Repubblica 12.11.17
L’UOMO SOLO AL COMANDO NON BATTE I POPULISMI DI MASSA
EUGENIO SCALFARI
DEBBO
cominciare l’articolo politico che intendo scrivere con una citazione
di Freud ricordata di recente sul nostro giornale da Massimo Recalcati.
«L’uomo non è padrone nemmeno a casa propria». Ma perché non è padrone?
Perché è certamente alle prese con l’ingovernabilità tra la sua vita e
la sua coscienza. L’Io dovrebbe impedirla e spesso questa
ingovernabilità viene risolta, ma l’Io a sua volta è un vigilante
vigilato: da un lato vigila sulle sue passioni, buone o cattive che
siano, e dall’altro le festeggia anche lui ed anzi ne accresce la
potenza. Così le passioni diventano sempre più irruenti e rendono la tua
coscienza verso il tuo prossimo e verso te stesso sempre più fragile.
Questo è il problema. È politico? Sì è anche politico, anzi lo è
soprattutto perché la politica è il confronto tra il pubblico e il
privato, tra gli interessi particolari e quello generale.
Noi
italiani ed anche noi europei siamo giunti ad un punto in cui quel
confronto è diventato generale. Gli esempi più evidenti li danno in
questa fase l’Italia e la Germania dal punto di vista della
governabilità. L’Italia avrà probabilmente, dopo le elezioni del 2018,
tre partiti maggiori di pari forza, che non saranno in grado di
stabilire alleanze e questo complica ulteriormente il problema.
La
Germania ha già avuto le elezioni e la conseguenza è stata quella di un
taglio totale della sinistra: la Merkel rappresenta il centro ed è
alleata con la destra.
SEGUE A PAGINA 25
NIENTE di male, può
accadere ed è infatti accaduto più volte, ma c’è un’aggiunta da fare:
nella situazione attuale aumenta il populismo. L’unico vero vincitore in
tutta Europa è il populismo, con la sola eccezione della Francia dove è
stato duramente sconfitto. Germania, Spagna, Italia e insieme a loro
gran parte dell’Europa dell’Est sono dominate dal populismo nelle sue
varie forme che costruisce per accrescere la sua influenza sul popolo
(cosiddetto) sovrano.
Il nostro populismo è ultra-trionfante. Se
si guarda al referendum costituzionale dell’anno scorso, esso registrò
il massimo dell’affluenza come non si era mai vista da molti anni e il
massimo dei No, alcuni dei quali furono espressi da personaggi di
rilevante autorità culturale, a cominciare da Mario Monti, o da
rappresentanti della sinistra dissidente, ma a dir poco il 70 per cento
dei No fu votato da persone che avrebbero votato contro qualsiasi
referendum proposto da partiti costituzionalmente riconosciuti.
In
fondo la sostanza di quel referendum, al di là di imperfezioni
(numerose) si basava su un punto di notevole importanza: il passaggio da
un Parlamento fondato su due Camere a una Camera unica, come avviene in
tutti i Paesi democratici dell’Occidente.
Se dal referendum vinto
dal populismo passiamo all’esame politico del campo attuale troviamo il
populismo in tutta la destra: quella di Berlusconi ha le
caratteristiche del grande attore di teatro che però impersonava
qualunque personaggio e recitava qualunque testo, comico o drammatico
che sia, ma l’attore è sempre lui e piace ad un pubblico molto numeroso.
Un altro populista è Salvini. Bossi non lo era, Zaia e Maroni non lo
sono, ma Salvini sì ed opera entro tutti i Comuni e le Regioni del Nord
identificati con un Nord che voleva dominare sull’Italia intera dopo
averla conquistata. Non potendo conquistare come nordisti l’odiata Roma,
l’odiata Napoli, l’odiata Firenze, preferiscono andarsene in nome
dell’autonomia. Soprattutto il popolo veneto che non può dimenticare che
furono i loro bisnonni o meglio i loro trisavoli a conquistare l’intero
Mediterraneo, da Costantinopoli alla Turchia e alle sue colonie, alla
Libia e al Marocco compresi Malta e Creta e Cipro e Rodi. E vi pare che
chi ha nel suo spirito questo ricordo e questo messaggio non voglia
l’autonomia dal governo dell’odiata Roma? E il Piemonte? E la Lombardia
delle Cinque Giornate contro l’Austria?
È vero, questo è il nostro
Risorgimento senza il quale l’Italia non sarebbe stata unita. Ma un
fondo populista vede ancora in polemica il Nord e il Sud, oltre
all’autonomismo siciliano e quello pugliese.
***
Torno allo
scacchiere politico (il populismo è un elemento psicologico). La destra
di Berlusconi, di Salvini e di Meloni è unita all’esterno, disunita
all’interno. Ma per la raccolta dei voti si presentano tutti e tre
sottobraccio; tre personaggi da avanspettacolo di notevole qualità, sia
in commedia sia in tragedia. In opera musicale Meloni è un contralto,
Salvini un baritono-basso, Berlusconi tenore o baritono alto. Orchestra
al completo. Del resto il Berlusca con Fedele Confalonieri intrattennero
da giovani il pubblico delle sale da ballo e perfino quello dei
transatlantici da crociera di sessant’anni fa. Che trionfo, che
carriera!
Segue Grillo, lui fa il burattinaio dei vari Arlecchini
dei Cinquestelle. Da qualche tempo tuttavia gli Arlecchini si sono
liberati dalla loro divisa di pezze a colori e hanno scoperto di essere
uomini politici. I quali, fedeli in questo alle istruzioni di Grillo,
non fanno alleanze se non con il loro popolo. E il loro popolo chi è, da
dove viene, che cosa vuole? Il loro popolo non ama affatto la
cosiddetta classe dirigente del Paese, buona o cattiva che sia. Vuole
abbatterla, vuole che il terreno sia spianato, distrutte le siepi, i
giardini con i cancelli, le spiagge libere a tutti, i partiti che non
condividono queste richieste battuti e liquidati. L’Europa?
Chissenefrega dell’Europa. L’euro? Forse era meglio la lira.
Se
non ci fosse il Cinquestelle, che deve chiamarsi Movimento anziché
partito perché partito è un pastrocchio che non dovrebbe più esistere e
loro sono lì appunto per liquidarlo, probabilmente andrebbero a
rafforzare la massa degli astenuti e viceversa: gli astenuti che
decidono di votare vanno alle urne e votano scheda bianca o
Cinquestelle.
Allora facciamo i conti: la destra berlusconiana,
salviniana, meloniana, è fondamentalmente populista, magari sofisticata
perché un programma di governo gli piacerebbe averlo e in parte ce
l’hanno a cominciare dall’anti-immigrazione, sono guidati da un vecchio
miliardario e da un combattivo padano che piace anche all’isola che
sogna addirittura l’indipendenza.
I grillini sono populisti senza
menzionare la parola. Gli astenuti (salvo un 20 per cento che è la
normalità), sono populisti anch’essi. Abbiamo in questo modo due
formazioni politiche arricchite (o disturbate) da frange minori che
stanno in coda al corteo ma comunque ne fanno parte. Ciascuna di queste
forze rappresenta tra il 25 e il 30 per cento dell’elettorato, al quale
bisogna aggiungere un 25-30 per cento degli elettori che non votano,
senza conteggiare quel 20 per cento suddetto.
Il totale — destra,
grillini, astenuti — dà più o meno il 75 per cento. Resta un 25 per
cento dove si insedia il centrosinistra e la sinistra. Queste sono le
operazioni numeriche datate al presente; ci vorranno altri sei mesi
prima che si apra la corsa e molte cose possono accadere. Se cambiassero
però, cambierebbero soltanto in meglio perché peggio di così è
difficilissimo.
Dobbiamo però aggiungere che tutte le forze
(tutte) fin qui esaminate non spendono nemmeno una parola sull’Europa,
salvo talvolta Berlusconi il quale sostiene di piacere ad Angela Merkel e
che lei piace a lui. I seduttori sono simpatici, anche se spesso fanno
danni come i processi sulle “olgettine” hanno dimostrato.
E qui
siamo a Renzi e al partito a lui d’intorno e non tutto schierato in suo
favore. Nel suo caso mi permetto un’altra citazione dall’articolo di
Massimo Recalcati: «Anche dalla psicoanalisi può venire un’indicazione
preziosa: l’accanimento nella volontà di governo che pretende di
sopprimere il disordine tende sempre a rovesciarsi nel suo contrario; un
ordine ottenuto con l’applicazione crudele del potere è peggio del male
che vorrebbe curare; ogni volta che l’ambizione umana cerca di
realizzare un ordine senza disordine si scontra fatalmente con delle
manifestazioni straripanti e anarchiche del disordine. Il governo giusto
non è quello che persegue lo scopo di annullare l’ingovernabile ma
quello che lo sa ospitare».
Più volte ho sostenuto che Matteo
Renzi era un uomo capace di buon governo, ma aveva un grave difetto
caratteriale: voleva a tutti i costi comandare da solo, sistema
incompatibile con una democrazia, soprattutto di sinistra (quella non
più comunista dopo l’arrivo alla testa del Pci di Enrico Berlinguer).
Probabilmente non si tratta di un difetto caratteriale ma
psicoanalitico: se conoscesse bene il fondo dell’anima e le sue
conseguenze sul suo comportamento forse quel difetto scomparirebbe.
Lui
nega sempre con forza di voler comandare da solo. Sostiene che, come in
tutti i partiti, c’è un leader anche in quello da lui guidato, ma è
affiancato da una direzione con la quale spesso si consulta e a volte
anche con persone autorevoli per capacità e per storia che aderiscono al
suo partito e che lui incontra assai spesso per confrontare i punti di
vista e acquisire esperienze e suggerimenti.
In una recente
conversazione telefonica mi ha fatto i nomi di queste persone, tra i
quali ricordo quello di Piero Fassino, di Dario Franceschini, di Andrea
Orlando e di personalità tra le quali primeggia il nome di Walter
Veltroni. Gli ho ricordato che le sue consultazioni sono però a sua
propria disposizione. Per esempio sull’attacco — a mio avviso del tutto
improprio — contro il governatore della Banca d’Italia non ha informato
nessuno, non Veltroni, tantomeno Prodi e non credo che Fassino lo
sapesse. La sua quindi è una consultazione che avviene su sua propria
decisione, non è uno Stato Maggiore che opera con un Capo e con i
comandanti delle varie armate. Se lui non creerà una sorta di Stato
Maggiore non nel governo, dove Gentiloni ce l’ha, ma nel partito, la
questione di un leader che comanda da solo resta ferma e questo non va
affatto bene. Debbo dire che l’ha riconosciuto. Non so quanto valga
questo riconoscimento ma mi sembra doveroso riferirlo.
Il secondo
problema che riguarda il leader e l’intero partito è quello
dell’ingovernabilità che, anzi, è un problema dell’intero Paese.
L’ingovernabilità comporta alleanze e queste bisogna farle prima delle
elezioni. Un’alleanza con Bonino sarebbe molto opportuna e comunque il
partito deve essere aperto non solo nei confronti dell’esterno ma anche
all’interno. Questo significa che il leader si consulta con gli
esponenti più autorevoli del partito su tutte le decisioni da prendere.
Se
questo avverrà il partito sarà profondamente rinnovato e potrà
risolvere in qualche modo positivo il problema dell’ingovernabilità.
Altrimenti la sinistra, quella dentro il Pd e quella che ne sta fuori,
sarà liquidata dal populismo che sta dilagando e se vincerà decadranno i
valori e gli ideali e crescerà purtroppo l’ingovernabilità dei corpi e
delle anime.