i vigliacchi, li convince, li rende migliori delle loro parole.
La macchina dell’ostinazione lavora di più nelle città appestate, ma non è mai inerte, nemmeno nel cuore di quelle che paiono sane. Avanza in senso contrario al disincanto, fende e talvolta dissolve la sua nebbiolina insopportabile, contraddice il cinismo ironico di chi tiene le braccia conserte, l’aria spavalda di quelli che la sanno lunga. Guadagna metri onestamente («Farà magari ridere, come idea, ma il solo modo di lottare contro la peste è l’onestà»), e se il buio della tragedia è più fitto, anche ciecamente — l’ostinazione cieca che nell’angoscia rimpiazza perfino l’amore. Ma non si arrende, fa quello che può: le sue vittorie sono provvisorie, sì, saranno sempre e solo provvisorie. Ma nell’«interminabile sconfitta» di ogni peste non trova mai un motivo buono per smettere di lottare. Non contempla l’orizzonte del «voi», ma solo quello del «noi». Non fugge dall’inaccettabile. Resta nell’inaccettabile, ci salta dentro, lo traduce nello spazio che sempre ci è offerto per fare una scelta.
Anticipiamo un brano dal nuovo libro di Paolo Di Paolo, Vite che sono la tua. Il bello dei romanzi in 27 storie ( Laterza, pagg. 224, euro 16) da oggi in libreria