Repubblica 10.11.17
Trump sfida la Cina sui commerci. Il dossier ci riguarda ma la Ue tace
I due Leader
di Federico Rampini
PECHINO.
Sulla Corea del Nord c’è un’intesa di facciata (sanzioni,
de-nuclearizzazione) con Xi Jinping. Nelle prossime ore Donald Trump
tenterà di replicarla con Vladimir Putin. Appuntamento ai vertici
Apec-Asean di Da Nang in Vietnam e nelle Filippine. Ma la seconda
giornata della visita di Stato in Cina è dedicata all’altro tema
rovente: l’immenso squilibrio negli scambi tra le due superpotenze
dell’economia globale. Trump spara una cifra ancora più alta di quella
che circola abitualmente: «500 miliardi di dollari annui, questo è
l’avanzo commerciale della Cina nell’interscambio con noi. È enorme, è
eccessivo, state approfittando di noi». (L’attivo cinese è stimato a 310
miliardi, fermo restando che le statistiche sul commercio estero non
sono scienza esatta, è probabile che Trump si riferisca al solo
interscambio di merci, escludendo i servizi come finanza e logistica
dove gli Usa sono in attivo). Trump, lusingato dall’accoglienza regale
che Xi gli riserva, usa un accorgimento diplomatico per dirottare la
colpa dello squilibrio commerciale su qualcun altro. Guarda caso, il suo
capro espiatorio per eccellenza: Barack Obama. «Io non ce l’ho con voi
cinesi, fate i vostri interessi. La colpa è delle passate
Amministrazioni Usa che non hanno difeso la nostra industria e i nostri
lavoratori». La sua conclusione: così non possiamo andare avanti, lo
squilibrio è insostenibile.
Xi gli risponde con una litania di
statistiche, corredata da luoghi comuni del liberismo occidentale. Cita
l’immenso volume delle importazioni cinesi dal resto del mondo, oltre
mille miliardi annui, a riprova che la crescita economica del gigante
asiatico ha un effetto traino sulle altre nazioni. Vero: le ultime
rilevazioni del Fondo monetario internazionale dicono che se la crescita
mondiale è in accelerazione, la causa numero uno è la locomotiva
cinese. Questo non toglie nulla alla gravità degli squilibri,
particolarmente acuti con alcuni paesi occidentali. Xi abbraccia anche
la più classica teoria del liberismo economico, che insegna come gli
squilibri commerciali nascano da vantaggi comparativi, specializzazioni
di ogni paese nelle produzioni in cui è più competitivo, e alla fine
questi squilibri nelle partite correnti vengono azzerati dai flussi di
capitali. Accade da anni nei rapporti Cina- Usa visto che Pechino
reinveste buona parte del suo attivo commerciale in buoni del Tesoro
Usa. Questo nulla toglie all’impatto distruttivo che la concorrenza
cinese ha avuto sul tessuto industriale e sull’occupazione americana (e
di altri paesi industrializzati in Europa). Alla fine Xi aggiunge i
rituali impegni di riforme strutturali che rendano il mercato cinese più
aperto (generalmente disattesi). Regala all’ospite il trofeo simbolico
di nuovi accordi e contratti per un valore immediato di 9 miliardi di
dollari, cioè una goccia nell’oceano del deficit americano. Evoca cifre
mirabolanti di 250 miliardi ma si tratta di proiezioni decennali su
accordi di là da venire.
I temi posti da Trump sono reali. Per
quanto il presidente americano sia sprovvisto di una strategia adeguata
per riscrivere le regole del gioco della globalizzazione, queste regole
sono oggi favorevoli ai cinesi. Quando Trump denuncia il «massiccio
furto di proprietà intellettuale, che ci costa 300 miliardi l’anno», si
riferisce soprattutto a una pratica diffusa: in numerosi settori,
arbitrariamente definiti come «strategici », la Cina accetta sul proprio
territorio gli investitori stranieri solo a condizione che si prendano
un socio locale paritetico, e gli trasferiscano il loro know how. Ma è
un privilegio che fu concesso a Pechino nel 2001 all’epoca del suo
ingresso nella World Trade Organization (Wto). Obama non c’entra,
risalgono agli anni 90 (Bush padre e Clinton) quei negoziati preliminari
sulle regole d’accesso al Wto che consentirono alla Cina regole
fortemente asimmetriche su dazi e tante altre cose. Aveva un senso
perché la Cina era un gigante povero. Ora quelle regole sono superate,
ci danneggiano, ma sono scritte nei testi del Wto e cambiarle non
dipende dalla sola volontà di un presidente.
Non è un problema
solo americano, l’Italia è nella stessa posizione: siamo dalla parte dei
“perdenti” nel confronto competitivo con la Cina. La latitanza
dell’Europa pesa. Trump non ha la preparazione né la squadra in grado di
avviare una revisione a tutto campo delle regole della globalizzazione.
È un negoziato nel quale l’Europa dovrebbe aiutarlo. L’Europa non fa
gioco di squadra perché al suo interno c’è una divergenza d’interessi:
la Germania è filo-cinese e ha comportamenti mercantilisti analoghi a
Pechino, accumula attivi commerciali, e sul mercato asiatico ha una
penetrazione formidabile.