Repubblica 15.11.17
Il saggio di Massimo Recalcati svela le nuove forme di un rituale antico: dalla jihad alla finanza globale
Così spezzeremo le false catene del sacrificio
Contro il sacrificio di Massimo Recalcati (Raffaello Cortina, pagg. 140, euro 12). Da domani in libreria
di Roberto Esposito
Il
rilievo determinante del sacrificio nella storia umana è stato
riconosciuto dall’intera tradizione antropologica, religiosa,
filosofica. Sigmund Freud e Norbert Elias, Elias Canetti e René Girard,
Marcel Mauss e Georges Bataille, pur da angolature diverse, hanno
collocato la logica sacrificale alla base della civilizzazione umana. Il
sacrificio è la porta stretta,
la soglia simbolica, che gli
uomini hanno dovuto varcare per distaccarsi dal comportamento animale —
di per sé estraneo alla dinamica sacrificale perché del tutto aderente
alla dimensione naturale. Diversamente dall’animale, per il quale il
desiderio non si distingue dal bisogno, l’uomo sperimenta il limite e la
mancanza, conosce la potenza della lacerazione, sa tenere a freno le
proprie pulsioni. Tagliata dal negativo, la sua vita resta così
inscritta nel cerchio del sacrificio.
Ma quale sacrificio? E
sacrificio di cosa? Che vuol dire sacrificare? A rispondere a queste
domande decisive, con l’intensità di un’intelligenza libera da
pregiudizi di scuola, è adesso Massimo Recalcati nel suo ultimo libro
Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, edito da
Cortina. Evitando ogni riduzionismo, egli penetra nella scatola nera
dell’economia sacrificale, distinguendo due tipi di sacrificio — uno
simbolico e l’altro fantasmatico. Mentre il primo, implicito nel
linguaggio umano, è in grado di potenziare la nostra esperienza, perché
la ritaglia secondo profili e scelte personali, il secondo comprime la
vita fino a soffocarla. Ne prosciuga la linfa e appiattisce lo spessore,
assoggettandola a qualcosa — un’alterità tirannica — che impone il
proprio dominio incondizionato. Come il cammello di cui parla Nietzsche
in Così parlò Zarathustra, l’uomo si sottomette all’idolo che egli
stesso ha creato, secondo una dinamica perfettamente spiegata da Étienne
de La Boétie ne suo trattato sulla servitù volontaria. E non distante
da quella analizzata da Reich nei suoi studi sul desiderio di fascismo
da parte delle masse ipnotizzate dal potere.
È una sindrome
tutt’altro che superata, ai cui estremi vi è da un lato l’abietto
sacrificio omicida e suicida del terrorismo jihadista; dall’altro
l’economia finanziaria che funziona accumulando debito nei confronti di
creditori sempre più anonimi. Naturalmente un abisso separa queste due
modalità del paradigma sacrificale contemporaneo. Ma a unirle, nella
distanza, è il medesimo presupposto teologico-politico che solo un
sacrificio senza fine possa liberare l’uomo da una colpa che lo
marchierebbe fin dall’origine. Ecco perché, persino oggi, quando non si
sacrificano più vite umane, e neanche animali, sugli altari, il
sacrificio continua a permeare sordamente la nostra esistenza. Non solo
quando la consegniamo, nuda, all’ineluttabilità di una Legge che non
perdona. Ma anche quando cerchiamo nella trasgressione di questa, a
favore del puro godimento, la via della liberazione. Anche il godimento
senza limiti parla, per contrasto, il linguaggio della Legge —
sostituendo il dovere di godere a quello di soffrire. Come ha sostenuto
in un celebre seminario Lacan, la carne offerta alla violenza del
godimento di Sade è perfettamente speculare al corpo mortificato
dall’imperativo ascetico di Kant.
In ognuno dei casi la Legge è
presupposta — o per ubbidirle ciecamente o per rovesciarla nel suo
apparente contrario. Nella dinamica psicotica, d’altra parte, il
masochista ha bisogno del sadico e viceversa. Anche chi rivolge verso se
stesso il sacrificio della vita imposto agli altri — come il terrorista
suicida — risponde a un’economia sacrificale che immagina di guadagnare
un premio superiore a ciò che perde. In quel caso il sacrificio diventa
non lo strumento per raggiungere il fine agognato, ma l’oggetto finale
della pulsione.
A questo dispositivo capillare e implacabile,
capace di ruotare su se stesso mostrando sempre nuovi volti, Recalcati
oppone una diversa concezione del sacrificio. Essa non passa per la sua
rimozione — il negativo è ineliminabile dalla vita umana perché
costitutivo di essa — ma per la sua disattivazione. Alla sua fonte,
oltre e dentro la pratica analitica, vi è una diversa interpretazione
del cristianesimo, orientata dai testi di Kierkegaard e Bultmann, capace
di ripensare anche l’enigma sublime della Croce. C’è, nel saggio di
Recalcati, qualcosa che va anche aldilà della narrazione, già
innovativa, di René Girard. Non solo Cristo, assumendolo su di sé, pone
termine alla storia violenta del sacrificio vittimario. Ma si pone
all’esterno della semantica sacrificale.
Accogliendo la versione
di Luca, che esclude il termine “sacrificio” dall’offerta di sé di Gesù
agli uomini — «questo è il mio corpo che è dato per voi», si comprende
il significato più pregnante della formulazione rivoluzionaria di Paolo,
secondo cui Cristo ci ha liberato dalla maledizione della Legge. Non
rinnegandola, ma assumendola nel suo significato affermativo, vitale,
generativo. Anziché contrapposta al desiderio, la Legge — l’unica che
non è imposta dall’esterno perché espressiva del nostro linguaggio —
coincide in ultima analisi con esso. È legge del desiderio. Quella,
diceva Lacan, su cui non dobbiamo cedere. Solo essa è degna di
un’esistenza libera di esistere. Come scriveva Jean-Luc Nancy in un
passo scelto a esergo del libro, «la verità dell’esistenza è di essere
insacrificabile. L’esistenza non è da sacrificare, e non la si può
sacrificare. La si può solamente distruggere, o condividere».