Repubblica 10.11.17
Trump, i giornalisti e la sindrome cinese
di Federico Rampini
«LA
CINA ci ha distanziati, ci ha lasciati indietro». Il vibrante omaggio
di Donald Trump a Xi Jinping avviene al termine del summit, quando i due
appaiono di fronte alla stampa. Ma chiamarla conferenza stampa sarebbe
una beffa. Dentro il salone dell’Assemblea del Popolo su Piazza
Tienanmen, i due rilasciano dei “ joint statement”, dichiarazioni
congiunte. Quando hanno finito di parlare e sarebbe il nostro turno, i
giornalisti cinesi tacciono. Gli hanno insegnato da tempo qual è il loro
ruolo: prendere appunti e stare sull’attenti. Qualche collega americano
prova a gridare domande ai due presidenti. Xi ci ignora, impassibile,
sdegnoso. E Trump è felice di imitarlo. Non risponde neppure a una
domanda. Quello che una volta si sarebbe definito “il leader del mondo
libero”, si adegua volentieri al costume di casa. Raggiante, ha
finalmente trovato uno che la pensa come lui sul ruolo dei media.
Bugiardi, disturbatori della quiete, irrispettosi verso i potenti della
terra. Viene il dubbio che quella sua ammirazione verso «la Cina che ci
ha distanziati» non si riferisca solo al tasso di crescita del Pil,
all’attivo commerciale, o alla modernità delle infrastrutture. Questa
Cina è il paese dei suoi sogni, qui sì che sanno mettere i media al loro
posto. Lungi dall’esportare diritti umani a Pechino, lui vorrebbe
importare l’ordine cinese nella sua America. Da notare che perfino nei
colloqui bilaterali tra le due delegazioni gli americani hanno
cancellato l’espressione “diritti umani”, per sostituirla con un fugace e
blando richiamo ai “diritti individuali” (che forse si riferisce ai
diritti di proprietà intellettuale: bisogna pur difendere i copyright di
Apple e Boeing).
È ormai distante anni luce l’America di Barack
Obama: ancora nel settembre 2016 al G20 di Hangzhou l’allora presidente
osò muovere dei cauti rilievi a Xi Jinping sulla censura, la
persecuzione dei dissidenti, gli abusi contro le minoranze etniche. I
cinesi gli negarono perfino la scala per scendere dall’Air Force One
all’aeroporto, obbligandolo a un umiliante arrivo dalla scaletta di
servizio, lontano dai riflettori delle telecamere. A Trump invece hanno
riservato un trattamento regale. E lui li ha contraccambiati con
generosità.
Essendo stato corrispondente a Pechino per cinque
anni, dal 2004 al 2009, misuro la distanza percorsa. Da una parte la
Cina di oggi ha davvero distanziato l’America per la qualità delle
infrastrutture, la sua ricchezza aumenta senza sosta, i rapporti di
forze cambiano velocemente in favore del gigante asiatico. D’altra parte
le libertà si restringono. Ai miei tempi, appena otto anni fa, Internet
era ancora relativamente aperto, la censura esisteva ma non ci impediva
di leggere tanti siti stranieri. Oggi la morsa della “grande muraglia
di fuoco”, come la chiamano i dissidenti, si è inasprita a dismisura. I
cinesi navigano su Internet quanto noi, sono dei campioni del commercio
online e usano i social media, ma tutto questo accade in un universo
separato, controllato, nazionalizzato. Niente Google né Facebook. Quasi
tutti i siti dei grandi media occidentali sono filtrati o bloccati.
Perfino in quella “bolla extra-territoriale” in cui lavoriamo noi
inviati al seguito del presidente americano, nel centro stampa dove una
task force delle telecom Usa ci garantisce un servizio speciale per
by-passare la censura, siamo colpiti da blackout improvvisi, non abbiamo
accesso a Gmail né a tanti altri spazi di comunicazione occidentali.
Trump
è a suo agio dentro il modello cinese o in compagnia di altri autocrati
che si accinge a incontrare in questi giorni in Asia (Putin, Duterte).
Da Washington arriva una notizia che — se confermata — sarebbe molto più
grave dell’arroganza mostrata col “silenzio stampa” di ieri a Piazza
Tienanmen. Il Dipartimento di Giustizia agli ordini di Trump avrebbe
minacciato di bloccare il matrimonio fra AT&T e Time Warner, se
quest’ultima non vende la Cnn. È noto il livore di Trump contro questa
rete televisiva che lui accusa di essergli ostile. Se davvero il potere
esecutivo usa questi ricatti per condizionare la geografia dei media
americani, allora Washington si avvicina un po’ di più ai metodi di
Pechino e Mosca.