Repubblica 13.11.17
Alle radici del mal di sinistra
di Tommaso Cerno
LA
SINISTRA si gioca oggi, come l’Italia di mister Ventura, la
qualificazione al campionato politico di primavera. Si presenta in campo
priva di un progetto per il Paese e soprattutto di una visione del
mondo. Si presenta divisa e pronta a dare la colpa all’arbitro. Si
presenta all’indomani di una scissione che ha spento il nucleo del
progetto democratico. Fatica a trovare un collante capace di rimettere
insieme i cocci sparsi sul terreno progressista. Al punto che alla
vigilia della direzione del Pd che fa da spartiacque fra la legislatura
che si spegne e i riflettori della campagna elettorale che si accendono,
sono intervenuti — allo scadere, come si dice in gergo — Romano Prodi e
Walter Veltroni, abiurando il voto di starsene fuori dalla contesa che,
bluffando un po’, avevano fatto entrambi. Segno che la situazione si è
davvero messa male.
VA PREMESSO che Matteo Renzi dal palco non
farà un discorso epico, farà un discorso prevedibilissimo. Conterrà
un’apertura non formale a sinistra, nessuna abiura su ciò che il Pd ha
fatto finora, non imporrà tuttavia agli altri partiti di giudicare buone
quelle scelte. Toglierà infine di mezzo la questione della sua
leadership nel futuro governo e, in perfetta tradizione italiana,
attenderà i commenti. Al termine del suo intervento, ognuno potrà
leggere ciò che ha detto come meglio gli comoda. E ne ascolteremo delle
belle. Tutto e il contrario di tutto. Ne deriva che la decisione da
prendere — se si tenterà davvero di creare una coalizione allargata,
capace di respingere l’avanzata delle destre oppure si deciderà di far
passare la Svezia, cioè di arrendersi alla sconfitta — dipende da altro:
è una scelta sostanziale che la sinistra, nelle sue mutazioni, deve
maturare dentro di sé pensando solo al futuro del Paese e non al
proprio. Per farlo, deve porsi una domanda su cosa sia diventata.
Cosa provoca questo mal di sinistra, la sensazione cioè di non saper più penetrare l’animo dell’Italia e del mondo?
Tre ragioni.
La
prima ragione è di natura politica: mentre il nazionalismo si fa
globale e diventa uno dei motivi politici più potenti del pianeta dai
paesi ex-socialisti dell’Unione europea, all’Inghilterra della Brexit,
gli Usa di Trump, la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan, l’India di
Modi, la sinistra rinuncia — più ancora della destra — alla dimensione
internazionale. Si richiude dentro i confini della Stato-nazione che
contesta, si provincializza mentre fuori marciano populismi e forze
antisistema che arruolano milioni di cittadini in tutto il mondo. È uno
scherzo della storia che la forza internazionalista per definizione
rischi l’estinzione proprio quando i confini non esistono più. Ma basta
ascoltare il dibattito per capire che è così. Perfino quello sulle
migrazioni dall’Africa, la questione più difficile del secolo appena
iniziato, è declinato all’interno dell’Italia. Si parla solo di leggi,
di riforme vuote, di emendamenti e di mozioni. Come se all’improvviso la
sinistra fosse diventata un Bignami di amministrazione pubblica e non
un pensiero che sogna un mondo migliore.
La seconda ragione è di
natura culturale: la sinistra italiana, divisa in cento correnti
autodefinitesi tutte riformiste e che si distinguono solo dalle virgole
nei comunicati stampa, non è più di sinistra. Non perché Renzi sia un
moderato o un destrorso contaminato dalla stima del Cavalier Berlusconi,
ma perché ha assunto una visione di se stessa che è animata dagli
stessi fantasmi che animano la restaurazione culturale di questo tempo.
Se ci riflettiamo la stessa idea della frontiera da chiudere, lasciando
fuori gli “altri”, che anima la xenofobia e l’odio del terzo millennio,
attingendo a uno dei cardini del nazionalismo storico, e che si dovrebbe
combattere, è identica al virus che ha avvelenato la sinistra italiana:
il desiderio di chiudersi in un’area più stretta dove tutti si
somigliano. Una specie di mito della razza pura in politica. Un modo
democratico per odiare l’altro.
La terza ragione è di natura
pratica: a sinistra ormai tutti mentono sapendo di mentire. Prendiamo il
surreale dibattito sulla riconferma di Ignazio Visco a Bankitalia.
Renzi ne contesta l’operato, opinione legittima, ma viene criticato per
il “poco senso dello Stato”, l’uomo solo al comando che si fa beffa del
tempio istituzionale per eccellenza, rischiando di lordarne il marmo.
Tutto giusto. Ma perché allora nessuno si è alzato a contestare quando,
in pochi giorni, i presidenti di Camera e Senato hanno deciso per
ragioni politiche di dismettere le vesti istituzionali e candidarsi alla
guida di nascenti partiti della Nouvelle Gauche all’italiana? Eppure,
storia repubblicana alla mano, si tratta della prima volta. Non era mai
capitato.
La sinistra va in campo così, appunto come l’Italia di
Ventura. Pensando a sostituire l’allenatore e non a vincere la partita.
Primitiva ed elementare, in questo sì simile al nazionalismo di destra
che a parole vorrebbe sconfiggere.