Repubblica 12.11.17
Dopo la sconfitta in Sicilia e l’affondo di Prodi: dividersi i seggi uninominali Renzi pronto ad aprire sul lavoro
La grande trattativa
Allo studio accordi a sinistra nei collegi per battere le destre e l’onda populista
di Goffredo De Marchis
ROMA. Dopo il grido di allarme raccolto da
Repubblica, il Professore lo cercano tutti. Perchè “copra” e sostenga questa difficile operazione.
La
prima mossa tocca a Matteo Renzi, che domani riunisce la direzione del
Pd. Il segretario ha parlato a lungo con Dario Franceschini e Andrea
Orlando, i ministri che spingono per un’alleanza con tutti dentro. Gli
ha garantito alcuni passi indietro rispetto alla strada
dell’autosufficienza: «Proporrò un accordo significativo e strutturato
anche a Bersani. Non parlerò più dei mille giorni e dei provvedimenti
del mio governo. Parlerò di quello che si può fare non di quello che è
stato fatto». A partire dal Jobs Act: «Senza abiure, ma se si vuole
ragionare di cosa non ha funzionato facciamolo. Per esempio: sui
contratti a tempo indeterminato, che devono ancora crescere». Questa è
la “cornice” di cui Franceschini discute con i suoi interlocutori. Con
Renzi prima di tutto. La linea del ministro della Cultura è chiara: «A
destra hanno trovato il modo di parlare a mondi diversi, di fare
campagne diverse, di presentare candidati premier diversi, ma, nei
collegi, di sommare i voti anzichè sottrarseli a vicenda. Noi possiamo
fare lo stesso». I leader si stanno sentendo. Intanto dentro il Pd
perchè la direzione si tiene tra poche ore. C’è la possibilità di un
voto unanime sulla relazione del segretario, se contiene le aperture
promesse. Ma c’è anche il rischio concreto di una rottura se torna l’eco
di imprese solitarie, di un Renzi alla Macron. A quel punto le
minoranze di Orlando e Michele Emiliano presenteranno un loro documento
(già pronto) di critica alle politiche renziane degli ultimi anni. «Per
distinguere nettamente le responsabilità», dicono gli orlandiani.
Il
governatore pugliese viene descritto sul piede di guerra o meglio, di
nuovo con un piede fuori dal partito. Per lui è difficile resistere alla
calamita di Piero Grasso, collega magistrato e amico. I due si
telefonano continuamente. Spesso è il presidente del Senato a chiamare
Emiliano per chiedergli come muoversi nel mare ondoso della politica,
ben diverso da quello delle istituzioni. Ed Emiliano lo guida: «Hai
sbagliato con quella dichiarazione sul Pd», gli ha detto l’altro giorno.
Come
spiega Parisi ad Affari italiani, l’accordo tecnico nei collegi può
diventare qualcosa di più concentrandosi sui tratti comuni: la politica
europea, l’immigrazione, lo ius soli, i diritti civili, l’ambiente. La
“cornice”. Lasciando fuori i punti di contrasto. Eppoi si reggerebbe
sulla convenienza, diciamo la verità. Per questo Renzi non crede che
sarà domani la giornata decisiva, però entro due settimane la situazione
sarà sotto gli occhi di tutti. «Quando ciascuno, noi compresi - dice un
renziano - si farà due conti sulle chance di vittoria collegio per
collegio». Con l’obiettivo di fermare quelli che nei suoi colloqui
privati Renzi chiama i «barbari» riferito ai leader non agli elettori.
Di bloccare l’ascesa di Beppe Grillo e Matteo Salvini.
Il
segretario giura che ci proverà. Facendosi poche illusioni. La
coalizione più realistica, nel quartier generale renziano, viene
confinata ai nomi di Emma Bonino e Giuliano Pisapia «che con Bersani e
D’Alema non andrà mai». Le reazioni pubbliche di Mdp in effetti
continuano a essere gelide. «Archiviare il renzismo», dice Roberto
Speranza. Richiesta irricevibile a Largo del Nazareno. Vasco Errani,
parlando con gli amici, non è meno severo: «Il sistema era tripolare, ma
adesso i poli sono due e mezzo. E il mezzo è la sinistra. Non c’è
politicismo che tenga, non bastano gli appelli a fermare i populisti.
Bisogna riprendere i voti e ci vogliono atti concreti. Questo è un
problema molto più grande di un tavolo di trattativa per i collegi ». Ma
un tavolo è necessario, se c’è la volontà di parlarsi. E se il problema
non è solo ed esclusivamente la sorte di Renzi, come pensano tanti nel
Pd. «Noi indicheremo un metodo di lavoro e un percorso. Per provare a
fare tutti un passo avanti », dice il vicesegretario Maurizio Martina.
Senza guardare indietro. Modello centrodestra, come sottolinea
Franceschini. In quel campo chi parla più di uscita dall’Euro o della Le
Pen, le bandiere leghiste? «La partita ce la giochiamo solo se stiamo
insieme. Altrimenti è cupio dissolvi », avverte Francesco Boccia,
vicinissimo a Emiliano.
Il filo è sottile e si può spezzare da un
momento all’altro per molti motivi. Renzi, nemmeno una settimana fa, ha
rilanciato l’obiettivo 40 per cento e il Jobs Act 2. Ovvero, porta in
faccia a Mdp. Bersani e D’Alema sanno che la loro ragion d’essere è
distinguere politiche e leadership dal Pd renziano. Come collante, resta
il pericolo della destra e dei grillini, così plasticamente dimostrato
dal voto in Sicilia e a Ostia. In più c’è l’allarme di molti mondi, a
cominciare da quello cattolico di base. Basta andare in molte parrocchie
per scoprire quanto sia attrattiva la storia umana di Piero Grasso e
quanti dubbi ci siano sugli avversari del centrosinistra. I padri
nobili, da Prodi a Veltroni a Enrico Letta, sono pronti a intervenire ma
solo se si apriranno degli spiragli reali, se i “figli” mostreranno di
avere a cuore la famiglia unita. La loro parola è in grado di superare
le rigidità dei vari campi. Non farà presa su D’Alema e Fratoianni
forse, ma non lascerebbe indifferente Pierluigi Bersani. L’accordo per
stare uniti nei collegi è tutto da costruire. Ma se gli ambasciatori si
parlano, il tentativo rimane in piedi.