Repubblica 15.11.17
L’enigma primordiale che incanta gli studiosi
La storia della civiltà incomincia grazie al dono di Prometeo
di Marco Belpoliti
La
legna tagliata e accatastata a fine estate ora arde nella stufa.
L’inverno non è ancora arrivato, tuttavia abbiamo già acceso il fuoco.
Ogni volta che getto un pezzo di legno nella stufa penso a cosa deve
essere stata la vita dell’umanità prima. Prima che il fuoco diventasse
una fonte di calore, d’illuminazione e strumento di nutrimento. Secondo
Catherine Perlès, autrice di “Preistoria
del fuoco” (Einaudi), già
all’epoca della glaciazione di Mindel, 450mila anni fa, alcuni uomini
mantenevano il fuoco nelle loro abitazioni. Come se l’erano procurato?
Oggi è facile, basta comprare i fiammiferi in una qualsiasi tabaccheria
(anche se non tutte vendono più i cosiddetti “svedesi”). Ma come hanno
fatto i nostri progenitori a ottenerlo? Veniva ricavato da fonti
naturali o era prodotto artificialmente? Tre sarebbero state le fasi
dell’ancestrale rapporto dell’uomo col fuoco: in un primo tempo gli
uomini non sarebbero stati capaci di padroneggiare quello provocato da
fulmini, e ne avevano gran paura; poi hanno imparato a raccoglierlo e ad
alimentarlo, senza però riuscire a produrlo; nella terza fase, infine,
400mila anni fa, sono stati in grado di far scaturire il fuoco ogni
volta che serviva loro.
Senza il fuoco non saremmo sopravvissuti, e
non avremmo avuto la ceramica, la prima arte secondo Lévi-Strauss, e
neppure la fusione dei metalli. In breve: niente civiltà. Siamo figli
del fuoco, come ci ha spiegato in modo poetico e filosofico, Gaston
Bachelard nella sua Poetica del fuoco.
L’uomo si differenzia dagli
animali solo il giorno in cui diventa padrone del fuoco; lo fa, come ci
rammenta il mito di Prometeo, a spese degli dèi, poiché il fuoco è di
natura divina (James G. Frazer, Miti sull’origine del fuoco,
Xenia).
Se anche noi siamo divini, lo dobbiamo perciò al fuoco. Tuttavia la
cosa più interessante che ci spiegano i paleontologi è che la scoperta e
l’utilizzo del fuoco presuppone non un progresso tecnico, bensì
psichico. L’Australopiteco possedeva già i mezzi necessari per usare il
fuoco (fuochi spontanei, conservazione e produzione), però non sembra
avesse, scrive Perlès, la struttura mentale per sfruttarli. Questo
scarto si crea nella percezione del rapporto tra percussione o
confricazione e produzione del fuoco. Lo scatto è avvenuto lì, nella
testa dei nostri progenitori; poi la questione diventa puramente
tecnica. Spesso ci dimentichiamo che le scoperte umane sono prima di
tutto l’effetto di un progresso psichico e solo dopo di un fatto
tecnico, il computer come il fuoco. Su come l’hanno prodotto i nostri
antenati ci viene in soccorso un libro curioso: Fire. L’arte delle
fiamme (Piemme) di Daniel Hume. Hume è un esperto di sopravvivenza in
zone selvagge, uno di quei curiosi personaggi che cercano di
ripercorrere il cammino dell’umanità reinventando i metodi perduti per
cui siamo quello che siamo. Appassionato del fuoco da ragazzo, come
racconta, è stato in giro per il mondo, dall’Africa all’Asia e
all’Oceania, per scoprire come le tribù sopravvissute nelle foreste di
quei tre continenti si procurano ancora oggi il fuoco. Mentre sto
scrivendo giro le spalle alla stufa dove brucia un ciocco di legna che i
miei vicini hanno tagliato e io ho stoccato sotto il portico nel mese
di settembre. Ho da poco finito di leggere il libro di Hume, seguito
naturale del libro di Lars Mytting,
Norwegian Wood (Utet). Mentre
il libro di Mytting era un libro centripeto, fondato sulle pratiche di
taglio e accatastamento della legna, questo di Hume è invece centrifugo:
ci porta in giro per il mondo all’inseguimento dei sei metodi
fondamentali attraverso cui l’umanità è stata in grado di produrre
fiamme quando e dove voleva. Anche se non si è stati scout, tutti
conoscono il metodo del piolo a mano, e quello del trapano ad archetto,
sua variante: frizionare un legno su un altro legno, possibilmente
asciutto, e avere un’esca di paglia o foglie per raccogliere il fuoco.
C’è
uno strano connubio di ontogenesi e di filogenesi nel percorrere con
Hunt, narratore vivace ed entusiasta, i metodi dei cosiddetti
“primitivi”, metodi che ci riportano all’infanzia dell’umanità, ma anche
alla nostra (o mia), quando accendere il fuoco era un bisogno
insopprimibile: non si diventava adulti senza aver fatto questa prova,
fosse anche con la lente e il sole (settimo metodo, non antico però).
Siamo tutti degli incendiari, potenziali discepoli di Erostrato: è il
complesso del fuoco di Bachelard.
Gli altri metodi sono: quello
dell’aratro, sempre usando legno; della sega, simile; della cinghia, sua
variante; e quello del pistone pneumatico, il più curioso. La base di
tutto è strofinare, frizionare e agitare un legno con un altro legno,
salvo il caso di accendere il fuoco con le scintille provocate dal
percuotere una pietra con un’altra (ottavo metodo). Hume è un tipo
pratico e va al sodo. Non si pone il problema di cosa sia per noi il
fuoco. Forse non ha neppure letto il libro della Perlès, o l’altro bel
volume di Johan Goudsblom, Fuoco e civiltà (Donzelli editore); e neppure
si pone la questione che ha coinvolto Richard Wrangham, docente di
Antropologia biologica a Harvard, in L’intelligenza del fuoco (Bollati
Boringhieri). Questi ha dimostrato come la cottura del cibo abbia
modificato l’umanità nel corso di migliaia di anni, problema che neppure
Darwin aveva esaminato. Wrangham ha concluso che noi, Homo Sapiens,
siamo sopravvissuti perché abbiamo cominciato a cuocere il cibo.
Eppure
un fascino un po’ selvaggio (e ingenuo) il libro dell’esperto di
sopravvivenza Hume ce l’ha. Adesso che l’ho letto, in caso d’improvviso
collasso della civiltà, so come accendere un fuoco. Naturalmente spero
di non dovermi mai trovare nelle condizioni del protagonista de La
strada di Cormac McCarthy. Mai dire mai.