martedì 14 novembre 2017

Repubblica 14.11.17
A chi resta in mano il cerino del Nazareno
di Stefano Folli

NEGLI anni migliori della Prima Repubblica i politici avevano una qualità: conoscevano in genere l’arte della retorica e sapevano come infiocchettare i loro discorsi, così che anche le banalità, i tatticismi e l’assoluta assenza di novità sembravano avere un lato suggestivo, qualcosa di inedito. Nella stagione attuale, invece, non ci si preoccupa dei dettagli.
IL LEADER dice in fretta quello che deve dire, comunica lo schema politico da seguire e poi lascia che il dibattito si sviluppi e si concluda nel più breve tempo possibile, specie quando c’è la partita della nazionale in televisione.
Così è andata ieri pomeriggio con la Direzione del Pd. Tutto secondo la sceneggiatura prevista. L’apertura ai possibili alleati di centro e di sinistra “senza veti né paletti” (come dire: vale anche per i bersaniani secessionisti). L’implicita ammissione che il Pd non può far tutto da solo. Di conseguenza, l’appello all’unità “contro le destre e i populismi” nel solco già aperto da Veltroni. La difesa dei risultati ottenuti nei famosi mille giorni del governo Renzi, ma senza troppa iattanza e con l’ammissione che molto resta da fare. L’incarico a un esponente storico (Piero Fassino) di avviare le trattative, anche correggendo qualcosa nella legge di stabilità. Nessuna esplicita e convincente investitura di Gentiloni come premier anche nella prossima legislatura.
Tutto senza fronzoli: semplice e veloce, forse troppo. Lo scopo è triplice. Primo, mantenere compatto il Pd, comprese le correnti di Franceschini, Orlando ed Emiliano: risultato di fatto raggiunto, benché il ministro della Giustizia si sia astenuto con i suoi. Secondo, coinvolgere gli alleati possibili, vale a dire i centristi di Alfano (e oggi anche Casini), nonché i laici di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova e naturalmente la sinistra ragionevole di Giuliano Pisapia. Terzo, isolare l’alleato impossibile, ossia il gruppo Bersani- D’Alema, cercando di indebolirlo e soprattutto di lasciargli in mano il cerino del “no” definitivo. In modo che si possa poi usare contro di esso l’argomento del “voto utile” (vedete che rifiutano l’unità e vogliono impedire al Pd di sconfiggere Berlusconi e Salvini?).
Sotto questo aspetto la Direzione non ha offerto alcuna novità. Sia i temi sia le modalità erano stati anticipati più volte da Renzi. L’ammissione che un uomo solo al comando non è sufficiente risale addirittura al periodo successivo al referendum del 4 dicembre, quando Renzi si era ritirato per due o tre settimane nella sua casa di Pontassieve. Gli unici nuovi elementi derivano dalla legge elettorale, che rende opportuna la ricerca di qualche alleato, e dalla sconfitta in Sicilia, che ha accentuato la sensazione di isolamento del Pd e del suo leader.
Per il resto, resta da capire in che termini può realizzarsi un eventuale accorpamento con gli europeisti di Della Vedova-Bonino e i “progressisti” di Pisapia. Un conto sarebbe un’intesa un po’ alla spicciolata, senza un preciso impegno sul programma, e un altro sarebbe un accordo più ambizioso come quello che sia Pisapia sia Emma Bonino vorrebbero. Un accordo capace di cambiare in parte il profilo del centrosinistra sui temi sociali e sui problemi legati all’integrazione degli immigrati. La seconda opzione avrebbe in sé un’eco — solo un’eco — dell’antico Ulivo prodiano. Non a caso qualcuno vorrebbe che fosse un esterno al Pd, magari lo stesso Prodi, a gestire la definizione e la messa in opera di questa alleanza. Sarebbe un modo per innalzarne il livello, andando oltre il “renzismo”. Ma non sembra che esistano le condizioni. Renzi offre, sì, un’alleanza, ma sotto il controllo stretto del Nazareno. E infatti il negoziato è affidato a una figura autorevole come Fassino, oggi molto vicino alla segreteria.
Quanto ai bersaniani, come pure a Fratoianni e Civati, il loro problema oggi non è aderire a un’intesa irrealistica con Renzi, quanto evitare di essere marginali come una “cosa rossa” di nostalgici. Il modesto risultato siciliano di Fava non è un segnale incoraggiante. La leadership di Grasso, discutibile per come ci si arriva, serve proprio a questo: a stemperare il rosso antico e stabilire un avamposto in grado di dare qualche dispiacere ai renziani. I prossimi mesi diranno chi ha più filo da tessere.