Repubblica 13.11.17
“Noi torturati nelle prigioni libiche” Ecco la foto del lager dei migranti
In
sette sono riusciti a fuggire e ai magistrati di Palermo hanno
raccontato l’incubo del Ghetto di Sabha. Nell’inchiesta è finita anche
la prima immagine scattata lì dentro
Alessandra Ziniti Francesco Patane’
Il carcere è gestito dai feroci miliziani al comando del misterioso “generale Alì”
La
foto della “stanza delle torture” nella prigione libica di Sabha, in
Libia. È stata scattata da uno dei migranti superstiti e finita
nell’inchiesta contro il “generale Alì”, ritenuto il capo dei
trafficanti di uomini
PALERMO. «Era una grande stanza
alla quale si accedeva attraverso un’unica porta, due finestre e un solo
bagno per più di cinquecento persone. Ci alzavamo in piedi, poi ci
sedevamo, uno con le spalle sulle gambe dell’altro, in fila,
rannicchiati. Ogni giorno, a turno, chi veniva chiamato doveva alzarsi e
veniva torturato davanti a tutti mentre uno dei carcerieri scattava
foto e telefonava ai familiari e faceva sentire loro in diretta le urla
strazianti per poi chiedere il riscatto per la liberazione ».
Eccola
la foto che, per la prima volta, porta fuori dal Ghetto di Sabha,
incubo e terrore di ogni migrante che entra in Libia, tutto l’orrore
delle violenze che vengono inflitte dai feroci miliziani al comando del
misterioso “generale Alì”. Il capo dei trafficanti al quale ora, grazie
anche alle coraggiose testimonianze di sette delle vittime del campo di
prigionia riuscite poi ad arrivare in Italia, la Dda di Palermo sta
dando la caccia. «Riuscire anche solo ad individuare il generale Alì in
Libia, è un’impresa — dicono i sostituti procuratori Geri Ferrara e
Giorgia Spiri — contiamo molto sulla collaborazione dei nostri servizi
di sicurezza».
La foto consegnata agli inquirenti da uno dei
migranti sopravvissuti a mesi di detenzione è il punto di partenza della
caccia all’uomo coordinata dal procuratore aggiunto Marzia Sabella.
Hamed Bakayoko, uno dei migranti che nei mesi scorsi hanno riconosciuto
in un centro di accoglienza in Italia due dei loro carcerieri ora
arrestati e sotto processo — è fermo nel suo cammino di collaborazione
con la giustizia italiana. «Nel mio paese ho studiato legge — dice — e
una volta arrivato a Lampedusa, sapendo che la tortura è condannata
universalmente, sono stato io a fare la prima denuncia alla polizia ».
Impossibile,
per chi era in quello stanzone, dimenticare la scena ritratta in quella
foto. «Quando volevano picchiarci ci riunivano tutti quanti, poi
prendevano la persona che volevano torturare e iniziavano il pestaggio.
Questo ragazzo, disperato con le mani tra i capelli, aveva cercato di
scappare, è stato ripreso ed è stato picchiato violentemente e poi è
morto».
Il dominus incontrastato del ghetto degli orrori è dunque
il generale Alì che adesso ha finalmente anche un volto. Isaac Yallai,
nigeriano, lo descrive così: «È arabo, ha i capelli molto lunghi e
cammina come se avesse avuto un incidente, piegato in avanti. Non so che
età abbia, non è sicuramente giovane, non vecchissimo ».
Alì vive
in una villa sulla collina che guarda il ghetto, una vera e propria
fortezza al limite del deserto difesa da filo spinato e miliziani armati
di kalashnikov. I prigionieri sono stipati in quattro sezioni, tre per
gli uomini e una per le donne, torturati fino allo sfinimento, costretti
a chiedere alle famiglie riscatti fino a cinquemila euro per tornare in
libertà. Qualcuno, come Efods Idehen, si è salvato così: «Stavo molto
male, gli ho detto che non avrei potuto continuare a rimanere in quel
posto, loro mi hanno coperto con delle lenzuola e mi hanno buttato
nell’immondizia». Qualcun altro è stato costretto ad assistere
all’omicidio del fratello e a chiamare in viva voce i genitori per
chiedere altri soldi implorando di pagare il riscatto almeno per la sua
liberazione. «Quel ragazzo aveva solo 16 anni, lo hanno legato sia mani
che piedi e hanno cominciato a picchiarlo violentemente fino a quando
non è morto e poi lo hanno buttato fuori dalla finestra. Poi hanno fatto
chiamare il fratello per parlare con la madre chiedendo altri soldi».
C’è
un orrore indelebile negli occhi di questi coraggiosi sette migranti
sopravvissuti che, con fermezza, hanno ripetuto i loro tremendi racconti
in aula a Palermo, a porte chiuse, di fronte a due dei loro carnefici,
tra cui quello soprannominato “Rambo”, un vero e proprio gigante che gli
agenti di polizia penitenziaria sono costretti a sedare per gestire le
sue continue esplosioni di rabbia in carcere e che hanno riconosciuto in
un drammatico incidente probatorio.
Era lui, in particolare, il
carceriere che sottoponeva le donne a stupri e violenze. «Le ragazze —
racconta Hamed Bakayoko — non avevano scelta. Non avevano accesso al
cibo e l’unico modo per poter mangiare era “dormire” con lui». Le più
“fortunate” venivano scelte da Alì in persona, portate fuori dal campo e
costrette a rapporti sessuali negli alberghi di Sabha, poi “vendute”
come prostitute.
Si muore picchiati fino allo sfinimento ma a
centinaia, soprattutto donne e bambini, entrati nel ghetto e non
“riscattati” muoiono di fame. Efods ne ha visti tanti: « Ci davano
soltanto due cucchiai di pasta al giorno, quindi c’erano persone che
morivano di stenti».