Il Fatto 10.11.17
Parla con Leonard. Quattro passi con il poeta giù dalla Tower of Song
di Francesco Bianconi dei Baustelle
Cara G.,
(…)
Ho appena finito di leggere le traduzioni delle interviste di Leonard
Cohen (…). Tu sai bene quanto sia grande la mia ammirazione per Cohen,
ma forse non sai quanto detesti l’approfondimento delle biografie degli
artisti, soprattutto quelli che amo. È strano: l’arte dovrebbe sempre
coincidere con la vita, no? Ecco, io tendo umilmente, senza strafare, ad
applicare questa formuletta anche alla mia, di vita, ma non la faccio
valere per gli altri. Mi ferisce scoprire che Céline sia stato un
mascalzone, un collaborazionista, mi irrita pensare ai trascorsi
fascisti di Malaparte, mi fa venire l’orticaria scoprire che per Renoir
le donne, da quando hanno smesso di piegarsi a terra per lavare i
pavimenti, siano diventate amanti meno abili. Ma stavolta ho dovuto fare
eccezione. Sono dovuto entrare nella vita di Cohen, quella che sta in
potenza fuori dalle sue canzoni. Ho dovuto profanare il tempio. Cerco di
sintetizzarti che cosa ci ho trovato
Cohen non amava farsi
intervistare. Era schivo, violentava con voce garbata il mondo ma temeva
di violentare la propria storia. Pensava, come molti suoi colleghi, che
parlassero le canzoni e che non ci fosse niente da spiegare. Lo si può
intuire dal timbro di un cantante, il fatto che sia schivo o meno; lo si
capisce dal modo in cui emette una sequenza di note, dalle progressioni
armoniche che usa nelle sue composizioni, dal tono generale di un
arrangiamento, da come una melodia viene portata.
Cohen non amava
spiegare perché i suoi versi posseggono un valore letterario così denso,
complesso e stratificato da innescare nell’ascoltatore un delirio e una
fatica (sia benedetta, la fatica!) interpretativa tali da oscurare e
rendere banale qualsiasi tipo di comunicazione extradiegetica. Faccio un
esempio, il primo che mi viene in mente fra migliaia di possibili:
“Some women wait for Jesus / And some women wait for Cain”; dopo un
distico simile, ogni tentativo di chiarimento appare inferiore al
messaggio di partenza; è prova lampante di come l’oscuro, all’interno di
un discorso artistico, sia superiore al chiaro, di come il mistero sia
più poetico della soluzione. Cohen non amava spiegare le canzoni perché
non era un cantante. O meglio, era uno che aveva cominciato a fare il
cantante molto tardi. Soprattutto in un’epoca, gli anni sessanta, in cui
il ruolo della popstar (e persino del songwriter) coincideva col
possedere le Armi e i Sacramenti della Giovinezza. Cohen era un poeta e
uno scrittore, per certi versi fallimentare, che ha imbracciato la
chitarra quando, secondo i costumi del tempo, era già vecchio. Suppongo
che anche per questo, rispondere alle domande di un capellone del New
Musical Express quantomeno lo mettesse in imbarazzo.
Cohen non
amava farsi intervistare perché non aveva tempo. Cohen amava, scriveva,
viveva. Lasciava tutto e salpava verso Idra, poi si faceva soldato e
andava a combattere per Castro durante la crisi della Baia dei Porci,
per poi rendersi conto di essere esattamente quello che la rivoluzione
comunista combatteva, ovvero un borghese con la mania dei completi
eleganti, e quindi fare retrofront, deporre il fucile e tornare a
scrivere, per poi fermarsi ancora e nascondersi dentro monasteri, ebreo
dentro nidi buddhisti, o cristiano ortodossi, chi se ne frega, seguirne
le regole, tagliarsi i capelli, meditare e pregare all’alba. Per poi
tornare fuori, scrivere, amare, vivere.
Leggendo le interviste di
Cohen, sentendolo parlare della sua vita, e sommando questo al mistero
altissimo dei versi delle sue canzoni (sulla cima della Tower of Song si
ha la possibilità di fare il giro dei merli e guardare l’orizzonte), mi
sono reso conto di avere davanti un uomo con un’ossessione. Che
definirei così: l’ossessione del superamento della materia. Cohen ha
scritto un romanzo, Beautiful Losers, stroncato all’epoca dalla critica
perché giudicato osceno, pornografico. Cohen racconta di relazioni, usa
un lessico a volte osceno – in una canzone famosissima immortala una
fellatio al Chelsea Hotel, e la immortala senza giri di parole (“giving
me head”, canta) – ma non è mai pornografico.
Cohen sente
piuttosto il peso pornografico del mondo, e cerca di liberarsene. Al
giornalista che gli chiede quale sia la sua canzone più rappresentativa,
risponde Bird on a wire, quella che dice “I have tried in my way to be
free”. Liberarsi dal peso della materia, salire più in alto. Sentire,
dentro al biblical landscape che ci è dato di attraversare, la finitezza
dei corpi, della carne, del metallo, del fuoco e dell’acqua, dei fiori e
dei fucili, dei baci e delle coltellate. Il limite del materialismo,
sentire quanto ci va stretto. Cohen sente la vergogna dell’essere un
essere umano, e ce lo dice nelle canzoni in maniera complessa, col
lessico dei poeti, quello che fa entrare in collisione mondi
lontanissimi, il pompino con la Bibbia, e ce lo dice rispondendo ai
giornalisti. Raccontando di sé errante, irrequieto, avventuriero in
perenne ricerca di un mondo diverso da questo.
Per tutta la vita
ha cercato di distruggersi in quanto corpo, in quanto materia. Cohen
voleva trascendere, andare oltre sé. Per questo semmai è erotico, non
pornografico. L’amore, quello vero, dice Byung-Chul Han in Eros in
agonia, è annullare l’ego per entrare in congiunzione con l’Altro
(l’iniziale è maiuscola per evitare fraintendimenti da feuilleton).
Questo emerge dalle canzoni di Cohen, questo emerge dalle sue risposte a
volte stanche e snob, altre volte più partecipate. L’uomo, nel suo
unico senso possibile: colui che ama a tal punto da provare vergogna,
schifo, pietà, dell’uomo stesso, e che ha il coraggio di distruggerlo.